Gordiano Lupi
Cattive storie di provincia
Edizioni A.Car, pagg. 150, € 15,00
La copertina vagamente gotica nei colori e nell’immagine della fortezza, anticipa i segreti nascosti di una Piombino ferrosa che guarda il mare.
Mentre la città riporta all’autore gli anni giovanili stampati nella mappa del cuore e impregnati di nostalgia nella loro irrepetibilità, essa è scrigno anche di segreti e miserie che Lupi racconta imprigionandoci in quella ambiguità che caratterizza la provincia nel piano sovrapposto della città-protezione a misura d’uomo eppure spesso generatrice di lucida follia e “cattive-storie”.
Il pugnale, impresso al centro della copertina, brilla di un volto di donna che segue la curva della lama e appare complice di sangue, metafora della deformazione dell’io compresso negli spazi angusti della vita. Gordiano Lupi narra generalmente in terza persona ma diventa spesso anche “io” narrante come se alternasse la spinta nella scrittura al suo essere referente e protagonista. Resta inconfondibile la parola dell’autore sempre chiara, delineata a fermare immagini che si allargano fino a condurre il lettore negli abissi di una fortezza, nei suoi segreti e tortuose vie e negli imperscrutabili meandri dell’anima. A differenza degli altri testi, le molte storie si fanno destinatarie di stile sempre diverso, molteplice, attento ed aderente alla realtà multiforme delle azioni umane che assumono i contorni di leggende nei volti scolpiti dal tempo degli abitanti del paese, filtrate dai ricordi dell’autore e sempre pronte ad inquadrare a grandangolo, paesaggi ed atmosfere, gesti e orrore che si dipanano come una matassa nel corso del testo insieme a “l’avvertimento del contrario”; questo saggio di Pirandello illumina su come ogni pensiero e ogni apparenza reale, abbia il suo contrario in ognuno di noi in un dualismo spesso ironico e drammatico che si riscontra nel testo di Gordiano Lupi.
In particolare, nel racconto iniziale “Il palazzo”. Gli inquilini, le abitudini, i rumori, le liti, i rituali giornalieri, l’intimità di ognuno sono descritti con dovizia di particolari da un io narrante quasi intrinseco al testo e il palazzo mostra la configurazione della protezione-oppressione delle vite di provincia. Lavezzi cerca la sua dimensione del contrario nel saltellio dei piedi con il quale accompagna il suo scendere le scale per uscire dall’inferno della coppia e il prendere respiro da una dimensione litigiosa e logorante. È pirandelliano personaggio anche nel suo fischiare e «nel suo scappare felice in redazione, anche se il lavoro gli faceva schifo» (pag. 14). Strappa il sorriso nella dimensione del dramma che culmina nell’esplosione del palazzo dove si disintegrano oggetti, pensieri e abitudini.
Piano fallito per una fatalità intrinseca alla vita stessa. «Mi capita spesso di vagare per la città a caccia di racconti, ormai so dove ne posso incontrare… tra le storie dei vecchi… quando andavano per mare favoleggiavano di mostri marini… Adesso che da anni non prendono più il largo, mordono il sigaro toscano tra i denti, bestemmiano al vento le loro paure e inventano storie» (pag. 59).
Regista e protagonista insieme delle leggende che diventano vere nell’attimo in cui le prosegue in prima persona, Lupi coglie l’orrore, diventa lui stesso il tramite del “si dice” con la realtà che sembra venir fuori e scritta in presa diretta proprio mentre afferra la sua pelle in una verità foriera di creazione e sangue. «Non ho ucciso mia moglie in un pomeriggio di follia… ma soltanto un’assurda storia di tre pescatori lo può confermare» (pag. 72).
Anche la storia si veste di lutto nel ritornare sotto forma di donna messa al rogo, condannata come strega e strappata a chi ama, per chiedere che il conto torni, che la vendetta abbia fine, che lo scempio venga pagato o trasformato in nemesi indiscriminata. Tematica cara all’autore, questo riequilibrio dovuto alle ingiustizie, questa indagine che Lupi, con modalità diverse, rincorre nelle dinamiche storiche di sogni e nostalgie nel tentativo necessario di risolvere il passato per poter nominare “l’eternità”. Una sorte di catarsi, direi, che l’autore imprime negli incisivi scritti su Cuba, sogno non risolto ma al quale è necessario dedicare tempo, indagine e passione. «Finalmente liberi. Finalmente insieme. Per l’eternità» (pag. 83).
Passato e presente si fondono e sovrappongono nell’intelaiatura sapiente del testo. «Mio nonno la raccontava come un sogno e io ho sempre sospettato che Paolo fosse lui… Adesso il segreto se l’è portato via con sé, povero nonno. Ma la sua voglia di raccontare è rimasta con me. Sono io che gliel’ho rubata, catturando un sorriso dal suo letto di morte» (pag. 91).
Ho spesso parlato di come poesia e prosa siano spesso fusi negli scritti di Gordiano Lupi; in questo testo, dove pur sempre torna la voce del mare, la lirica avvolge una galleria di ritratti incisi e scavati nell’animo, nell’eredità del raccontare rapita furtivamente da un sorriso del nonno morente e impressa nei volti dei vecchi marinai che si stagliano come bassorilievi nelle pagine. Pagine nelle quali l’autore si ridefinisce in una prospettiva ampia di solitudini e amori, quiete e fantasia, personaggio in cerca d’autore lui stesso, si intrufola nelle vicende anche le più sconcertanti e sanguinose mai discordandosi dall’eterno contrasto o connubio di amore-morte: «stanotte ho scolpito l’amore di fronte alle stelle» (pag. 173), dirà Marco prima di colpire. «Il coltello brillava sul tavolo di cucina ancora sporco di sangue. Un raggio di sole illuminava la lama scintillante ed arrossata».
Patrizia Garofalo