Musica, pittura e parola, speculari a se stesse, fissano nella lirica di Ruffilli l’indefinito del reale nell’immaginazione.
«L’idea, a tratti,/ che conti quello che/ è già stato, il resto/ dei tempi, l’ordine/ più apparente che…/ il risultato:/ arrendersi alle cose/ come sono/ al loro inerte moto, per/ reggerne e coprirne,/ almeno il vuoto» (pag. 79-80 Piccola colazione).
«Se guarisco…io/ riattraverso il già fatto/ e il già veduto/ l’incommensurabile/ che ho conosciuto» (pag. 47 “La gioia e il lutto”); «e guardo lassù in alto…/ ma forse anche il cielo/ è fatto stanze/ e non si può abitarne/ più di una» (pag. 64 Le stanze del cielo)
La poesia si fa musica , si annoda alla parola disegnandosi in scenografie d’interni sapientemente orchestrate.
Con l’abilità del regista, Paolo Ruffilli conosce i tempi di attenzione e raccoglie in una metrica sicura e sofferta le modulazione del nostro vivere. Ho scritto “modulazione” poiché nella poetica dell’autore è la parola che, a mio avviso, si avvicina sempre più ad una ritmica multipla e orchestrata che coglie dolore, gioia, vita e morte in uno spartito che tutto coagula e riconduce al dentro di noi, «quando l’urgere dell’immaginazione è sostenuto, permettiamo alla poesia, le più ampie libertà, in tal senso potremmo dire che il verso è la matematica pura del linguaggio» (Steiner, La morte della tragedia, pag. 210).
L’opera di Ruffilli è “spartito musicale di versi, protagonisti a soggetto della vita nell’immaginazione dell’autore”, poesia da guardare, percepire e fisicamente cogliere, “interpretazione teatrale” sempre in corso sullo scenario della vita dove è reale solo quanto immaginato dal soggetto e dove il “canto del capro” di greca memoria (tragos-odé) è la pietas del poeta. I palcoscenici sono reconditi, nascosti negli anfratti della psiche e non hanno bisogno di spettacolarità paesaggistiche per interrogarsi e interrogare. Ci si allontana dal suo scrivere con fatica anche se la porta non sempre si schiude con empatia e accoglienza perché Ruffilli colpisce, entra nelle cose, diventa, lui stesso, e luogo e personaggio e poeta, aggredisce la realtà trasformandola immediatamente in antirealtà, in una lirica del dolore le cui parole afferrano i sensi, l’odore, il colore fuoriescono nell’icasticità della forza poetica; si avvertono sulla pelle l’umidore delle celle dei carceri, la prigionia di corpi aggrediti dal male, l’incandescenza soffocata di un giovane nei goffi tentativi di rinascenza senza colpe e senza imposizioni.
Il 9 febbraio, durante una sua presentazione a Ferrara, il poeta più volte ebbe a dire che la sua poesia si avvicina alla realtà come immaginazione di altro da sé. Pier Vincenzo Mengaldo nella prefazione a La gioia e il lutto scrive: «per Ruffilli la realtà è tale solo se pensata dal soggetto». In questo senso i suoi scritti costituiscono l’antirealtà, gli oggetti sono specchi della mente, il guardare durativo, focalizzato e fisso ribalta l’apparenza nell’immaginazione di ogni oggetto e situazione. Un’immaginazione nel senso in cui Einstein la intese, capacità conoscitiva del sé in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario e che non va confusa con “fantasia”. Poesia di pensiero, vitale di una musica d’affondo e aderenza alle cose che rimandano ad altre ipotesi. Le stanze del cielo, ad esempio, vedono il poeta immergersi nel dolore della privazione di libertà del carcerato, senza aver mai visto un carcere ma solo ribaltandolo da oggetto a soggetto dell’indifferenza della società. Ecco quindi che le costruzioni carcerarie, la cui penalizzante architettura sembra ratificare la condanna, aprono il tema della libertà, dell’oltre, di quella che Ruffilli chiama “ossessione della libertà”. Da questi ultimi due termini è da osservare come il primo costituisca l’assedio emozionale della coscienza e l’altro la razionale costruzione del sé; l’evidente contrapposizione e conflittualità di essi non sfugge e rende irripetibile la lirica di Ruffilli che propone sempre più nel tempo una metrica e uno stile composti, compressi spesso in liricità mal celate che, man mano esplodono e bruciano e mai cicatrizzano la ricerca del mistero che spinge l’autore altrove. “Altrove” immaginato ma anche “ossessivamente” sperato. «Io nel pensier mi fingo» scriveva Leopardi, e la finzione costituisce necessario substrato per entrare in “Il poeta è un fingitore” di Pessoa e non assume la valenza di falsità ma di dichiarata impossibilità di accettare ristrettezze e codici prefissati, persino la morte.
