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Archeologia editoriale. Angelo Maria Ripellino: Scontraffatte chimere (Pellicanolibri, 1987) 3
04 Maggio 2009
 

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E domani?

Sono il signor Doppelgänger, un’ombra,

e ti vengo dietro zoppicando,

come un dado nel giuoco dell’Oca.

Non appenderti a me, ti abitueresti

al mio vano, al mio irsuto brontolìo,

come al borbottare d’una pentola.

(Una danza di trombe e omini rossi

era quel giorno il tramonto sul mare).

Non lasciarti ingannare dalle mie favole,

da questo bowling di parole, da questo

mastichio disperato di frottole.

Che cosa può, darti il re delle ciarle,

se non un branco di sillabe che hanno

pelame di volpe, ma niente coraggio.

Sono un ex-voto luccicante, inerte:

in me si muovono solo i vocaboli,

torride cascate di fonemi. E il cuore piange.

(Maschere azzurre coprivano il viso degli alberi,

affondavi come una barca nel muschio,

la corteccia odorava come un ricordo).

Sono il signor Doppelgänger un’ombra.

Non invaghirti di me, non potremmo

vivere su una piramide di sedie.



*


Molti leggono ancora «Mein Kampf»

e sognano di far bollire

il prossimo su una graticola,

molti curano l’anemia del mondo

coi paroloni bavosi come lumache,

manovrando i reostati di mostruosi magneti,

con lingua di formichiere essi leccano

il pube della violenza.

Dal coito dell’onore e della forza

nasce, pidocchiosa, la tortura.


Quante verdi cose scricchiano, piangendo

nelle rozze mani di costoro.

Come lampade, gli eroi si schiantano

sotto i loro tacchi di ghisa.

Con le pinze attaccate al lobo d’un orecchio

saltano come ranocchie

in un fiume disseccato,

hanno la gola secca

ma non parleranno, perché non è morta

la forza, la dignità degli uomini



 

*


Mi sono scelto una sposa,

bionda e bella come Pearl White.

È nata sui tetti di Praga,

città radicata al mio cuore,

e sgambetta affannata per le stanze

come nelle straducole sghembe

d’un variopinto quartiere cinese.

Una sposa a tutto vapore,

che piange ogni tanto per nulla,

come un attore che reciti per puro giuoco.

Per me, arrugginito nei libri,

somiglia a un allegro cow-boy

su grigi prati di legno.

Mi ha regalato due figli, due piante

con foglioline di ruvida seta

con occhietti furbi, due scoiattoli

che girano come due trottole

nel mio levigato silenzio.



*


Scalpiccìo di cavalli di piombo,

rotolare di vecchie latte vuote,

svolazzanti ombrelli sulla testa,

frecciate di trombe di rame,

bugie barbute come vecchi stolti,

raganelle fradicie, sogghigni

di buffoni dal naso vermiglio,

e poi un dolce pastello, una donna

che piange e sorride, che piange e sorride.



 

*


Di glicini lilla si inonda la vita,

di tremule, gracili fiamme di sole.

Preme l’immensità sulle pupille,

sulle palline degli occhi.

Ci si sente più semplici. Il linguaggio,

dopo gli epifonemi dell’inverno,

ha parole serene, ed ogni sillaba

rimbalza fra le sciabole del sole

sugli specchi dell’aria e sulle dolci

altalene d’un vento ballerino.

Come diventano inutili i libri

e gli scaffali che li seppelliscono,

e com’è vano tutto ciò che scrivi,

come invecchia ogni rigo, ogni tua smorfia,

ogni tua gonfia immagine grottesca

di fronte alla schiettezza della luce,

a questo fiorire di glicini.




La vecchina


Avrebbe voluto che il figlio

diventasse un agente di assicurazioni o un referendario

Ma egli è partito senza dir niente

e chissà dove si trova, a Salisburgo o a Pamplona,

a Bamberga o nella città di Polonia.

Vive sola la vecchietta dalle guance-meluzze,

dalla pelle di seta con ricami di rughe.

Le sarebbe piaciuto tenerselo accanto,

ma i figli fuggono, e il destino è destino.

Il marito, impiegato alle Poste, si è spento

molti anni addietro. Nella tana in cui vive

la vecchietta conserva i suoi sparati di celluloide,

le sue bombette ed intere flottiglie

di colletti duri del tempo di Vienna.

Deliziosa vecchina un po’ storta. Le pende

la sghemba e lunga sottana di mussola.

L’unica consolazione è una fulva

gatta viziata di nome Rosa Valetti.

11 suo scantinato: che orrendo disordine:

mucchietti di resti di cibi, ciocche di capelli,

biglietti ferroviari, cavatappi arrugginiti,

flaconi, barattoli, scarpe, forcine, cappelli.


Da quando Mirek è partito, resta poco in casa.

Non fa più quei dolci che prima preparava

come una liturgia secondo le ricette

nascoste in un cassetto come gioielli di famiglia.


Va da una vecchietta all’altra: tutte bigotte

e con loro in chiesa ad ascoltare padre Giona,

che emerge dal fondo del pulpito come da una balena

Va a piedi, sebbene malferma, nei giardinetti

a osservare le piccole anatre goffe

che pattinano nel la ghetto gelato.


