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John Steinbeck: La luna è tramontata. Ri-lettura di Maria Lanciotti
17 Aprile 2009
 

Di Steinbeck amo tutta l’opera, ma per questo romanzo ho un attaccamento particolare. Pari forse a quello che provo per il suo capolavoro Uomini e topi (1938) nella traduzione di Cesare Pavese. Un romanzo scarno, umanissimo e atroce, dove la lotta tra il bene e il male corre sul filo del rasoio e fino alla fine i conti restano aperti e oppugnabili. Chi è il peggior nemico dell’uomo – sembra volersi chiedere Steinbeck – se non se stesso? E chi altri può salvare l’uomo, se non l’uomo stesso? e con quali mezzi, se non con la forza di una idea radicata e condivisa portata avanti con unità d’intenti?

      

Senza riferimenti precisi a date e luoghi, la storia narrata in questo romanzo resta attualissima e valida nel promuovere riflessioni sull’insensatezza della guerra e sulla inevitabilità della resistenza di chi vi si oppone, su quanto incida sulla formazione di un popolo il tipo di governo e l’organizzazione politica di uno Stato, e come la ribellione di un singolo possa riuscire a smuovere la reazione della collettività. E come sia praticamente impossibile “infrangere per sempre lo spirito dell’uomo”.

Una frase, pronunciata in un momento di debolezza da un “conquistatore”,  compendia l’orribile inganno in cui vanno a cadere vinti e vincitori, indistinguibili nella comune sconfitta: “le mosche conquistano la carta moschicida”.

Un libro che mi porto dietro dal 1965, quando lo trovai in una bancarella dell’usato sotto gli archi di San Giovanni a Roma, nell’edizione integrale pubblicata con gli Oscar Mondadori con la traduzione di Giorgio Monicelli. Ogni volta che lo rileggo è come riscoprirlo, spianare una nuova piega nel ventaglio dei tanti significativi passaggi, apprezzarne con maggior gusto e commozione i dialogati, le citazioni finali.

        

E’ domenica mattina. Tutto sembra svolgersi come di consueto in una tranquilla cittadina di minatori, quando con una azione rapida e imprevedibile un nemico calato dal cielo coi paracadute ne prende possesso. In pochi minuti l’intera guarnigione locale viene sgominata, i pochi funzionari comunali vengono rinchiusi nella prigione e il battaglione armato di fucili mitragliatori gira per le strade al suono della banda di ottoni. Come è potuto accadere tutto ciò? Opera del signor Corell, noto commerciante del posto e traditore del suo popolo, che ha spianato la via agli invasori. Tutto si svolge con metodo e celerità. Sotterrati i morti, sistemato il battaglione in certi locali del signor Corell, il colonnello Lanser, a capo degli invasori, chiede udienza al sindaco Orden. Il dottor Winter, storico e medico della città, “così semplice che solo un uomo profondo poteva conoscere la sua profondità”, frequentatore abituale della casa del sindaco di cui è grande amico fin dai tempi della scuola, viene informato da Giuseppe, il domestico, a sua volta informato da Annetta la cuoca,  che il sindaco si sta preparando per ricevere il colonnello nella sua casa, alle undici in punto. Il capitano Bentick accompagnato da un soldato arriva in anticipo per controllare  che tutto in casa sia tranquillo, mentre il sindaco è ancora preso dalle cure di sua moglie che gli sta tagliando i peli delle orecchie perché vuole che suo marito faccia la sua bella figura davanti al conquistatore. I militari controllano che non vi siano armi in casa né addosso al medico e al domestico, e il tradimento di Corell viene rivelato con grande sconcerto da parte del dottor Winter, che ripensando alle iniziative apparentemente benefiche del suo concittadino ne capisce i reali intenti. Arriva puntuale il sindaco Orden, elegante e con il collare distintivo della sua carica, seguito dalla sua  fiera signora che continua a prendersi cura di lui, aggiustandogli il nodo della cravatta e rimproverandolo per certi atteggiamenti non consoni alla figura che rappresenta. Il signor Orden è sindaco della città da così tanto tempo da essere diventato una Idea di Sindaco, un Simbolo vivente per tutti e anche per sua moglie, che mai aveva confuso il Sindaco con il marito. Consegnati i suoi schioppi da caccia tenuti in un armadio in camera dal letto insieme ai bastoni da passeggio, il sindaco Orden  attende che il colonnello Lanser si presenti, mentre la sua signora si chiede se sia il caso o meno di offrire una tazza di tè o di vino ai loro ospiti, per quanto indesiderati. Si discute su tale opportunità, rispolverando consuetudini di popoli antichi, ma il sindaco Orden scarta perentorio l’idea: non si berrà in casa sua vino col nemico, per il rispetto dovuto prima di tutti alla popolazione. Una popolazione vissuta in pace per tanto di quel tempo da non sapere più cosa sia la guerra, e piombata dopo il repentino attacco in uno stato di grande confusione. L’invasore dispone solo di alcune centinaia d’uomini ma tutti armati di mitragliatrici, e non hanno trovato altra resistenza che quella degli uomini della guarnigione, dodici in tutto e male armati, di cui sei sono stati uccisi, tre feriti e tre che si sono dati alla fuga.