«Non solo la capacità conoscitiva, o quella d’amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, ma solo dell’indefinito. La qual cosa ci diletta perché l’anima, non vedendo i confini, confonde l’indefinito coll’infinito» (Zibaldone -472-, 4 gennaio 1821).
Dalle celle di un carcere pur immaginato ma sedimentato come proprio dolore, il poeta seziona infatti l’infinito del cielo in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo in un panteismo espanso all’indefinito. Fin dalla copertina del suo ultimo lavoro, lo sguardo rimanda ad un cielo fatto a stanze accogliente e azzurro dove una coda di rondine e acqua zampillante da una fonte di vita nascosta “fingono l’altrove”. “Fingere” però ha un’altra accezione: “plasmare” “creare” “disegnare” “comporre” e questi sono etimo di “poesia”, da poieomai. La sintonia quindi tra poesia e creazione definiscono questo connubio come indissolubile ed il poeta diventa “un mago che plasma la creta” con tutto sé, anima e sensi, fisicità e distacco, ironia e laceranti squarci di vita che rattoppa ogni volta per ricucirla insieme. È così che mi appare in Paolo Ruffilli, la cui scrittura dichiara meno timore della morte che del possibile vuoto della vita. Per questo scrivere, limare, immaginare e costruire è necessario forse per giungere dove si possa depositare a terra il bagaglio e andare, finalmente avvolti dalla luce, armonia e pace della Pietà.
La trilogia presenta un’unità ritmica, musicale, scenica e rappresentativa, il primo poemetto è concepito da giovanissimo (contiene liriche dal ’74 all’86), in realtà occorrono anni alla formazione di un’opera in cui sincronia e diacronia mirabilmente convivano. I libri di Ruffilli possono essere letti partendo da qualsiasi pagina anche se seguono dall’incipit un percorso, come a dire che la nota è “un’entità” prima di essere riassorbita dall’orchestrazione dello spartito musicale. Nelle tre opere dominano la pìetas nel rispetto, nell’accoglienza e nella lettura di ogni atteggiamento umano, il rovesciamento dell’ego in altro da sé, l’immaginazione di luoghi e situazioni che ribaltano la realtà in metafisica.
La descrizione particolareggiata di interni che definisce lo spartito del coro nella sua antica funzione gnomica è cantata con “ossessione da dannati e poeti, da moribondi che sfiorano la vita e da vivi che hanno già l’oscurità della morte” in una musica nella quale Ruffilli accoglie il mistero della vita.
«...la parola per me/ veniva da distante/ nel darle per riscontro/ una realtà che invece/ più toccata e presa, più/ sfuggiva inconsistente ai cinque sensi» (pag. 17).
Più della parola di cui, pur cantore, avverte l’insufficienza, Ruffilli entra nei corpi, ne coglie la fisicità compressa, silenziosa, abbandonata e quotidiana, solo così offre voce al parlato e lo intride di sangue, speranza, attraversamenti, confidenza, accettazione e sogni. Lo assaporiamo con il retrogusto amaro di una “piccola colazione” più consolatrice di necessità che libertà. Regista di un nonsense esistenziale, il poeta tenta di offrilo al lettore a piccoli bocconi, piano, perché si abitui gradatamente.
Quando qualche tonalità è più gravida di altre, la interrompe, inserisce altre voci, parole più comuni, troppo forse per non coglierne la dolorosa consistenza e il silenzioso-urlo.
Simile a Bergman in “sussurri e grida” il poeta sublima la poesia in un farmacologico dosaggio del tempo. «...l’ingresso è uno lungo/scatolone… la libreria/ ingombra lo stanzino/ e, contro la finestra/ forma una nicchia/ per metà nascosta/ …È un corridoio/ diviso a stanze/ con le finestre/ al pavimento/ intanto dappertutto Dio ti vede»
È voluto in questa parte il citare senza il riferimento delle pagine. In ogni verso emergono il disincanto doloroso di non poter dare un vestito al corpo e una risorgenza all’anima. Il conto non torna neanche con la storia, immobile come un assedio - «Non era il corridoio/ il collo di bottiglia/ delle Termopili» - e, quando sembra vicina a svelarsi una soluzione anche imprevista, si ricade presto nell’ipotesi della ricerca come condizione del vivere, nomadi a noi stessi e «arresi all’evidenza/ di andare navigando/ alla deriva».
