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Se la “società civile” si accorge del monopartitismo imperfetto
01 Aprile 2009
 

«Silvio e Gianfranco rappresentano da soli destra e sinistra», scrive Giancarlo Lehner (foto), deputato Pdl, autore di un libro su Antonio Gramsci, uscito per Mondadori poche settimane fa. Attento e anche sensibile alle nostre iniziative sui temi laici, Lehner nel suo libro fa una lunga analisi della tragedia di Gramsci, dell'ambiguo comportamento di Togliatti nei confronti di Gramsci, alimenta i fondati sospetti sulle circostanze della sua morte, e butta lì tra una riga e l'altra, tra una condanna giustissima della doppiezza e della ferocia di Stalin e un racconto dei doppiogiochismi di Togliatti, butta lì che il regime dell'ex socialista massimalista, interventista come Gramsci, il regime di Mussolini era un “totalitarismo-spaghetti”.

Al netto del valore e dell'importanza degli interventi di Fini in queste settimane di congressi, mi pare che un problema serio sia il fatto che egli, almeno al momento, corra il rischio di essere un pezzo di un “partito nazione” di cui si comincia a parlare, che pare possa fare a meno anche dell'altra articolazione del monopartitismo imperfetto, che di questo passo, rischia di apparire sempre più perfetto. Ancora una volta la R/esistenza radicale non può invocare un nuovo Aventino. Quindi ovunque siano le crepe è bene tentare di infilare un cuneo per aprire una contraddizione. Ed oggi la contraddizione è tentare di scongiurare questo destino “organico” per le idee laiche espresse da Fini.

È sembrato a Galli della Loggia sul Corriere della Sera che il Pdl affondi le sue radici, tragga la sua aspirazione sostanzialmente nell'anticomunismo. E forse non è un caso che oggi una nuova rigidità della nostra politica tragga ispirazione da una idea funerea, che, almeno a mio parere, non ha più motivo di esistere.

Ha senso oggi l'anticomunismo? Caduti venti anni fa i colossi del socialismo reale, il rischio di uno sfondamento del confine orientale pare fortunatamente ormai scongiurato. Tito è stramorto e sepolto, e se poco andava d'accordo con i sovietici, oggi per fortuna non c'è più né l'uno né gli altri. Altro discorso è l'anticomunismo utile qui da noi, fra noi italioti. Per molti anni si è detto dell'egemonia culturale del Pci, della colonizzazione delle università, del monopolio nell'informazione. Certo. Tutte cose che sono accadute, e che l'anticomunismo ad esempio del Congresso della libertà della cultura ha tentato di arginare, in anni davvero difficili. Oggi però credo che la cosa assuma ormai caratteri diversi. I vecchi baroni comunisti per lo più sono già fuori dagli atenei, in pensione, o dediti a mastodontiche riscritture di se stessi che nessuno legge. La loro capacità di influenza mi pare ormai molto diminuita e di ben inferiore penetrazione rispetto ad esempio alla televisione di stato e non, con la sua “agenda setting” ispirata a ben altri valori che non a quelli della Terza Internazionale. Anche nell'informazione, nella carta stampata e non, l'egemonia ex-pci sembra avviarsi sulla via del tramonto. Rimangono strani residui in circolazione nella società, che vanno a coagularsi attorno ad alcune forme del dissenso violento, come in alcuni casi accade nei centri sociali ed altro, ma che, almeno per me, nulla hanno a che vedere con quelle forme di egemonia che ancora una decina di anni fa avevano ben altra capacità di influenza ed intervento. Oggi quelle forme del dissenso, a partire da quanto avviene tra gli studenti universitari, hanno a che fare con uno scontento forse simile a quanto si è visto in Grecia.

Eppure sull'anticomunismo sembra affondare le radici il nuovo che avanza. Come i vecchi partiti mettevano tra i loro valori comuni quell'antifascismo di cui noi Radicali abbiamo denunciato il carattere fascista, un antifascismo buono solo per le commemorazioni, le cerimonie, ecc., la coincidenza con il passato è nel fatto che nel momento in cui l'anticomunismo diventa un oggetto da museo allora torna di nuovo ad essere una risorsa. Questo accade dopo l'uso ambiguo che Berlusconi ne ha fatto in questi anni, designando ad esempio Bertinotti ad oppositore televisivo prescelto ed ufficiale. Così come si fece con l'antifascismo quando esso non era più il necessario collante per esempio per tenere insieme il Cln, nella lotta di Liberazione, oggi abbiamo l'uso nello stesso senso dell'anticomunismo.

Vedremo probabilmente alle europee che fine farà l'altro pezzo del regime. Spero però che non divenga una bestemmia almeno parlare del comunismo, della sua eredità storica, dei suoi vizi culturali di fondo, tenendo sempre conto delle tragedie che esso ha generato nella storia. Come i veri fascisti degli anni Settanta non erano nel Msi ma probabilmente erano coloro che avevano mantenuto di padre in figlio le stesse postazioni di potere a cominciare dall'Iri, così oggi i veri comunisti non sono coloro che in qualche modo scimmiottano cose trite e oramai senza senso, ma i veri comunisti se esistono sono altrove, a condividere il potere con gli eredi dei fascisti.

Un liberale oggi, in questa strana e funerea apoteosi dell'anticomunismo, potrebbe utilmente richiamare il fatto che, in nome dei principi volteriani, nulla è impronunciabile o insostenibile. Esiste poi a mio modo di vedere qualcosa di utile che è avvenuto nella storia, come alcuni temi confluiti, strumentalizzati poi nel comunismo: penso ad esempio all'interessante polemica tra Benedetto Croce, tra i primi e migliori lettori italiani del Capitale di Marx, e Antonio Gramsci, sul tema del plusvalore, o ad altri problemi messi in luce dalla cosiddetta analisi marxista, come la condizione del cosiddetto sottoproletariato; temi a cui furono date risposte totalitarie dai comunisti, i quali tuttavia furono il tramite di questi temi. Su questi argomenti oggi le risposte liberali sembrano le risposte meno deludenti, risposte che ai marxisti parvero troppo deludenti, così come troppo deludenti parvero ai fascisti ed a tutti coloro che hanno creduto nel secolo scorso nei totalitarismi.

Sul comunismo nostrano si dice da più parti che esso rappresenta ancora un pericolo per il Dna culturale che esso ha generato in alcune classi dirigenti. Sicuramente il problema esiste, però su questi argomenti occorre sempre fare attenzione a non andare a parare dalle parti delle identità culturali, che aprono a rischi notevoli. Le categorie dell'identità e del Dna possono infatti assumere la forma del totem specialmente nella visione del tabù della assenza di libertà, nel ritenere che un individuo sia incapace di decidere per sé, che manchi insomma del libero arbitrio individuale. Solo in quest'ottica le identità culturali, i Dna pesano su un individuo in modo inderogabile, inappellabile. Un esempio di libertà, di ripensamento, nel quale è giusto fare fiducia, è proprio quello di Fini, in merito ad alcune sue affermazioni di molti anni fa sul ruolo storico di Benito Mussolini.

 

Michele Lembo

(da Notizie radicali, 1° aprile 2009)


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