Quando rientrava a casa, la terra tremava sotto i suoi passi. I miei figli si nascondevano sotto i mobili e restavano lì per ore senza fiatare, o scivolavano lungo i muri come topini impauriti, muti. E io non capivo perché ne avessero tanta paura, a loro non aveva mai fatto del male.
Il male quell’uomo lo faceva a me. Io vivevo nell’inferno giorno e notte. Soprattutto la notte. La notte arrivava sempre troppo presto e non finiva mai. Io quando mi mettevo a letto ero sempre stanca morta. Lavoravo in una conceria dieci ore al giorno, badavo ai figli e alla casa, custodivo l’orto e il giardino, lavavo e stiravo. Con lui che mi guardava ghignando, che mi alzava la gonna quando stavo in fontana, che mentre zappavo mi diceva all’orecchio: “Sbrigati, che ti aspetto in camera. E non ti lavare, mi piace il gusto del tuo sudore”. Lui lavorava quando capitava come manovale e di quei soldi non ho mai visto un euro. Se li metteva tutti sul libretto postale, così – diceva – se a te ti capita qualche cosa io con i soldi mi ci prendo un’altra donna.
A me lui mi aveva presa senza soldi. Me lo ero ritrovato dentro casa senza neanche sapere come, e me lo ero tenuto. Avevo bisogno di un uomo. Ero rimasta vedova di mio marito quando l’ultimo dei miei tre figli non aveva ancora un anno, e per sfangarla ero dovuta andare a lavorare in fabbrica, a intossicarmi coi veleni della concia, sotto un padrone che sibilava ingiurie come una frusta. Un negriero, che Dio non lo perdoni.
Io maledivo il giorno che mio marito si era messo a lavorare in nero per quel fetente di don Ciccio Scoppola, che faceva le case di sputo e fango e i ponteggi coi legni marci, e mio marito carpentiere aveva fatto un volo di nove metri e si era andato a infilzare ai tondini di una gabbia di ferro ed era rimasto come cristo in croce, ma non sollevato per aria, disteso a faccia in giù, e il sangue gli usciva rosso dalle ferite e diventava subito nero come la terra che se lo beveva. Queste le chiamano morti bianche ma sono morti rosse e nere, più nere che rosse perché i mosconi arrivano a flotte prima dell’ambulanza e si buttano sulla carne e la fanno nera, nera di mosconi neri, e più li scacci e più loro ronzano inferociti. Era di giugno, il tredici giugno, la festa di sant’Antonio da Padova. Io sono devota di sant’Antonio da Padova e lo prego sempre perché giustizia sia fatta e mi venga risarcito il danno. Io ho perso mio marito e il padre dei miei figli. Ma l’avvocato d’ufficio dice che ci vuole tempo e pazienza e fortuna, i poveri cristi le cause le perdono sempre, vedi la fine che ha fatto Cristo.
Così mi ritrovo con quell’uomo per casa, grosso come un armadio e forte come un bue, e mi dico meno male che non solo più sola a tirare la carretta, questo qui mi aiuta a crescere i figli come un padre.
No, non è proprio questo che mi dicevo, non solo questo. La verità è che io ero vedova e giovane e col sangue bollente e quell’uomo ci sapeva fare. Quando mi accorsi che tipo di bestia fosse era troppo tardi, ormai si era accasato e mi teneva stretta in pugno con la minaccia di far del male ai miei figli.
I miei figli non si toccano, gli dicevo, e lui mi rispondeva “allora comportati bene”.
E io mi comportavo bene, stavo zitta e buona qualunque cosa lui si divertisse a farmi. Per amore dei miei figli. Ma per quanto mi comportassi bene quell’uomo era sempre più avvelenato contro di me, ogni scusa era buona per pestarmi e sputarmi in faccia.
Quella mattina, quando lui si alzò prima che io uscissi per andare al lavoro, e mi guardò in quel modo che solo io so, in quel modo che mi fa strizzare le viscere, che mi fa rivoltare lo stomaco per la paura e il disgusto, sentii che era arrivata la mia ultima ora, che non sarei arrivata a notte. E sinceramente dico che la cosa quasi mi faceva piacere, morire non è poi la cosa peggiore. Ma lui disse una cosa che mi gelò il sangue. Disse: “Oggi nessuno esce di casa. Tu non vai a lavorare e i tuoi figli non vanno a scuola, né fuori a giocare. Vi voglio tutti a casa con me, oggi mi voglio godere la famiglia. Me la voglio godere come se fosse l’ultimo giorno che passiamo tutti insieme”.
La parole erano brutte ma il suo sguardo era ancora più brutto. Uno sguardo folle, come d’acciaio quando sopra vi batte il sole. Come una lama, ecco, come una lama d’acciaio arroventata. Non mi potevo sbagliare, ormai quell’uomo lo conoscevo bene. Era un pazzo assassino e stava per compiere una strage.
Mi feci coraggio e feci tutto quello che c’era da fare, come se fosse la cosa più normale del mondo. A mezzogiorno servii alla famiglia riunita le fettuccine col ragù e il pollo arrosto con le patate come nei giorni di festa. Portai a tavola il fiasco di vino rosso, ne versai un bicchiere a quell’uomo e sedetti come sempre alla sua destra.
