È stato uno dei più grandi cannonieri italiani. Goal a raffica per Sergio Brighenti, classe 1932, modenese trapiantato a Milano, gloria del calcio e persona educata e per bene. Nella sua bacheca spiccano i due scudetti conquistati con l'Inter nelle stagioni 1952-53 (4 presenze) e 1953-54 (15 presenze e 9 reti), quando aveva da poco doppiato la boa dei vent'anni, ma già aveva il vizio di gonfiare le reti. Lo incontro in una frizzante domenica mattina milanese, la sua via chiusa al traffico per una festa di quartiere. Il vecchio (si fa per dire poiché i suoi 77 anni sono portati divinamente) campione è sereno e a suo agio e parla volentieri di sé e delle sue antiche gesta agonistiche.
Era, quella, un'Inter provvista d'innumerevoli e fenomenali campioni – il fantasioso e matto Karl Lennart Nacka Skoglund, il toscanaccio di Borgo a Buggiano Benito Veleno Lorenzi, Giorgio Ghezzi il portiere kamikaze - in cui il giovane Sergio recitò la sua egregia parte, ma ciò non gli evitò di dovere dopo tre anni cambiare aria... «Purtroppo ne sono morti tanti. Siamo rimasti io e Osvaldo Fattori. Anche i dirigenti sono morti. Provo un po' di nostalgia e rimpianto. Nonostante vincessimo c'erano sempre controversie fra i giocatori, soprattutto fra anziani e giovani. La prima partita di Moratti padre come presidente fu un Triestina-Inter che vincemmo 1-0 con un mio gol. Lui, mi pare, doveva in quei giorni varare una nave petroliera a Trieste, o qualcosa di simile. Fu felicissimo e mi convocò per regalarmi una moneta d'oro. Quando i vecchi lo seppero, mi fecero un mazzo tanto... Com'è che tu che sei così giovane sei già il pupillo? Anche i miei 20 gol in 40 partite crearono antagonismo. Ci fu infine una diaspora di giocatori e io fui mandato in prestito alla Triestina (54 presenze e 13 reti). C'era sempre una clausola secondo la quale non potevo andare in un'altra delle grandi del campionato, come Juventus o Milan – l'Inter poneva sempre il veto –, e questo, unito al fatto che c'era sempre una prelazione a favore della squadra che mi aveva in comproprietà, m'impedì sempre di tornare presso i nerazzurri. Anche se a Padova, per esempio, ero un reuccio, mi sono sentito un po' defraudato, nel senso che io ero innamorato dell'Inter per la quale accettavo di giocare anche con le riserve. Avevo un problema: non sapevo gestirmi nelle pubbliche relazioni».
Di Nereo Rocco, il Paròn, suo allenatore al Padova, è appena ricorso il trentennale della morte. Un suo personale ricordo... «Io ero un giocatore molto tecnico, ma non bastava giocare bene al pallone. Le riporto una frase alquanto emblematica, ovviamente in triestino, di Nereo Rocco... Buso de mona, se te caschi per terra mì no te fazo più giogà. Io ero un giocatore molto tecnico, ma con lui ho imparato a resistere a contatti e cariche. Il periodo di Padova mi ha fatto mettere grinta”.
All'Appiani, mitico stadio dei biancoscudati veneti, anche gli squadroni tremavano e spesso soccombevano... «Milan e Inter erano vittime predestinate. Guardi da queste foto che folla che c'era! (In effetti gli spalti sono gremitissimi e la gente giunge sino ai bordi del terreno di gioco, nda). Comunque ho segnato tanti gol anche alla Juventus».