Il colonnello Lanser arriva insieme a Giorgio Corell, il traditore, messo immediatamente alla porta dal sindaco Orden. Il colonnello spiega i motivi dell’invasione, come volendo trattare un affare: essi hanno bisogno della miniera di carbone della città e della pesca, e chiede collaborazione. Il carbone deve essere estratto e caricato sulle navi e non vi saranno guai per nessuno. La popolazione vive da quattrocento anni sotto il governo che essi stessi si danno, è gente disciplinata e rispettosa, ma non si può prevedere come reagirà di fronte a determinate imposizioni. “Il mio popolo non ama che altri pensi per lui”, dice il sindaco Orden  al colonnello. “Forse è diverso dal vostro popolo. Sono confuso, ma di questo sono sicuro”.  Ed ecco infatti che nascono i primi guai quando Annetta, la cuoca, si sente spiata nella sua cucina dai soldati di guardia e getta loro addosso acqua bollente.

Il colonnello Lanser  stabilisce il suo quartier generale al piano superiore della villetta del sindaco, nonostante la tentata opposizione di Orden che vede in questa forzata convivenza una offesa al suo popolo. A differenza dei suoi uomini, che prendono la guerra come un gioco, il colonnello Lanser conosceva la guerra e ne era stanco e disgustato, consapevole che nessuna disfatta duri all’infinito, così come nessuna vittoria.  Si inizia a progettare una ferrovia per potervi trasportare i vagoncini carichi di carbone dalla miniera alla nave, ansiosi di condurre presto a termine l’operazione e lasciare il posto. 

Tutto sembrava tranquillo, la popolazione sottomessa, ma qualche piccolo incidente inizia a verificarsi mettendo in allarme il colonnello. Gli torna in mente una vecchietta mite e fragile che in un’altra zona di guerra cantava le loro canzoni nazionali con voce dolce e tremula, e sapeva come procurare loro una sigaretta o una donna. Non sapevano che suo figlio era stato fucilato. Quando la condannarono a morte la vecchietta aveva ucciso una dozzina di uomini col suo spillone da cappello. Venne fucilata ma gli uomini continuarono ad essere assassinati, e quando cominciò la ritirata la popolazione fece cose terribili ai soldati che riuscì a sorprendere. E mentre  il colonnello ricorda l’atroce episodio, gli viene comunicato che un suo ufficiale è stato ucciso col piccone da Sandro Morden, un giovane minatore. Per il colonnello Lanser è come ricominciare di nuovo la storia: avrebbero fucilato il giovane e si sarebbero fatti venti nuovi nemici. 

