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Pierluigi Marzorati... Il Pierlo o l'ingegnere volante, il più americano dei giocatori italiani
19 Marzo 2006
 

Lui giocava in serie A, nei ranghi della Pallacanestro Cantù, e io in Prima Divisione, in una palestrina dai vetri azzurri, colà evolutomi con i miei amici e compagni di squadra da un campetto in terra battuta, dove, quando era caduta la pioggia, ci si districava a palleggiare nel fango, la palla a spicchi da arancione diveniva nera e le virtù e le magie del ball-handling erano riservate alla fantasia che scaturiva dalla lettura, divorante e divorata, de I giganti del basket o dalle immagini in bianco e nero televisivo commentate dalla epica voce di Aldo Giordani, nelle quali, sovente, troneggiava con il suo spumeggiante stile lui. Lui chi? Pierluigi Marzorati, of course-di corsa, futuro ingegnere e già volante nelle sue folate in contropiede, i balzi oltre le spire e i tentacoli avversari, i passaggi fulminei per il fulminante tiro di Carletto Recalcati, e la barba del coach, Arnaldo Taurisano, ribattezzato Barbatau, che seraficamente pareva vibrare alle celestiali azioni (infernali per gli avversari) di quel playmaker alto solo 187 cm.

La gente s'immedesimava in lui, ragazzo dalla taglia normale nello sport dei giganti, chiosa il gran Gianni Corsolini, già allenatore e general manager del miracolo cestistico canturino. Elegante e potente era nel rettangolo di gioco Marzorati, raffinato e spietato. E corretto, sempre.

La prima speciale rivelazione, a me, del genio di Pierluigi Marzorati, alias il Pierlo, l'americano nato a Figino Serenza (Co) il 12 settembre 1952, era venuta in occasione delle Olimpiadi di Monaco, quelle che si ricordano ancora per la trista e triste strage del Villaggio Olimpico, una delle prime e più terribili incursioni della follia politico-umana nell'apparentemente unificante e pacificante universo dello sport. Era la radiocronaca di un'Italia-Portorico, 2 settembre 1972: Ottorino Flaborea (soprannominato Capitan Uncino per la cinica perfezione del suo tiro in gancio, nocchiero della invincibile nave-pallacanestro varesina), Pino Brumatti (talento goriziano approdato a Milano), Giorgio Giomo (dall'arresto-e-tiro alla Flash), Renzo Bariviera (un cui canestro ci aveva permesso, anno Domini 1970, nella splendida Lubiana, di battere per la prima volta una Nazionale stelle-e-strisce), Marino Zanatta (dallo strano e infallibile tiro), Dino Meneghin (non c'è bisogno di aggiunte o precisazioni), Gigi Serafini (la cui infrazione di passi ci costò il bronzo olimpico contro Cuba), Ivan Bisson (ala di superba completezza), Giulio Iellini (dall'infinito vivaio triestino, giocatore omerico) e... Pierluigi Marzorati, che quella sera settembrina, alla mia radiolina a transistor rossa, nella penombra della mia stanza montana, segnò 18 punti, accendendo, grazie alle parole del radiocronista e alle sue gesta, la mia fantasia.

In realtà il Pierlo aveva esordito in Nazionale già un anno prima: 21 agosto 1971, Italia-Israele 123-81, 4 punti per il non ancora diciannovenne enfant prodige, andando subito a prendersi, con la Nazionale, un bronzo nella diciassettesima edizione dei Campionati Europei.

A distanza di tanti anni le sue 278 presenze con l'Italia sono tuttora insuperato record. E sarà molto difficile riuscire a scalzarlo da quest'ambito primato. Chi maggiormente è arrivato ad insidiarlo in questa specialissima gerarchia risponde al nome, più che noto, di Dino Meneghin, altro monumento (come s'incazza quando lo chiamano così... Sui monumenti ci scagazzano i piccioni, una celebre frase del gigante di Alano di Piave) della pallacanestro tricolore. L'inossidabile Dinomito si è, però, fermato solo a 271 presenze: esordio il 14 settembre 1966 ad Augsburg in Germania, 80-65 per gli azzurri e 1 punto nello score di uno dei più ruvidi sul campo rivali del Pierlo. Poi, quante partite divise insieme con la rappresentativa nazionale, gioendo insieme, soffrendo insieme, così diversi caratterialmente, così uniti e determinati nella ricerca di ogni massimo traguardo...


