Ciao Claudio, come stai e come ti va la vita? Io bene nell'insieme. La prossima settimana avrò il mio libro in mano e il tre aprile lo presenterò a Sezano (Verona). La prima presentazione. Ti allego questo file sul libro del figlio di Calabresi, Mario, Spingendo la notte più in là, e volevo sapere da te se avevi letto questo libro e cosa ne pensavi. Mi sembra un libro adatto anche per presentarlo a scuola e diffonderne la lettura. Ciao, Piero
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Caro Piero... il libro è stato presentato nelle scuole. Con grande sostegno. Peccato che a Bergamo e anche in altri luoghi quando a Mario Calabresi qualche studente, in modo pacato, ha chiesto perché non abbia annoverato i Pinelli fra le vittime, si sia adirato e abbia chiuso il dialogo con una sprezzante risposta.
Pubblicherò questa tua recensione. Ma ci tengo a scriverti che ritengo Pinelli “suicidato” in questura. Basta rileggersi il testo teatrale di Dario Fo, oggi del tutto occultato. E che Adriano Sofri non c’entra nulla con l’omicidio Calabresi, nonostante lo “strano” processo che l’ha coinvolto. La moglie di Pinelli, moglie di un anarchico, i figli di Pinelli, non hanno avuto nessuna tutela dallo stato e neppure hanno la testata di un grande giornale (La Repubblica) e di un editore potentissimo (Mondadori) a ricordarlo e con lui le sue lotte libertarie. Anche sul web, Immagini-Google, stessa sorte. Per diffusione del libro di Mario Calabresi ha visto attivi, nella scuola, elementi di Destra che dietro lo scopo neutro e ideologico di combattere terrorismi vari e anni di piombo, impongono una rilettura delle lotte degli anni Sessanta e Settanta assolutamente distorta. Gli acquisti per intere classi del libro magnificano royalties ed editore. Ricavi!
Io li ho vissuti quegli anni. Pinelli e Valpreda furono vittime dei servizi segreti deviati che arrivarono a organizzare eventi nefasti. Le bombe alla banca dell'agricoltura come primo evento della “Strategia della tensione”. Calabresi era dentro questo ingranaggio. Ne è stato una vittima; ma i servitori dello stato misero in galera Valpreda ingiustamente, picchiavano e terrorizzavano studenti ed operai e impedivano le proteste. Questo non va dimenticato. (CDS)
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Caro Claudio, questo lo so… che il Pinelli e il Valpreda sono state vittime in modi diversi del “terrorismo di stato”. Forse la visione dei fatti narrati da Mario Calabresi può apparire parziale, ma quello che apprezzo è l'aver espresso il suo ricordo di famiglia. Poi ognuno aggiunge e toglie quel che crede.
Penso che sarebbe interessante poter aprire un dialogo su Tellusfolio. Che ne dici?
Immagino che possa essere accaduta la risposta di Calabresi agli studenti bergamaschi, anche se il libro è diretto alle vittime del terrorismo e alle loro famiglie senza entrare nel merito dei casi specifici. Pinelli è morto assassinato dagli uomini della questura milanese e non è stato citato come tanti altri.
L'autore non condanna e non libera nessuno, testimonia i suoi ricordi. Come non parla di Lotta Continua e dei mandanti e dei condannati come Sofri e company se non per allusioni e riferimenti generici. Vuol solo testimoniare la sua storia e credimi Claudio, se hai letto bene il libro, quel che è accaduto a Bergamo è solo un incidente di percorso; ma non può inficiare per me un bellissimo libro di una vita vissuta specie da sua madre e dal piccolino e i suoi fratelli in quegli anni, in quei momenti con quella dura esperienza sulle spalle e nel cuore. Una cattiva ed emotiva risposta non inficia una vita per nessuno, nemmeno per Calabresi. E poi mettiamoci nei suoi panni: noi forse, se avessimo raccontato la sua vita dalla sua parte, forse avremmo sparato a destra e a manca accuse e condanne anche con diritto e ragione. Ma lui non l'ha fatto. Per cui dico grazie a lui di quanto ci ha raccontato. Poi sbagliare si può e se si è comportato così comprendiamone il disagio e la cattiva reazione.