L’importanza di “piccola colazione” sia per quanto concerne lo stile che la tematica è nodale punto di partenza per un viaggio dentro l’anima del poeta e per seguirne gli sviluppi poetici e filosofici. L’acuta ed empatica presentazione di Pontiggia, offre la chiave per entrare in interni asfissianti, in ricerche deluse, nel ritmo degli spazi angusti che non promettono risorgenza ma è proprio da qui che il poeta avvierà una meditazione più ampia sull’esistenza; “la deriva” diverrà presto “altrove” e “l’ipotesi di ricerca” una posizione a sé stante e continuamente tesa a musicare il mistero del vivere nell’immaginazione. La stessa copertina illumina su una strada ormai avviata irreversibilmente verso una scrittura che non è mai descrizione. È lucida come le altre, uno specchio argentato iridescente condensa e nello stesso momento sgrana il volto del poeta che scompare e riappare a seconda della regolazione dello sguardo in una antirealtà speculare. L’ossimoro caratterizza “la gioia e il lutto” e regola il testo in un alternarsi di angoscia e speranza di rinascita. Si dipana la narrazione in versi di una morte lenta, agonica, estenuante, logorante, devastante e al tempo stesso consapevole, conosciuta e accettata con quieta-sofferenza da chi muore e dalla pietà di chi resta in attese estenuanti; volti fingono nello strazio, l’indifferenza faticosa di chi invece sa.
«Per un abbraccio/ venivo là/ a cercare/ approvazione… facendo/ finta di niente/ gridavo senza dirlo: ”papà ecco tuo figlio”/ Quanto tempo perso/ senza dirsi mai quello che conta/ privi di attenzione/ …in un agire vano/ Nell’incoscienza/ dell’infinitezza e dunque /della libertà sepolta» (pagg. 43-44).
Penso e sento che queste ultime righe rappresentino, anche staccate dal contesto, l'Aleph di riflessione dell’uomo e del poeta. La convinzione umana di abitare “la città degli immortali”, non permetterà di denudarci nella “parola” se non quando, per qualche accidente, tardivamente ci percepiremo scheletri vivi e privi di parole e di nostalgia per aver sepolto prima del corpo, la libertà. L’immortalità di ieri reciterà la nostra colpevolezza di oggi. Inutile rinascenza e inutile desiderio che nel suo etimo indica un complemento di moto dall’alto verso il basso, dalle stelle a terra cade il desiderio ed è quindi destinato ad infrangersi «il fiore della vita/ si rapprende ben prima/ di essere maturo/ e versa dalla poca cima/ la sua cruda stesa/ di spine laceranti» (pag. 34).
La Crocifissione lacerante ed irreversibile rimanda al “Cristo Morto” di Holbein; ma è speculare al dubbio che si fa strada, che la morte possa essere accolta dalla “Pietà” del Bellini; un ossimoro concettuale non solo di versi ma di rimando ad immagini pittoriche dove comunque domina “la madre”, “madonna” “madre dolorosa” “madre impietrita” “madre pietosa” e sempre figlio è colui a cui sostiene il capo.
Una tonalità religiosa accompagna il testo e abbraccia vita, morte, strazio e la degradazione degli organi trova la sua sublimazione quando accoglie la sacralità della morte e la rielaborazione della vita nel lutto. «non cessa affatto/ l’attesa del futuro/ può darsi che/ cessando non si smetta di essere» (pag. 73), così una morte «sconcia, logora, drogata, peccaminosa» è restituita a dignità, diventa inno di vita la cui musicalità accompagna il lettore dal primo all’ultimo verso conferendo al testo una struttura circolare di forte intensità poetica. Nella sua ultima lettera da Londra, scriveva Van Gogh al fratello Theo: «per vivere occorre morire a se stessi». Morire a se stessi, scompaginarsi nelle vite degli altri, liberarsi di orpelli e strutture e immaginare di essere dentro la realtà immaginata. «Immaginare… mi serve», scriveva Pirandello ne L’uomo dal fiore in bocca e nel suo focalizzare l’oggetto immaginato e “fingersi” dentro, in una sorta scorporazione, Ruffilli ci offre “le stanze del cielo”.
