Anni fa, quando Angelo Vaninetti era ancora in vita e in piena attività, qualcuno scrisse che la Valtellina non era stata troppo generosa con lui. Oggi, a dodici anni dalla sua morte, mi pare di poter ribadire quel giudizio. Il professor Angelo ha tanto amato la sua terra quanto questa gli si è mostrata indifferente, non in grado di accogliere e di valorizzare la sua opera. Eppure questo artista, e non soltanto a giudizio di chi scrive, è stato il più grande pittore valtellinese del secolo scorso. Se si va a rivedere quanto la critica ha scritto di lui, si può ben cogliere il segno che Vaninetti ha lasciato nel mondo dell'arte. Critici illustri, italiani e stranieri, hanno provveduto a celebrare l'opera di questo maestro dimenticato dalla sua terra. Poeti, pittori e scultori di fama internazionale hanno apprezzato la sua arte. Faccio due nomi tra i tanti: Grytzko Mascioni e Alberto Giacometti. Il primo, grande poeta da poco scomparso, stabilì con Vaninetti un'amicizia per la vita, un sodalizio umano e artistico che ha accompagnato il cammino di due personaggi tanto diversi e tuttavia simili nell'amore per la bellezza, per l'arte, per la poesia. Rileggere quanto Mascioni ha scritto dell'amico Angelo commuove, nel senso profondo della parola.
Il secondo, scultore (e pittore) di fama mondiale, venne appositamente in Valtellina per vedere i lavori di Vaninetti. Racconta Piergiuseppe Magoni che Giacometti era rimasto ammirato davanti a un quadro del pittore di Regoledo di Cosio e aveva voluto venire da lui per conoscerlo personalmente. Davanti ai dipinti che raffiguravano antiche case, baite, stalle, fiori di campo, girasoli e davanti alle composizioni di nature morte con lucerne, ciotole, candelieri, lumi e altri oggetti che Vaninetti studiava e dipingeva con inesauribile passione, Giacometti esclamò: «Queste cose sono dei personaggi, persone antiche che ancora vivono». Basterebbero queste parole per spiegare tante cose.
Ho avuto la fortuna di conoscere Angelo Vaninetti. Fu mio professore di disegno e storia dell'arte nell'ultimo anno delle superiori. Nei tre anni precedenti avevamo avuto insegnante di materie artistiche Livio Benetti, che era anche preside della scuola, professore esigente, severo, preparatissimo. Vaninetti non era né esigente né severo ma in quanto a preparazione fu grande la nostra sorpresa nel vedere come questo professore, preceduto da una meritata fama di originalità e anticonformismo, possedesse non meno di Benetti una cultura vasta e profonda. Una preparazione che egli metteva al servizio di una capacità di sintesi e di osservazione straordinaria: bastava un quarto d'ora di una sua lezione per approfondire un argomento. Egli sapeva suscitare interesse anche in coloro che, molto banalmente, ritenevano la sua una materia “secondaria”. Fu con lui che io cominciai ad amare la storia dell'arte. Con lui compresi che questa disciplina è inscindibile dalla storia della letteratura, da quella della filosofia, della musica e, per farla breve, dalla storia in generale. I collegamenti che egli faceva tra la storia dell'arte e le altre materie poggiavano su di un impianto culturale solido e su di una sensibilità storico-artistica profonda. Nelle sue lezioni Giotto si avvicinava a Dante, Simone Martini a Petrarca, gli artisti dell'età barocca a Giambattista Marino, Giovanni Fattori alla storia risorgimentale, ecc.
Artista pienamente inserito nel suo tempo, non amava però seguire pedissequamente le mode. Degli astrattisti diceva: «Li capisco, ma i loro problemi non sono i miei». Tra i suoi pittori preferiti c'erano Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Fattori, Modigliani, Carrà, Morandi. Tra gli stranieri Rembrandt, Millet, Van Gogh, Cézanne, Picasso (il Picasso “figurativo”). Di Leonardo, Raffaello e Michelangelo diceva che erano inarrivabili e difficili persino da comprendere pienamente nella loro grandezza. Ci faceva capire che l'arte, pur non essendo mai un teorema impossibile, non è mai nemmeno un discorso troppo semplice e che pertanto, per comprendere, è necessario studiare.