Con amicizia… Piero
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Su “Spingendo la notte più in là”
Ho letto un anno fa il libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2008) e l’ho trovato bellissimo. Soprattutto per la sua umanità di fondo. La sua pacatezza, la sua sensibilità non troppo mielosa, i suoi affetti così dignitosi. E le sue affermazioni così ponderate, non da equilibrista, ma da persona saggia nonostante i suoi trentottanni. È cresciuto sotto l’implacabile segno della vita che reclama una crescita forte e rapida perché gli avvenimenti non danno tregua. Incalzano senza sosta e quando ti capitano tra capo e collo, come per Mario e come per molti in altre situazioni, allora non puoi svignartela. Devi stare lì a prendertela tutta in faccia dovunque tu possa scappare e dovunque tu possa nasconderti. Ti colpisce senza risparmio. Ecco che allora necessita la consapevolezza e la calma e non l’isterismo e la follia. Crolla un mondo e quel mondo ce l’avevi tra le mani eppure è crollato. Ora, continui ad averlo lì, ancora tra le tue mani ma è frantumato. Come te. Se ti guardi intorno, tutto è cambiato, sapori, gusti, prospettive, affetti, cattiverie. Tutto si trasforma, silenziosamente come un semplice schioccar di dita. Come un prestigiatore tutto si trasforma. Tu sei lì e lì devi stare: rimanerci dentro come ad una palude cercando di tirarci fuori te stesso piano piano senza fretta, attraversando tutta la foresta del dolore. Quello vero, quello che ti colpisce al cuore. Quello che non ti dà scampo. Che ti assassina mentre lo guardi in fronte e lui ti guarda beffardo. «Tocca a te!» ti dice e se ne va sogghignando. Credevi di poterlo scansare. Ed invece eccolo lì senza ritegno a farti capire come va il mondo. Quello interiore, quello che non si vede, ma si ‘sente’. Si ‘sente’ perché colpisce nella parte più intima di te, quella più delicata. Quella dei sentimenti, degli affetti, della vita con la ‘V’ maiuscola. Ma in quel momento ti sembra che invece della vita ci sia la Morte, quella con la M maiuscola, quella che non perdona. Che ti vuol far sentite il brivido della sconfitta, della rassegnazione, dell’angoscia, del dolore profondo che ti mozza il respiro in gola e ti dice: «pensavi che non esistessi per te?!». Invece c’è, ed è nauseante, specie se affrontata a pochi anni di vita, tra l’inconsapevolezza e l’incubo. Chissà avresti voluto maledire il mondo, dio e tutto il creato. E maledire pure il giorno che sei nato perché quel dolore non senti di meritarlo. Tutti pensieri che si fanno dolore. Ma quel dolore senza scampo c’è, è lì con te, dentro di te e scava, scava profondo come una talpa e crea cunicoli nel cuore senza sosta rosicchiando le parti più intime di te. Non ti risparmia. Ma non vincerà.
Ecco cosa abbiamo sentito e immaginato dal racconto di Mario Calabresi, oggi dopo più di trentanni dall’assassinio del padre. Eppure, nonostante tutto Mario ha saputo reagire e vivere e continuare a vivere cercando di non guardare al presente fatto oramai di troppi e lunghi anni quanti la sua vita. Non è un libro intriso di acredine verso qualcuno né verso gli assassini. No. È un libro che non dimentica niente, ma che sa trovare al culmine di sé la ragione per andare oltre. Forse nemmeno perdonando, ma superando questa antinomia tra vendetta e perdono. E questo superamento si trova sapendo ritrovare la gioia di andare avanti, di poter incontrare di nuovo la Vita quella vera, quella serena nonostante manchi un pezzo di quella Vita. Manca il segno dell’appartenenza, quel collante costruito dalla serena determinazione di un padre che si è fatto ‘scandalo’ senza sosta e senza rimpianti. Per nessuno. Alto, forte e deciso. Lo chiamerei così Luigi Calabresi, il papà di Mario. Ciò che colpisce è proprio questo rispetto senza soste che Mario Calabresi porta avanti con estrema dignità e rigore verso se stesso e verso la storia di un Paese come l’Italia che ha trascorso i peggiori anni del dopo-guerra nella lotta al terrorismo. E da quel 17 maggio 1972 - quando una pistola stese per strada il commissario Calabresi -, per Mario, il fratellino Paolo e la madre Gemma che stava aspettando il terzo Luigi è cambiato il mondo come per tantissimi altri italiani che hanno visto cadere i propri familiari sotto il piombo della violenza politica. A loro poi si aggiungerà Uber, il quarto, dopo che la mamma Gemma si sarà unita nuovamente in matrimonio con il loro secondo padre, Tonino. Il regalo che i tre figli del commissario Calabresi hanno ricevuto dopo la morte del loro papà è di aver incontrato un secondo padre che ha avuto tutti i connotati più belli che si possano avere come ‘patrigno’, termine che non appare mai nel libro. E Mario sa condurci per mano delicatamente dentro gli angoli nascosti ed intimi della loro famiglia. Ci fa assaporare un insieme di incantevoli risvolti intimi come se uscissero dalle pagine di carta, come un tepore dei loro sentimenti. Senti come quelle parole scritte, in quelle pagine bianche, non sono altro che il segno di un grande amore per la Vita. Lì ci trovi tutto. Ci trovi quello che è scomparso ai loro occhi e ci ritrovi quello che è rinato nei loro cuori. Segni di vita e di morte, insieme. Scandalosamente insieme. Perché niente potrebbe unirli se non il senso profondo e tenace del voler vivere! Assaporando, senza macabri segni d’odio, il triste morbo della perdita di un padre a un’età che non sa cosa vuol dire la vita, ma sa cosa vuol dire la morte. Che però te lo insegna subito. Sul banco degli ‘imputati’ ci sei tu. Non gli assassini. Non la storia, né le istituzioni. Tu con il tuo corpicino di piccola creatura cerchi di digerire lentamente per non strozzarti l’angoscia di un mondo che si dilania sotto gli occhi, senza pietà. Eppure ci sei riuscito. Sei andato oltre per non perderti nei meandri della disperazione.