Si dice che Rocco fosse il catenacciaro per eccellenza. In realtà giocava con 3-4 attaccanti contemporaneamente... «Sì. Anche se i difensori erano bloccati. Rocco non voleva fluidificanti. Io e Hamrin perciò eravamo costretti anche all'individualismo. Per fortuna fra noi c'era una grande intesa. Al Padova avevamo sempre un'ala destra eccezionale: prima Kurt Hamrin, poi Mariani e infine Marino Perani. Io segnavo e facevo segnare. A me piaceva partecipare alla manovra. Le mezzeali che giocavano con me segnavano sempre». Per Sergio a Padova 91 presenze e 50 reti e nel 1957-58 la squadra della città di Sant'Antonio conquista un incredibile terzo posto. Questa la formazione dell'impresa: Pin, Blason, Scagnellato, Pison, Azzini, Moro, Hamrin, Rosa, Brighenti, Mari (Chiumento), Boscolo.
Sergio Brighenti o Brighenti II, il marcatore principe del campionato di serie A 1960-61 con la maglia blucerchiata della Sampdoria trascinata dalle sue marcature a un fantastico quarto posto in serie A... «Feci 28 reti, anche se gli almanacchi me ne attribuiscono 27. 28 reti, e lì cominciarono i miei guai. Anche se nel frattempo ero pure diventato il capitano della Nazionale. Capitò invece che Sivori con i suoi 25 gol, 6 dei quali segnati ai ragazzini dell'Inter, mi portò via un paio di premi: i più facoltosi. Perché io fui sì capocannoniere, ma il quoziente reti era più favorevole a lui, perciò si prese lo Chevron-Sportsman e in sovrappiù il Pallone d'Oro, per il quale sarei stato designato dall'Italia. I premi furono perduti da me e dalla Sampdoria dove allora giocavo. Fu colpa di quella partita Juventus-Inter sospesa per invasione di campo e fatta rigiocare. L'Inter per protesta mandò la squadra dei ragazzini. In sostanza, il 2-0 a tavolino non fu dato alla Juventus che poteva essere responsabile, in principio, dell'invasione di campo né all'Inter che, dopo, mandò per la ripetizione del match dei giovanissimi (fra cui Sandrino Mazzola, al suo esordio, con gol su rigore, nda). La gara finì 9-1 per la Juventus, con i 6 gol di Omar. Ne nacque una guerra fra Inter e Juve in cui io e la Samp, incolpevolmente, ci trovammo messi in mezzo. E io, a seguire, non fui più neppure convocato in Nazionale, così come i miei compagni convocabili Bernasconi e Marocchi. Ed ero il capocannoniere in carica, l'italiano che segnava in mezzo a tanti stranieri! Con un mio gol avevamo pareggiato per la prima volta in Inghilterra contro la Nazionale britannica. Al posto mio furono convocati gli oriundi. Fu uno schiaffo penoso perdere il posto in azzurro e fu una grave crisi personale: ebbi un collasso e caddi in depressione. Si dimise anche il presidente della Sampdoria, e il nuovo, contrariamente a quello che l'aveva preceduto, pose l'ennesimo veto al mio ritorno all'Inter di Helenio Herrera: a quella che sarebbe divenuta la Grande Inter. Un danno anche questo».
Che cosa aveva in più e che cosa in meno il calcio dei suoi tempi con quello attuale? «Ai miei tempi c'erano molti più giocatori tecnici: dispersivi perché spesso individualisti, ma eccezionali nel gioco. Ora i centravanti sono più attendisti. Credo comunque che per un attaccante fosse più difficile giocare allora. Tanti di quegli attaccanti con certe difese in linea di oggi farebbero più gol. Del calcio di oggi mi piace la partecipazione dei difensori al gioco. Non mi piace invece un certo decadimento della tecnica individuale e del dribbling, sempre più raro fra i giocatori italiani».
Lei ha smesso a 32 anni, un po' troppo presto... «Mi fece smettere un infortunio con successiva osteomielite».