Come per gli altri testi l’immagine della copertina accompagna il viaggio nell’Ade e circolarmente lo riabbraccia nel corridoio del cielo. Un’ideale linea orizzontale posiziona le carceri in basso, costruzioni ferrigne dalle tonalità terree, livide e senza resurrezione; correa la società che non solo le “edifica” ma che persino trova in esse la propria identità. «tanti/ presunti puri/ e incontaminati/ i subalterni qua/ sembra trovino piacere a disprezzarci/ dalle loro vite buie come le celle/ …appena da un abbaglio di potenza/ appena consolati» (pag. 46). In alto però, un cielo azzurro e la molteplicità di oggetti e colori permettono ad “altro” sguardo, l’ipotesi del valico al limite soffocante della mancata libertà.
La poco netta demarcazione tra poesia e prosa che rende originali le liriche di Paolo Ruffilli s’incupisce a favore di un parlato doloroso e ad un distacco, quasi voluto, impotente ad andare oltre.
Un mondo di brutture vive libero, in realtà presuntuoso prigioniero delle sue stesse norme. «È l’avvocato/ la tua innocenza/ o la tua colpa/ e, più sei innocente,/ e meno riesci infatti/ a farne senza/ è un patto: si arriva/ a giudicare il fatto, non la persona/ e una sola azione/ non corrisponde all’uomo/ non può rappresentarlo/ né tanto meno cancellarlo» (pag. 39); «si fa il possibile/ per questa gente/ …ti dicono di noi/ da bere a da mangiare/ più che sufficiente, e sonno quanto basta/ le loro messe, i libri/ ore di svago e di riposo» (pag. 19).
Non avverto che allo stile prosastico di Paolo Ruffilli corrisponda un sentimento distaccato e triste sulla realtà della vita, credo invece l’opposto, che quanto più il dolore riesce ad essere contenuto in modalità di scrittura che non denotino l’io narrante, tanto più si dichiara la sofferenza e la partecipazione dell’autore, guida in un viaggio all’Inferno, presente in oggi città, vicino al supermarket, a due passi da un autosalone, prima di una pista ciclabile, divertimento in bicicletta di pomeriggi domenicali, prima di quello stradone che, in breve, riporta dentro le case.
Le parole ci colgono, fortemente correi di uno sguardo non alzato, di un pensiero non sprecato nella fretta… del niente.
E giunge proprio da dietro le sbarre la coscienza di una colpa che non accusa e non recrimina «non fu curiosità / e non fu noia/ la cosa che mi spinse/ e mi ha smarrito/ fu anzi la coscienza/ minuziosa di me e del mondo» (pag. 71).
Si sentono i sospiri, la perdizione, la malattia che condanna a vivere «un eterno presente», arrivano la puzza di chiuso, di muffa, di umido, il sudore, il pianto, l’asfissia emorragica e l’affollamento di persone stipate come bestie in attesa di un sogno che li plachi prima di un’altra dolorante alba. «...ed ogni volta/ rientrato in sogno/ a casa mia/ è peggio/ per tornare via» (pag. 32) «ma è stato/ il mio sognare/ di slegare la libertà/ dai vincoli del corpo/che mi ha tradito/ e incatenato/ da dentro l’infinito» (pag. 79). I quadri di Bruegel, gli occhi dalle palpebre cucite con il filo di ferro, nel canto dantesco di Sapia, la musica di Malher che incide il dolore e la morte oltre il ritmo tradizionale, si intridono nei versi di Ruffilli come una lapidazione, feriscono e imprigionano immagini e suoni mentre orchestrano sapientemente “l’ossessione della libertà” dell’autore.
Il ritmo di una cantilena si ripete assillante dall’inizio del testo e riporta quei dondolii tipici delle persone abbandonate da troppo tempo, che si carezzano il corpo e con gli occhi sgranati guardano il vuoto. Il poeta scatta, manovra l’obiettivo dell’immagine nella parola, una dopo l’altra, senza soste con dolorosa determinazione.
A loro condannati, Paolo Ruffilli restituisce “l’identità”; per loro, il poeta capovolge un mondo senza pietas, senza dubbi, lineare, logico, abitudinario e potente ed apre le stanze per un futuro possibile, con letti privati e la “cura” delle loro colpe.
Patrizia Garofalo
Raccolte citate:
Piccola colazione, Garzanti 1987
La gioia e il lutto, Marsilio 2001
Le stanze del cielo, Marsilio 2008