| Paolo Ruffilli |
30 Marzo 2009
Pregevolissimo l’approfondimento di Patrizia Garofalo delle gradazioni della parola ruffilliana, orientata verso una com-prensione centralizzante, totalizzante: dapprima l’autrice pone l’accento sulla onnicomprensività e sulla onnipervasività della parola nella sfera spirituale, successivamente sulla sua capacità di includere in sé i dati sensoriali, e quindi nella sfera fisica. Dalla icasticità e dalla forza espressiva della parola la Garofalo passa alla sottolineatura dell’insufficienza della lingua e della tendenza ruffilliana a delegare la parola ai corpi e al loro eloquentissimo silenzio, che è implosione irredimibile, “fisicità compressa”. E si volge alla ricerca del senso del ruffilliano ribaltamento della condizione dell’umana costrizione, da ”oggetto dell’indifferenza a soggetto dell’indifferenza”: per quella acclarata superiore umanità che qualifica il poeta, il soggetto lirico sperimenta e verbalizza con “una poesia di pensiero” anche ciò che è infigurabile e indefinibile. Attraverso una forma di comprensione empatica la Garofalo (poeta ella stessa, che con l’altrui poesia mostra di intrattenere un rapporto non unicamente estrinseco, ma al contrario denota una intensa partecipazione, un eccesso “creativo” di immedesimazione) insegue lungo tutto il testo l’instabile equilibrio della ruffilliana “ossessione della libertà”, il dibattersi nella speranza suprema, già pressappoco montaliana, di un “varco”, della “libertà, il miracolo, / il fatto che non era necessario”, circostanza che si riflette sulla costruzione dello stile di Ruffilli e che implica una finzione – ma non per questo una mistificazione, nota la Garofalo – quale chance di un oltre intriso di indefinitezza e di ineffabilità. Laddove per finzione si intenda, come la Garofalo sottolinea, “plasmare, creare”, la raffigurazione, in altre parole di un “altrove”, approdo o deriva, in quanto, per Ruffilli, la scrittura “dichiara meno timore della morte che del possibile vuoto della vita”.
Elisabetta Brizio |