Un’aria tetra cala sulla città. La popolazione comincia ad unirsi, a coalizzarsi. Il minatore viene processato nella casa del sindaco, proprio nella casa dalla quale il popolo si aspetta giustizia. Anche questa una mossa strategica dell’invasore per screditare il sindaco e sfiduciare la città.  Ma il popolo non si sente vinto, la sua docilità è solo apparente e inganna l’invasore.

     

“Non c’è legge tra voi e noi – dice il sindaco al colonnello Lanser –. “Questa è guerra. Non sapete che dovrete ucciderci tutti o col tempo noi uccideremo tutti voi? Voi avete distrutto la legge quando siete arrivati, e una nuova legge ha preso il suo posto. Non lo sapete?” I due capi si fronteggiano lealmente, crudamente ed entrambi sanno  come sia impossibile “infrangere per sempre lo spirito dell’uomo”.

    

Sarà guerra di logoramento finché non cederà una delle due parti. L’odio della gente per l’invasore si fa quasi palpabile. Gli incidenti ai vagoncini s’intensificano, il carico di carbone subisce rallentamenti inspiegabili. Sandro Morden  viene processato e condannato a morte per l’uccisione del capitano Bentick. Non si dichiara pentito: gli sono stati impartiti degli ordini che non riconosce e non accetta, in quanto uomo libero. Il suo è stato un atto chiaro di ribellione che smuove l’ira pubblica, e fa del popolo un uomo solo. Questo ci tiene a dirgli il sindaco Orden, prima che il minatore venga fucilato.  S’inasprisce la resistenza e la risposta dell’invasore. Incidenti alla miniera, alle macchine, alla ferrovia, a cui seguono fucilazione per rappresaglia.

    

Gruppi di giovani minatori riuscivano a scappare in Inghilterra e in seguito gli inglesi bombardavano la miniera di carbone danneggiandola e uccidendo amici e nemici. Un odio silenzioso assediava i conquistatori. Nessun momento di distrazione era loro concesso: la morte silenziosa era in agguato. Razionarono i viveri, dandone solo a chi doveva lavorare nella miniera. Più profondo divenne l’odio negli occhi della gente affamata, più numerose le sparizioni degli uomini del battaglione. La solitudine, la paura prese a devastare  gli invasori, desiderosi solo di abbandonare quel luogo e tornarsene a casa, ai loro affetti, al loro lavoro abituale. I soldati presero ad impazzire, piangevano e gridavano notte e giorno finché non venivano rimandati  a casa. O diventavano crudeli  e disumani.

L’inverno si fece fondo e lunghissimo. La città era oscurata contro i bombardieri inglesi, ma quando questi arrivavano qualche luce appariva sempre nei pressi della miniera. Le sentinelle trovavano un uomo con la lanterna  o una torcia elettrica  e procedevano alla sua fucilazione, ma le segnalazioni continuavano. La ferrovia veniva colpita continuamente, veniva riparata e di nuovo colpita. Sabotaggi e fucilazioni  avvengono a ritmo sempre più serrato. I minatori vengono avvisati: o tirano fuori il carbone o le loro famiglie non riceveranno più cibo, ma neanche questa minaccia ottiene l’effetto sperato. Gli uomini del battaglione non ne potevano più di quella gente di ghiaccio, disperatamente desideravano il calore di una casa, di una donna. Sono isterici, fanno discorsi scombinati, non distinguono più sogni e pensieri.  Si sentono presi in trappola, ingannati dal loro “Capo” che vuole conquistare il mondo intero e dà per certa la vittoria. “Forse il Capo è pazzo. Le mosche conquistano la carta moschicida. Le mosche occupano duecento miglia di nuova carta moschicida!”

Il sottotenente Tonder vagando per la città coperta di neve va a bussare alla porta di Mariuccia, vedova Morden. Ha solo bisogno di parlare con una donna, nella tranquillità di una casa. Diventa sentimentale, si lascia andare a confidenze  e recriminazioni: “Un uomo ha bisogno d’amore. Un uomo muore, senza amore”. Una debolezza che gli sarà fatale, scomparirà come tanti altri suoi commilitoni.