Durante tutto il pranzo nessuno fiatò, poi lui si alzò e scolandosi l’ultimo bicchiere di vino disse: “Adesso mi vado a stendere un poco sul letto, così quando mi rialzo sono più forte”.
Che voleva dire con quelle parole? Perché aveva bisogno di guadagnare forze per quando si sarebbe alzato? La risposta la sapevo ma non volevo crederci.
Quando lui andò nella stanza da letto spinsi i miei figli fuori dalla porta e gli ordinai di non ripresentarsi prima di sera. Che andassero a giocare all’oratorio. Andarono, e io senza abbracciarli me li strinsi all’anima.
Ero lì sulla porta della stanza da letto e guardavo quell’uomo dormire come un sasso. “Madonnina mia”, dissi rivolta al quadro di sant’Anna e Maria appeso a capo del letto. “Madonna mia bella, dammi un segno”.
E il segno arrivò: quell’uomo emise un rantolo, un rantolo che sapeva di morte, un rantolo di bestia sgozzata.
Poi tutto quello che feci lo feci senza pensare. Andai in cucina e misi a scaldare la padella con l’olio sul fuoco e intanto andai alla legnaia a prendere l’accetta. Presi l’accetta e la padella con l’olio e andai nella stanza da letto. Lui dormiva girato di fianco verso il muro. Gli rovesciai sulla testa l’olio bollente, e con l’accetta presi a colpirlo mirando alla faccia, ora che urlando si era girato dalla mia parte. Colpivo e mi tiravo indietro, colpivo e mi tiravo indietro e così lui non mi poteva acchiappare anche se faceva di tutto per arrivare con le sue grosse mani ad afferrarmi le gambe. Quante volte lo colpii non saprei dirlo, lo colpivo dove capitava, dopo che la sua testa si era tutta spappolata.
Poi chiamai aiuto. Il resto lo sapete.
No, signor giudice, non sono pentita. Se non l’avessi ammazzato lui quel giorno ci avrebbe ammazzati a tutti. Ho salvato i miei figli. Perché non ho denunciato quell’uomo? Ci pensi bene, signor giudice, e avrà la sua bella risposta. Lo sa, no, come funziona la legge.
Io spero, signor giudice, che mi venga usata clemenza considerando la condizione in cui mi sono venuta a trovare, e per il gesto orribile che ho dovuto compiere. No, non è vero che ho fatto un omicidio volontario, io non avevo la volontà di uccidere, ma la necessità di uccidere. Lo capite bene anche voi, io dovevo difendere i miei figli. E poi quando ho chiesto un segno alla Madonna lui rantolò come in punto di morte, e più chiaro di così il segno la Madonna non me lo poteva dare.
Se anche mi condannate a dieci anni – faccio per dire – io quando uscirò di galera avrò certo i capelli bianchi e i miei figli forse nemmeno mi vorranno vedere, o forse mi verranno a prendere tutti e tre insieme per portarmi a casa. Questo nessuno può dirlo, solo il tempo, e spero che il tempo – come si dice – sia galantuomo.
Certo signor giudice non mi sento allegra, e come potrei?, ma dopo tutto quello che ho passato – fra la disgrazia di mio marito e quel porco che mi si è infilato dentro casa quando più mi sentivo bisognosa di aiuto –, finire per qualche anno in galera non è poi la fine del mondo.
Eppure a dirla tutta, signor giudice, io una certa allegria quasi quasi la provo. Quando uscirò fuori di galera – fra dieci anni, fra venti o fra cinque, chissà, e forse poco m’importa – mi metterò a coltivare il mio giardinetto e il mio orto e mi metterò pure a cantare come non faccio più da tanto tempo. Sa, signor giudice, io ho una bella voce da mezzosoprano e mi piacciono tanto le opere – sa quella di Giuseppe Verdi Nell’orror di notte oscura o quella di Giacomo Puccini che fa: nessun dorma, nessun dorma… all’alba vincerò… – e allora mentre curo l’orto magari mi metto a cantare e così i miei figli mi vedono finalmente felice e contenta come quando c’era il loro padre e… a proposito signor giudice, lei sa per caso a che punto si trova la causa di risarcimento per la sua morte, perché a pensarci bene tutto è cominciato da lì, da quando mio marito carpentiere è morto sul lavoro perché non c’era nessuna messa in sicurezza, con quello sporco speculatore di Ciccio Scoppola che pensava solo a fare quattrini per andare a puttane, ma a quelle di lusso, sa, quelle che per una notte ti costano un capitale… ma insomma, non sono fatti questi che mi riguardano, però vorrei sapere signor giudice vostra grazia se è giusto che chi ha ammazzato mio marito, che era una brava persona e un grande lavoratore, la passa liscia, e chi come me, che ha dovuto ammazzare per forza un porco che altrimenti avrebbe fatto strage della mia famiglia, deve andare in galera per non si sa quanti anni, ma sa che le dico signor giudice? meglio viva e in galera che morta e sottoterra, non le pare signor giudice?
Sì, certo, ora sto zitta, ma prima la prego di seguire se possibile la pratica che riguarda la morte di mio marito e il dovuto risarcimento, perché, signor giudice vostra grazia, è da lì che comincia la tragedia che mi ha portata davanti a questa corte. Da una morte bianca per un lavoro in nero.
Maria Lanciotti