Che tipo di attaccante era lei e in chi si riconosce maggiormente fra i giocatori della contemporaneità? «Avevo un destro preciso e un sinistro potente, colpivo bene la palla di testa – mi ero molto allenato in questo fondamentale, ai tempi di Modena con un preparatore di atletica leggera –, dribblavo, ma, come detto, mi piaceva muovermi. Quando vedevo giocare Crespo al Parma mi rivedevo in lui. Nell'immediato dopoguerra giocai centromediano metodista con la Nazionale del Nord-Italia Under 19 contro l'Austria, a Bologna. Nel Modena ho debuttato in B come mezzala destra. Il mio giocatore preferito da bambino era Valentino Mazzola. Quando lui veniva a Modena con il Grande Torino, alloggiava nell'albergo di mio padre. Quelle domeniche io facevo in modo di farmi mettere come raccatapalle allo stadio. Valentino aveva finezza e potenza. Stravedevo per lui. Peppino Meazza? Di una simpatia ineguagliabile. E devo sempre ringraziare i grandissimi allenatori che ho avuto: Alfredo Mazzoni, Senkey, Alfredo Foni, Peppino Meazza per l'appunto, Eraldo Monzeglio, Nereo Rocco, Pasinati».
Le capita ancora di essere fermato in strada da gente che la riconosce? «Tantissimi mi fermano per strada con affetto».
Che cosa fa oggi, Signor Brighenti? «Ho allenato l'Under 21 e sono stato il vice di Vicini a Italia '90. Ho fatto tre Mondiali e due Olimpiadi. Ora sono in pensione. La FIGC mi ha richiamato con il compito di d.t. per una squadra Over 35 con cui abbiamo anche vinto la Coppa Europa. Erano tutti ex nazionali. Antognoni gioca ancora molto bene, seppure un po' da fermo. Poi aiuto, per amicizia, andando a vedere giovani giocatori, Giampiero Marini dell'Under 21».
Il compagno di squadra indimenticabile? «Tanti. Con Skoglund avevo un'intesa in campo eccezionale e fuori cercavo di distoglierlo dalle cattive compagnie. Ricordo ancora il clamoroso 6-0 contro la Juve: facemmo due gol a testa. Ero molto amico anche di Maino Neri e di Ghezzi».
Il ricordo più bello e il goal, fra i 136 realizzati in A, che non si può scordare? «Il ricordo più bello è il mio goal di Londra contro l'Inghilterra, il primo di un italiano a Wembley. Facemmo 2-2 e non perdemmo. Il più bel gol, quello contro il Bologna: era un'ultima partita di campionato. Finì 2-2 (per lui quel giorno fu doppietta, nda), io ero ancora al Padova, un gol da 20 m su cross di Rosa: ero spalle alla porta e in spaccata infilai il 7. Mi applaudirono anche i giocatori del Bologna. Il primo goal in serie A lo segnai all'Atalanta dopo un'azione corale con Benito Lorenzi e Gino Armano. Quando andavamo in contropiede noi tre...».
Il più forte giocatore da lei mai incontrato o ammirato? «Sicuramente Alfredo Di Stefano. Ricordo uno Spagna-Italia al Nou Camp. Stavo volando in porta, da solo, lui arrivò come un falco da dietro e mi rubò il pallone. E poi fece anche gol. Era eccezionale, giocava dappertutto, il primo giocatore del mondo a tutto campo e il più bravo di tutti i tempi. Anche più di Pelé e Maradona».
Dall'alto dei suoi oltre 130 gol in serie A quale l'attaccante che le piace maggiormente oggi? «Mi piace moltissimo Pato. Lui è completo, ha tutto: scatto, dribbling, tiro con ambedue i piedi, colpisce di testa e sa pure sacrificarsi. Ma mi piacciono anche Ibrahimovic e Amauri».
Da vecchio cuore interista, i suoi sentimenti sull'Inter di Mourinho... «L'Inter di Mourinho è una squadra di giocatori potenti e con grande coesione, con in più quello straordinario catalizzatore che è Ibrahimovic, uno che trascina tutti».
Alberto Figliolia