Sono grigie le sue giornate col pensiero

al figlio lontano. Spera di sopravvivere

sino al SUO ritorno. L’hanno invitata alle nozze

d’una ragazzina smancerosa con un impiegato

al Ministero delle Tasse. Oh, l’orchestrina:

la gialla macchia di Una tromba di rame,

un primo violino dal sorriso furbesco di volpe,

un secondo violino nerissimo che risponde al sorriso

con una gioia artefatta, una grancassa, una viola

e Johanfles Kreisler che dirige,

la stanza è imbottita di volgari bouquets stridenti.

C’è un testimone aviforme in prefettizia arancione

e cappelliera arruffata. Un vecchietto zio dello sposo

con una parrucca rossiccia e un abisso di bocce.

Nasi bitorzoli e nasi di carnevale. Occhi sghembi

E le amiche della sposina bambole ottuse.

E sei sola in mezzo a quella nausea filistea.


Allevare un figlio, tremare per la sua crescita,

dargli tutta l’anima, e poi ecco quel figlio

parte, non dà più notizie, lui che era appeso

come un frutto ai rami del cuore.


Dove sarà in questo momento? Chissà se ricorda

la sua vecchia casa. Tornata dalle nozze

la vecchia accarezza Rosa Valetti, che le fa le fusa.

Nel dormiveglia le appare un corteo

di fidanzate vestite di bianco,

che viene da lei nella neve per chiedere in sposo

il suo Mirek. Bianco crespato, bianco vaporoso,

gorghi di bianco, spume bianche avanzano

nel blu della notte, come in un circo lunare.

Maestose le passano dinanzi alla finestra

lavandaie metafisiche, con un inchino d’altri tempi.

Ed una più lenta lascia cadere una scarpina.


Ogni mattina aspetta al davanzale la mano

del postino.

Di dietro l’angolo appare nel suo verde brughiera

con alto cilindro e la borsa rigonfia.

Ha il naso arrossato e la mano piena di lettere.

Una busta per me? si chiede la vecchina.

Una busta con occhi di francobolli esotici,

con merletti di francobolli, una busta tutta mia.

Ma sempre svolta il postino verso la strada vicina

e la grande mano sparisce, lasciandola triste.

Interminabili giornate. Va a guardare i treni,

i lunghi pennacchi di fumo.


Si nutre poco la vecchina e del resto

è ben magra la sua pensione. In mezzo

ai dischi e ai libri del suo Mirek, incagliata

come una nave tra lastre di ghiaccio.

Le giunge notizia che Mirek lavora

in un circo oltre la Vistola. E poi che è impiegato

come manovratore alla stazione di Kufstein,

dove hanno una lontana parente,

Frau Chwalla, impiegata al Reiseburo.

Passano gli anni: è sempre sola.

Nella vuota casa pesa la tristezza.

Ora darà via tutti gli oggetti, per ritirarsi

in un ospizio per i vecchi.


1977



*


Verrai ogni tanto a visitarmi sottoterra

come una bionda Persefone

in mezzo alle larve baritonali.

Ricordi: già ne parlammo a Wiesbaden.

Mi promettesti che quando prenderò alloggio dall’orco

di tanto in tanto verrai

per un breve soggiorno

a consolare la mia malinconia,

il mio desiderio della terra,

a narrarmi degli amici.

E non importa se i figli

ti prenderanno per matta, pensando

che ciò che è morto va dimenticato

e che è assurdo questo lugubre turismo.



*


Il mio corpo era un groviglio di piaghe,

di buchi, di ulcere, di croste necrotiche,

un insieme di scorie, filacce,

pomate distese su crepacci,

il mio corpo era tutto scavato

da solchi e scoscendimenti,

quando il barone Cyclette,

piegandosi sulle gambe,

mi ordinò moto, sforzi, fatica,

flessioni, piroette, come nei Campi Elisi.

Costui aveva pietre luccicanti invece di occhi

e le sue mani brillavano di mie monete.



 

*


Verde pastello con zafferano

splendeva la mia urina.

Speravo che non mi tradisse,

che non mutasse colore

che non diventasse verde

come una morta laguna.

Ho fede nella mia urina

che mi parla di cose segrete

che avvengono dentro il mio corpo,

essa mi porta notizie,

e quando è discreta,

non grondante come acquazzone

ma timida come una bambina,

allora mi rasserena.




Racconto



Ivan Invanovic, secondo consigliere

dell’Ambasciata sovietica a Roma,

vuoi disfarsi della maschera di Gogol

che lo opprime.


Maschera con grande Naso.

Si gonfia come ampolla di cerusico

nei suoi deliri.


Vuoi regalarla, ma gli amici non la vogliono.

«Abbiamo la casa piena».


La getta dalla finestra, ma gliela riportano.


La abbandona in un deposito di moderni

rifiuti di pittori, ma il custode gliela rende.


La Sacra Famiglia la respinge.


Intrighi del capitalismo?

O intrighi del viceconsole?

 

 

 

 

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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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