Era un professore buono e tollerante. Io non sapevo disegnare ma dimostravo interesse per la pittura e l'architettura (la scultura mi piaceva soltanto in quanto parte dell'opera architettonica). E lui mi diceva: «Non hai certamente la mano, ma hai negli occhi capacità di vedere e di comprendere». Non mi negava buoni voti. Se mi rifiutavo di disegnare mi diceva burbero (ma col sorriso negli occhi): «Vai a lavorare con “quella laggiù”, che è brava ed è la tua preferita». “Quella laggiù” era una ragazza bruna, dagli occhi luminosi, che a me piaceva su tutte e che sapeva disegnare in maniera splendida. Grazie al professore e a “quella laggiù” che mi aspettava negli ultimi banchi, le ore di disegno volavano come il vento.
A maggio, le scuole stavano ormai per finire, andammo in gita a Firenze. Il professor Benetti ci guidava ogni giorno per chiese e musei con la sua inesauribile voglia di spiegare e con la sua cultura simile a un pozzo senza fondo. Come ho già detto, era uno storico dell'arte di grande valore, ma a volte esagerava e allora io, con altri “separatisti”, me ne andavo con Vaninetti per stare un momento in pace. Con lui e alcuni compagni mi capitò di visitare il Museo di San Marco, che accoglie nelle sue sale i meravigliosi affreschi del Beato Angelico. Prima di entrare si rivolse a noi (più interessati alle nostre compagne che al pittore fiorentino) dicendo: «Vi chiedo soltanto di visitare questo luogo in silenzio. Il Beato Angelico non ama la baraonda. Io non dirò niente fino a quando non saremo fuori». Bene: quella al Museo di San Marco fu la visita più straordinaria che io avessi fatto. Le opere del Beato Angelico parlavano dalle pareti in vece nostra. Pareva di vivere la spiritualità di quei capolavori del maestro fiorentino. Nessuno del gruppo disse più una parola fino a quando non uscimmo sulla strada. Vaninetti era felice per la prova di maturità che avevamo dato. Aggiunse soltanto: «Avete visto le opere di un grande. Qui dentro abbiamo ascoltato il linguaggio dello spirito. La purezza dell'ispirazione del Beato Angelico meritava il vostro silenzio».
Una sera uscimmo tutti a spasso lungo l'Arno. La sera di maggio era dolce e mille luci si riflettevano nelle acque del fiume. Andavamo in gruppo dietro Vaninetti e don Mario Pella, il prete insegnante di religione che era persona umanissima e gentile. Sul Ponte Vecchio, interrompendo di colpo i seriosi discorsi sull'arte, sulla religione e sulla filosofia, Vaninetti abbracciò improvvisamente don Pella e lo baciò con impeto sulle guance. Poi, incurante della meraviglia dei passanti, si rivolse a noi ragazzi esclamando: «Bacio i preti come bacio le donne! Bacio le donne come bacio i preti!»
Era certamente un personaggio imprevedibile e bizzarro ma straordinariamente umano. Per lui nessun ragazzo doveva essere giudicato negativamente. Abituati al rigore (qualche volta davvero eccessivo) dei professori del tempo, con lui ci sembrava di vivere in un'atmosfera leggera e spensierata. Ma nello stesso tempo nessuno come lui sapeva farci comprendere la bellezza e la profondità dell'arte. Parlando di Masaccio, il suo pittore preferito, pareva quasi commuoversi. Anche don Pella lo ascoltava ammirato quando, nella Cappella Brancacci, diceva dell'interpretazione umana e drammatica del fatto sacro che si riscontra nelle opere del grande maestro del Quattrocento. Masaccio era morto a ventisette anni di età e lui, dopo averne celebrato la pittura potente e realistica, ripeteva, quasi parlando a se stesso: «Cosa avrebbe fatto se fosse vissuto più a lungo!...»
I miei contatti col professor Vaninetti proseguirono anche dopo la scuola. Veniva spesso a dipingere in Valle, dove aveva una casa, ed ebbi modo di incontrarmi più volte con lui. Del resto la Val Màsino costituiva uno degli scenari più amati per le sue creazioni. Dipingeva febbrilmente le antiche baite della Val di Mello, le case annerite dal tempo, i fienili, le porte chiuse, le piccole finestre. Quelle porte e quelle finestre che a una a una si chiudevano dopo una storia secolare, e non si riaprivano più. Vaninetti le dipingeva con amore, consapevole di essere testimone di una storia che stava finendo per sempre.