Così mi ha dato profonda tristezza e rabbia leggere queste 131 pagine. Come mi han fatto capire tante cose facendole scivolare dentro di me. Suscitandomi commozione nel cuore. Però è qui che trovi la forza, in una giovane vedova che con tre figli riesce umilmente a tirarli su con pazienza, onestà e soprattutto con tanto tanto amore, nel silenzio più assordante di un decennio freddo e terribile come quello degli anni di piombo! Ed è con l’ultimo capitolo che non riesco a nascondere le lacrime a me stesso. Quando in Respirare (pp. 125-131) Mario Calabresi riceve dalla madre il ‘comando’ di andare avanti per decidere del suo destino perché già qualcun altro quando era bambino, quel destino, gliel’avevano già cucito addosso, assassinandogli il padre.
«Ho scommesso sulla vita, cos’altro potevo fare a venticinque anni con due bambini piccoli tra le mani e un terzo in arrivo? Mi sono data da fare tutti i giorni, unico antidoto alla depressione, e ho cercato di vaccinarvi dall’accidia, dall’odio, dalla condanna a essere vittime rabbiose. Questo non significa essere arrendevoli o mettere la testa sotto la sabbia. Significa battersi per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria. Fare diversamente significherebbe piegarsi totalmente al gesto dei terroristi, lasciar vincere la loro cultura della morte». Così diceva al figlio Mario la mamma Gemma dandogli spiegazione di come abbia potuto fare a sopravvivere e campare e crescere loro, i suoi figli in quegli anni, in quell’atmosfera sociale e politica.
E così Mario Calabresi finisce il suo libro: «…ero completamente solo. Fermo con gli occhi fissi sul ghiacciaio prima trovai il nonno, poi papà Gigi. Rimasi ad ascoltarlo a lungo e sentii che era giusto guardare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria. Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così non l’avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull’amore per la vita. Non ho più cambiato idea».
Dopo un anno che ho terminato di leggerlo l’ho ripreso in mano e son qui a parlarne. E ancora mi saltano agli occhi i righi rossi, le becche alle pagine, i “notabene” che ho disseminato sui bordi. Niente, neanche a me ha fatto cambiare idea. Resta sempre quella. Solo quella di condividere con Mario Calabresi il suo dolore e quello della sua famiglia. Pienamente senza ostacoli. Perché è in questo spezzare del pane amaro della vita che può rinascere il giorno della Vita! Un giorno in cui il volto di Mario Calabresi che tristemente è impresso sulla quarta di copertina, potrà rinascere proprio per aver avuto fede e soprattutto tanto amore da dare nonostante tutto il male ricevuto.
È così che gliel’hanno insegnato i suoi genitori, il papà Luigi e la mamma Gemma essendo stati fino all’ultimo, umilmente ma coraggiosamente, se stessi, senza clamore ma umilmente testimoni – a fatti e non a parole – di come si vive nella carne della propria storia e della storia di un Paese, una vita data e consacrata ala speranza nonostante tutto. Ma proprio tutto, la vita…
Questo libro dovrebbe essere letto come testo fondamentale agli studenti delle scuole superiori del nostro Paese e spiegato e divulgato tra i giovani per far comprendere loro cosa voglia dire restare saper uscire dai drammi della vita… nonostante tutto.
Piero Cappelli