Il più americano dei giocatori nostrani. Pierluigi Marzorati, detto Pierlo o l'Ingegnere Volante, metà del suo attuale tempo di vita l'ha trascorso a correre e dispensare arte cestistica sui parquet di Cantù e d'ogni dove, deliziando platee italiane e internazionali... «Mi sono divertito ed è stato bellissimo. Adesso quel periodo si è chiuso, ma io so di dovere molto alla palla a spicchi. Il mio lavoro nel presente, di cui sono pienamente soddisfatto, è nell'ambito dell'impiantistica sportiva».

Come scrivevamo poco sopra, Marzorati è stato, con Meneghin, il più grande giocatore italiano d'ogni tempo, allestendo, in azzurro, un asse play-pivot – l'imprescindibile fulcro di un'équipe di pallacanestro – terrificamente (per gli avversari) funzionale e magnificamente indimenticabile: chissà che cosa sarebbe successo se avessero potuto giocare nella stessa squadra di club?

Ma... non solo basket... Pierlo riesce ad essere anche un campione di profonda umanità e generosità: la fama universale derivatagli dalle imprese sportive e dal cristallino talento lo hanno fatto scegliere per interpretare il ruolo di ambasciatore UNICEF, in favore dell'infanzia del mondo, anche quella più sfortunata, quella a cui sembrano negati futuro e diritti. Pierluigi è, insomma – quel che si suol dire dalle sue parti – un bravo fioeu (ragazzo). Un fiolett che va per le cinquantadue primavere. Ma, si sa, gli eroi dello sport non invecchiano mai nel loro spirito o nell'immaginario collettivo.

Marito e padre affettuoso, ha sposato Elisabetta Allievi, facente parte di una famiglia che ha stupendamente segnato, con la passione e la lungimiranza dei suoi dirigenti, la storia della Pallacanestro Cantù e di quella italica – con il Real Madrid Cantù è la squadra più vittoriosa nelle competizioni internazionali – e ha due figli, Francesco di 14 anni (ha scelto di giocare a calcio, sport in cui lo stesso Pierluigi, ad ogni modo, sembrava eccellere) e Lavinia di 7.

È ingegnere civile Pierluigi Marzorati, un ingegnere che si può vantare d'aver vinto, con la maglia del suo club, due scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, quattro Coppe delle Coppe e quattro Coppe Korac e, con la maglia color del cielo, un Campionato Europeo per Nazioni e una medaglia d'argento olimpico (dimentichiamo sicuramente qualcosa). Vittorie maturate in una lunghissima carriera, costellata di giocate magiche, assist fantastici e punti razzenti, agonisticamente durata, in serie A, dal 1968 al 1991.

Tu e Meneghin, i migliori... Però, a sua differenza, la tua era una taglia fisica normale, il riscatto dei "piccoli" in uno sport di giganti... «Un fatto secondario, che, però, ha forse dato giustificazione a un certo affetto della gente, proprio per il fatto che era più facile immedesimarsi in me, poiché non ero munito di una stazza gigantesca».

Con l'esordio datato 21 agosto 1971 contro Israele (123-81 per gli azzurri), sei il recordman di presenze con l'Italia... «A questo primato tengo moltissimo. Oggi l'attaccamento alla maglia è tenuto in scarsissima considerazione ed è, in generale, uno dei più gravi problemi dello sport. Io non ho giocato per stabilire il record; per la Nazionale io m'impegnavo come per il mio club, senza avere mai operato alcuna strumentalizzazione, in un senso o nell'altro, per migliorare, per esempio, le mie condizioni contrattuali».

