Bel film, questo Gran Torino, pensi uscendo dal cinema. Poi ti accorgi che è qualcosa di più, che è pregno di spunti interessanti, oltre a una trama già di per sé forte e che si dipana senza mai perdere il ritmo.
Protagonista, destinato a diventare vero archetipo del cinema, è Walt Kovalsky un old man americano ma non da sempre, come palesa il cognome, ritrovatosi vedovo e con la sola compagnia del cane Daisy e di irraccontabili ricordi di guerra a vivere in un quartiere di Detroit (coacervo di razze: messicani, asiatici, vecchie generazioni di emigranti…), attorniato da immigrati di varie nazionalità che non sopporta e verso i quali nutre autentici pregiudizi.
Due figli del tutto disinteressati al padre, salvo che nell’immaginarsene l’eredità, quanto lui per sua stessa ammissione lo è stato verso di loro.
Nessuna scusante, quindi, per un uomo che suscita il sorriso per l’ironia di certi suoi atteggiamenti e battute, ma che certo non appare politically correct.
Ma è, questa, la storia di un cambiamento, di punti di vista che possono variare, di un cuore non poi tanto duro da non essere scalfito da certi accadimenti.
Sarà l’incontro/scontro coi vicini di casa cinesi, o per meglio dire Hmong, a portare nuovi e inattesi sviluppi nella vita solitaria di Walt. E saranno due ragazzi adolescenti, i due fratelli Sue e Thao – lei con la sua vivacità e sfrontatezza, capace di raffrontarsi al vecchio vicino di casa senza soggezione alcuna, lui col suo carattere introverso e bisognoso di guida – a snidare quest’uomo ringhioso verso tutto ciò che non gli va a genio, ma in fondo capace di assumersi nel quartiere il ruolo di “sceriffo”, di paladino di ciò che deve essere giusto.
Per tutti i personaggi avrà inizio una sorta di percorso verso l’apprendimento di un senso civico, di una coscienza affettiva che non prescinda mai dal rispetto dell’altro, dopo averne fatto la conoscenza. Un tema che interessa da sempre Clint Eastwood, artefice di varie pellicole ultra premiate da critica e pubblico, in cui sonda l’America che riflette sulle sue sconfitte, sulle proprie idiosincrasie di Paese libero e democratico quanto in difficoltà al riguardo di integrazione razziale, culturale, di classe.
L’interesse del regista si indirizza inoltre verso il conflitto o la possibilità di incontro fra una morale religiosa, che porta con sé in questo come in altri suoi films i concetti di colpa, perdono ed espiazione, e un senso etico che inneggia alla giustizia, alla responsabilità di ognuno di fronte all’esistenza e alla società.
Ed è, la Gran Torino – auto della Ford degli anni ’70, tenuta “a specchio” gelosamente dentro un garage, ma in seguito destinata ad un ben più luminoso progetto – l’emblema di una scommessa: quella fra la disillusione di chi decide o ha la sorte di vivere in maniera solitaria e bastando a se stesso e la capacità di uscire allo scoperto e buttarsi nella mischia dei sentimenti e di una vita condivisa.
Annagloria Del Piano