Alcuni giovani salpano per l’Inghilterra con l’intenzione di chiedere aiuto, di far presente la reale insostenibile situazione che la città sta vivendo. Hanno bisogno di armi semplici, segrete, insidiose, per una guerra che non può essere onorevole.

Aerei cominciano a sorvolare la città, lasciando cadere a terra centinaia di pacchetti azzurri attaccati a piccoli paracadute. La gente andava e raccoglieva quello che chiamava “il dono”, incaricando anche i ragazzi di individuare quelle piccole macchie  azzurre e di avvisare i genitori. I pacchetti contenevano tubi pieni di dinamite con le istruzioni per l’uso ed una tavoletta di cioccolata, e tutti ne andavano a caccia. Una trovata diabolica che provocò un’altrettanto diabolica risposta: dallo stato maggiore viene ordinato ai soldati di preparare trappole grossolane e di avvelenare la cioccolata. La spietatezza di entrambi i fronti raggiunge il culmine, si lotta strenuamente per la vita. Il sindaco Orden viene preso in ostaggio, la sua vita attaccata all’accensione di un solo tubo di dinamite. Si sparge la voce che il sindaco è stato arrestato e tutto il piccolo popolo segretamente giubila. Il sindaco Orden ora è più che mai un simbolo, rappresenta tutti loro e il loro anelito alla libertà.

Conversano il sindaco e il dottor Winter pacatamente, per tenere lontana la paura e la tentazione di cedere ad avvilenti patteggiamenti con il nemico, ricordando le parole dei grandi:

“Ti rammenti a scuola, dell’Apologia? Ricordi quando Socrate dice: “Qualcuno dirà: “Non ti vergogni, Socrate, del corso di una vita ch’è suscettibile di portarti ad una fine prematura?”. A lui potrò giustamente rispondere: “Ti sbagli: un uomo che sia veramente giusto non deve calcolare le probabilità di vivere o di morire; deve solo considerare se quello che fa è giusto o non lo è”.

E continuano con le citazioni, sforzandosi di ricordare le parole antiche, dandosi il cambio e correggendosi come facevano da studenti, mentre il  colonnello Lanser ascolta e le sentinelle  stanno sull’attenti:

“ E ora, o uomini, che mi avete condannato, vorrei fare una profezia… perché sto per morire… e… nell’ora della morte… gli uomini sono dotati di poteri profetici. E io… predico a voi, che siete i miei assassini… che immediatamente dopo la mia… la mia morte…”

“Dipartita”, lo corregge il dottor Winter, ma il sindaco insiste nella sua versione e allora interviene il colonnello Lanser:

“E’: “immediatamente dopo la mia dipartita”.

“Predico a voi, che siete i miei assassini, che, immediatamente dopo la mia… dipartita, un castigo di gran lunga più grave di quello che mi avete inflitto vi attenderà sicuramente. (…) se credete che, uccidendo uomini, possiate impedire a qualcuno di censurare le vostre vite malvagie, siete in errore…”

La memoria non assiste oltre il sindaco Orden, troppi anni sono passati da quando lesse quelle parole sui libri di scuola. Egli è stato preso come ostaggio per ricattare il suo popolo, ma non funzionerà: il sindaco ha sempre indicato loro la via della dignità e dell’indipendenza, essi faranno a meno della sua vita, ma non del suo insegnamento.

Fuori, le esplosioni  seguono alle esplosioni, e il sindaco Orden, prossimo a morire, condannato a pagare il prezzo di una libertà senza prezzo, raccomanda al suo amico il dottor Winter:

“Critone, debbo un gallo a Asclapiade. Ti ricorderai di pagare il debito?”

“Il debito sarà pagato”.

   

                                                                Maria Lanciotti 

 


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