Capita sempre più raramente di leggere testi di questo spessore, capaci di ingenerare a ogni approccio un coinvolgimento emotivo e intellettuale tanto profondo e “radicale”.
La capacità, che emerge dirompente in alcune liriche, di ricreare, attraverso l'utilizzo in chiave antiretorica del lessico delle radici, una “lingua bambina” in grado di ri-definire, ri-plasmandoli, i lineamenti delle cose, è la nota più evidente di questa scrittura oltremodo affascinante.
In essa, infatti, la “lingua-madre” delle radici, più che cristallizzare le immagini per preservarsi in forma di icona, le anima di un movimento vorticoso nel quale sembra ad ogni istante dissolversi, ma dal quale emerge, a barlumi, il volto albeggiante di tutto ciò “ca petai ìesse”. In queste liriche brilla, intensamente, l'epifania di un mondo fermato dallo sguardo nel suo non-ancora, prima di essere parte del reale che illumina con la sua stessa assenza, con la memoria di quanto fu negato: il “miracolo” della poesia: quando accade.
Sembra di vedere in atto in tutta l’opera, attraverso il rovesciamento dell'ottica cara ad Albino Pierro e alla tradizione dialettale che a lui si richiama (tutta tesa a precostituire, in funzione “soterica”, un universo dove il fluire del tempo si arresta e le immagini si ritagliano il senza-luogo di una condizione archetipica, esemplare), una lingua che si insegue, che vive e palpita e che, in ogni momento, si incunea nelle immagini per impedire loro qualsiasi stasi, qualsiasi quiete appagante. È una lingua, quindi, che cerca il “contrasto” per crearsi spazi di esistenza autonomi, e che dal contrasto (ad esempio con gli “inserti” di una lingua omologante, letteraria o quotidiana che sia) esce rafforzata, vitale nella sua convinzione di poter dare volto all'inespresso - perché non ancora -, o all'inesprimibile - perché già stato o mai stato -.
Francesco Marotta
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