Hai portato, con la sublime perfezione del tuo gioco, scudetti e Coppe a Cantù. Poi, come dirigente, non hai avuto la medesima fortuna. Erano mutati irrimediabilmente i tempi? «Ho le mie colpe. Però, probabilmente, non sono stato affiancato a sufficienza per effettuare, come dirigente, un adeguato processo di formazione e di apprendimento».

In una vita colma di ricordi cestistici quali spiccano con più vivido fulgore e quali, invece, le amarezze indimenticabili? «I più belli sono certamente l'oro europeo di Nantes e la Coppa dei Campioni vinta a Colonia» – contro il Maccabi Tel Aviv, 86-80 – «Delusioni? Tante. In così tante stagioni agonistiche ho perso più di quanto sia riuscito a vincere. Mi ripetevo sempre: Non montarti la testa; non è il caso, pensa a quanto hai perso. Tuttavia mi ritengo fortunato, e la pallacanestro, per quanto mi riguarda, è sempre stato un mezzo e mai un fine».

Quanto ti piace il basket che vedi giocare oggi? «Mi piace. Tuttavia ho il rammarico di non riuscire a identificarmi in un atleta della mia città o un italiano...». Nella contemporaneità troppo pochi italiani militano nelle squadre di serie A, nelle quali è tutto un traboccare babelico di lingue ed esotismi.

Un dilemma che sempre travaglia, quantunque leggermente ozioso: si giocava meglio un tempo od ora? «Ora. Il gioco è più fisico, più atletico, più difficile, sebbene prima si vedesse maggior tecnica».

Non ti ha mai accarezzato o blandito l'idea che avresti potuto essere competitivo anche negli USA? «Ce ne sarebbe stata la possibilità dopo le Olimpiadi di Monaco 1972» – l'Italia si era classificata al quarto posto, medaglia di legno!, dopo la rocambolesca sconfitta, 65-66, contro i cubani, allora in possesso di un'ottima squadra (il basket, con il baseball, è lo sport prediletto di Fidel Castro) – «presso alcune università. Ma, d'accordo coi miei genitori – io ero anche iscritto al Politecnico – ho deciso di restare in Italia. Allora l'America era ancora, a livello d'intenzioni, molto lontana».

Quali sono stati i compagni di squadra da te più amati e, al contrario, gli avversari più detestati? «Fra i più amati o coloro con cui ho avuto un rapporto duraturo: Carlo Recalcati, che mi ha aiutato a scoprire la serie A, così come in seguito è accaduto a me con Antonello Riva e, in Nazionale, ovviamente, Dino Meneghin, il faro di tutti i giocatori passati per l'azzurro. Non ho mai odiato alcuno, anche se in campo si creavano rivalità – vedi D'Antoni, Caglieris, Brunamonti o lo spagnolo Corbalan – che, ora che abbiamo tutti appeso le scarpette al chiodo, si sono tramutate in reciproco e affettuoso rispetto».

Quand'è che ti sei veramente arrabbiato? «Forse quando siamo stati eliminati dalla Jugoslavia alle Olimpiadi di Montréal 1976».

L'episodio che non potrai mai scordare? «Quando Bernardis, il mio primo allenatore, convinse mia madre a farmi andare alle Finali Nazionali Allievi 1968 che si disputavano a Bologna. Era la prima volta che stavo lontano da casa. Vincemmo il campionato. Bernardis non era un allenatore strizzacervelli: sapeva gestire i rapporti anche dal punto di vista educativo. Collegato con questo ricordo c'è tutto l'itinerario della mia carriera».

Viaggiando a ritroso con un'immaginaria macchina del tempo e l'esperienza maturata, che cosa non rifaresti mai più e che cosa, invece, rifaresti ancora? «Troppo facile dire: Non rifarei le partite perse oppure Rifarei quelle vinte. L'età e l'esperienza di vita mi spingono a credere che l'assoluto non esiste. Io amo ricordare quel che il basket mi ha dato per quello che io sono stato e sono. Mi preme assolutamente esaltare lo sport come fattore sia educativo che formativo, non solo per il premio della vittoria, ma anche (e soprattutto) per la possibilità di credere e crescere in un ambiente sano».