Tra le tante opere, ricordo quel piccolo grande capolavoro che è la “Porta azzurra”. Una porta forte, massiccia, ostinatamente chiusa da un pesante catenaccio che riverbera la luce azzurrina e la tiene ferma nel suo mistero. Il sole illumina, vorrei dire inutilmente, quella porta misteriosa. Nessuno più entra, nessuno esce. Un poco di erba selvatica è cresciuta davanti, segno visibile di un mondo consegnato al silenzio. E intorno c'è solitudine e abbandono.
A volte dipingeva anche scorci di paese, boschi, alberi, rocce. In un altro straordinario dipinto, il “Sasso Remenno”, si vede la mole granitica e monumentale del celebre masso (visto da nord) che incombe sulla Valle nella luce inquietante della sera. Lo scenario è drammatico e solenne. I colori sono cupi, indefiniti, dati con pennellate inquiete e vigorose. La rovina scesa dalla montagna non pare, dopo secoli, ancora del tutto placata e l'animo di chi guarda rimane come sospeso tra la quiete e lo smarrimento.
Nessuno come Angelo Vaninetti ha saputo cogliere il senso profondo di un'epoca di trapasso che è stata unica e irripetibile. Nessuno come lui, poeta della nostra terra, ha saputo ricordarci chi siamo, da dove veniamo. Ma il suo discorso, solo apparentemente semplice, si amplia fino ad assumere valenze e significati universali. Perché Vaninetti non è solo pittore “di un tempo” storico straordinario, interpretato con la sensibilità e il rigore stilistico del grande artista, ma è anche pittore “del tempo” nel suo significato più esteso e più grande. Perché le sue opere sembrano ricordarci quanto sia effimera la vita umana anche rispetto agli oggetti più umili e più semplici del passato e quanto effimeri siano in fondo anche i muri, le antiche case, le baite, i fienili. Solo i cieli azzurri che si stagliano sopra i tetti, solo le erbe selvatiche che sempre ricrescono tra le pietre hanno il potere di riproporsi eternamente (scusate, come non pensare a Cechov, a Leopardi e a Schopenhauer?) indifferenti alla vita e alla morte di ognuno di noi. E allora, cosa rimane di quell'ombra che è la vita umana? Rimane l'arte, questa scala che dalla terra sale al cielo, e che ci dice quanto sia necessario cercare il bene, cercare la verità, sempre e comunque, anche quando si sa di non poterla trovare. Questo è il messaggio di Vaninetti.
Io ti ricordo, caro professore, a volte burbero ed esuberante, a volte «silenzioso e trepido nel lungo viso abitato da una felice scontentezza» (come ti ha magistralmente descritto Nazareno Fabretti), quando te ne andavi per la Valle in cerca di qualcosa che già conoscevi, che già avevi pienamente definito e realizzato dentro di te. Non ti serviva il disegno, che era già stampato nei tuoi occhi, ma soltanto il gioco della luce e dell'ombra che si compenetrano e si contrappongono tra i boschi e le rocce della Valle per dare alla tua opera gli effetti spirituali teneri, intensi e drammatici che volevi. Sono felice di averti conosciuto. Sono contento di averti conferito in anni lontani (1978), quando ero Sindaco di Val Màsino, la cittadinanza onoraria del mio comune. Mi ringraziasti senza parole, soltanto dimostrandomi la tua felicità per quel modesto riconoscimento. E non dimentico una tua bellissima espressione, che mi serve a meglio definirti e ricordarti: «La malinconia è la felicità di essere tristi».
Museo di arte contemporanea Angelo Vaninetti
Per volontà e impegno della famiglia, è stato allestito presso l'abitazione di Via Bernasconi in Cosio Valtellino (Regoledo) il Museo Vaninetti, che verrà ufficialmente aperto al pubblico dal giugno 2009.
«Le opere esposte sono frutto di una severa selezione e coprono quasi l'intero arco della produzione artistica del maestro», come si legge nella presentazione sul sito internet www.museovaninetti.com
Per informazioni e contatti: info@museovaninetti.it
Gino Songini
(da 'l Gazetin, gennaio-febbraio 2009)