Pierluigi Marzorati, ambasciatore UNICEF... «E non credo di aver mai speculato su questa figura. È stato un cosciente impegno nel sociale, che mi ha permesso di ricambiare la fortuna di aver svolto un'attività professionale gratificante: mettere la popolarità al servizio della realtà e contro la "cultura" del superfluo. Anche adesso avverto fortemente taluni doveri: sono il presidente della Fondazione Casartelli» – il ciclista deceduto per una caduta al Tour de France – «e mi sento, dentro, di poter lanciare, attraverso quest'amico scomparso, un messaggio a tutti i giovani sportivi».

In definitiva, che cosa è stato l'atleta Marzorati e chi è l'uomo sopravvissuto al fuoriclasse? «L'atleta Marzorati... un testardo brianzolo che ha saputo valorizzare fino in fondo il talento che aveva; l'uomo ha saputo trarre ogni beneficio dallo sport che amava, vera scuola di vita».


4 giugno 1983, Nantes, Italia-Spagna 105-96, Charlie Caglieris alza al cielo la palla a spicchi baciandola, un'icona della pallacanestro italiana, un po' come l'urlo mundial, l'anno precedente, di Schizzo Tardelli al Santiago Bernabeu. 12 i punti di Marzorati, con la luminosa perla della sua regia, in perfetta armonia con i compagni di ruolo, Caglieris e Brunamonti. Tutti uniti nell'interpretazione più pura del gioco, nello spirito del gioco. Anche questo è essere campioni. Senza ombre. Senza gelosie.

Dominammo quegli Europei con sette-vittorie-sette, compresa quella della megarissa con la Jugoslavia. E sette anni prima, sempre in azzurro, a Edimburgo, il respiro degli highlanders nelle vene dei nostri cestisti, l'Italia nelle qualificazioni olimpiche aveva inflitto un'altra clamorosa sconfitta a una Jugoslavia pur fortissima, con Kresimir Cosic, uno dei più forti giocatori di tutti i tempi (era anche vescovo mormone), Mirza Delibasic, Il Principe di Sarajevo, una sorta, per eleganza, di Doctor J balcanico, o Drazen Dalipagic, capace di segnare torrenziali rovesci di punti senza forzare mai un tiro, tanto era plastico e naturale il suo gesto. Gli 1 contro 1 devastanti di Barabba Bariviera, l'irripetibile partita di Luciano Vendemini, che giocò alla pari con i temibili centri plavi, gli archi implacabili del tiro di Iello Iellini e... Marzorati, ancora Marzorati, sempre Marzorati, 13 punti e lampi di fulgidissima classe.

Vidi quella partita con la mia sfigatissima banda d'innamorati del basket, Pierangelo, Mauro, Michele e altri che il tempo ha allontanato, ma non la memoria. Il nostro stato di esaltazione era totale. Subito, finita la gara, ci recammo tutti al nostro campetto (questa volta in versione polverosa) ad imitare le azioni dei nostri eroi in canottiera. Italia alle Olimpiadi canadesi. Dove andrà anche la Jugo, che era infine riuscita, comunque, a qualificarsi.

Ebbene, le due si scelsero nei quarti di finale. L'Italia stava dominando il match. All'intervallo era 57-41. È fatta, pensavamo in coro.

Sarebbe finita con un tiro vincente di Moka Slavnic, inafferrabile, odiosamente geniale e genialmente odioso, diavoletto della Crvena Zvezda (Stella Rossa) di Belgrado, per il più beffardo dei risultati, 87-88. Una delusione mai più provata.

Era notte, ero al mare nella splendida, carnale e metafisica Maremma, era luglio, avevo l'anima dolente.

Pierlo, come avete fatto a perdere quella partita già vinta? Ancora adesso me lo chiedo e glielo chiedo (non solo mentalmente). Anche se sappiamo che in un orizzonte di vittorie può capitare di precipitare negli inferi, per risalire, dopo, con ali più bellamente brucianti.

La taglia di un campione si misura dagli avversari che ha incontrato, che ha battuto o da cui è stato battuto: Marzorati-D'Antoni, che duelli, ragazzi! Era il trionfo dell'estetica e dell'agonismo, sfide al calor bianco, una scimitarra ideale fra i denti, e la maestria dei fondamentali, lo scintillio di una classe iperurania e la concretezza di chi comanda una ciurma che deve valicare l'oceano dei quaranta minuti di gioco.

Vidi Cantù sbancare il Palalido di Milano – non ricordo neppure l'anno – con il mio idolo a gelare la mistica sfera-arancia in un drammatico finale, prima dell'ultimo canto della sirena, in un infinito palleggio per il campo da globetrotter, celandola allo schiumante Mike (uno che non avrebbe voluto perdere neppure a briscola). Un esercizio di stile non fine a se stesso, bellezza, abilità quasi circense e pragmatismo: tutto contemporaneamente.

Un marziano sarà sembrato quel giorno il Pierlo a tutti coloro che affollavano le tribune del tempio di Piazza Stuparich. Io ne uscii meravigliosamente stordito. Come sempre.


Grenoble, 24 marzo 1983, ultimo atto della Coppa dei Campioni (che bello, si chiamava ancora così...): s'incontrano due italiane – troppa grazia! – Ford Cantù e Billy Milano. Partita allo spasimo, buon vantaggio canturino annullato dalla disperata mossa del coach avversario Dan Peterson, la mano che strangola... la zone press 1-3-1. Milano recupera, 69-68 per Cantù, l'ultimo tiro, praticamente allo scadere, è per il milanese Franco Boselli, uno specialista, ed è un tiro per lui facile facile, quello che avrebbe coronato l'incredibile rimonta milanese: la palla s'infrange sul ferro.

È il trionfo per i brianzoli e, ancora una volta, per il Pierlo contro l'Arsenio (D'Antoni). Ricordo di quella sera le birre bevute, con la tensione in corpo, in un bar-trattoria di Cesano Boscone, con il mio amico Giuseppe Passalacqua. Il mio migliore amico, un ricordo dolceamaro quella partita per me... Giuseppe, con la sua poesia, è stato ucciso quattro anni fa da un tumore.

Di quella partita non c'è più nemmeno il compagno di squadra di Marzorati, Denis Lupo Innocentin. La leucemia s'è portato via anche lui. Nello sport si vince e si perde, nella vita si vive e si muore. Banale, ma vero. L'importante è lottare prima di perdere o di essere costretti all'abbandono. Il potere consolatorio delle parabole sportive e delle metafore a soccorrerci.

Per ogni atleta giunge il giorno del ritiro. Quello dell'ingegnere volante fu, però, un canto del cigno imperiale, nel segno e coi simboli della vittoria: a 39 anni, nel 1991, conquistò la Coppa Korac, battendo nella doppia finale le celeberrime camisetas blancas o merengues del Real Madrid.

Così si chiuse la splendida epopea dell'ex ragazzino imberbe, che aveva cominciato all'oratorio per finire in vetta a un mondo tagliato a spicchi.

Il Pierlo si può incontrare sempre alle partite della sua Cantù nel Palazzetto che dimora a Cucciago. Non si nega mai a una manifestazione legata all'impegno civile o alla solidarietà, anzi ne organizza.

Ai più giovani che non sanno chi sia stato Marzorati affidiamo le sincere parole di queste pagine, a chi non l'ha mai ammirato giostrare sul 28x15 esprimiamo il nostro rammarico per quel che hanno perduto.

E le zone grigie che ogni uomo reca, indissolubilmente, con sé? Le ombre che con le luci s'alternano nell'anima? I chiaroscuri dello spirito? Anche il Pierlo, indubbiamente, ne avrà avute e ne ha. Forse. Non so. Questo racconto, tuttavia, non ha ombre. Solo luce.


Alberto Figliolia


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