256.
Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, e il brigatista Alberto Franceschini cadono nelle mani delle forze dell’ordine. A Pinerolo.
“E’ una grande notizia”, dicono in redazione.
“E’ una notizia – dico – Non credo che sia un colpo per le Brigate Rosse. Morto un capo se ne fa un altro”. Non posso continuare a parlare perché il redattore capo mi manda in borgata San Basilio. Ci sono scontri tra manifestanti e polizia. Manifestano gli occupanti delle case popolari. Non sono solito seguire questi fatti, ma manca il cronista di riferimento.
Arrivo in un momento di grande confusione. C’è gente che urla. Due donne anziane piangono. Gente che corre. Gente che maledice la polizia.
“Assassini”, gridano alcuni giovani. Le donne sono le più accanite. “Assassini”. “Hanno sparato ad altezza d’uomo”.
“L’hanno ammazzato. L’hanno ammazzato”.
Scorgo più in là, in terra, in un lago di sangue, il corpo d’un uomo. M’avvicino e mi sembra giovane, poco più che un ragazzo.
“E’ Fabrizio”, dice una ragazza singhiozzando.
Cerco notizie più precise. Scopro che il morto è Fabrizio Caruso, diciannove anni, appartenente al comitato proletario di Tivoli, costola di Autonomia operaia.
L’operatore cerca di riprendere il più possibile.
Tenjnto di parlare con qualcuno. Nessuno che si voglia esporre.
Metto insieme, comunque, un servizio scrupoloso, che il redattore capo massacra. Vorrei togliere la firma. Non o faccio, vigliacco.
A sera, ciclostilo un pezzo feroce. Me la prendo anche con l’informazione della Rai.
Il giorno dopo torno alla cronaca politica.
Riesco ad avvicinare Rumor.
Mi guarda dietro le lenti spesse. E’ triste. “Non ci sono le migliori condizioni per andare avanti”.
Rumor sta soffrendo il suo quinto governo.
Dal Pci arriva un giudizio severo: “Il governo Rumor è agli sgoccioli”.
Chiedo ad Andreotti quale potrebbe essere l’alternativa. “Vada a domandarlo a Moro”.
Mi trovo, more solito, nel labirinto del dico e non dico. Moro è specializzato. E’ urtante spesso. Non sempre ce la faccio a decifrarlo. Rimpiango La Pira, la sua sincerità. Non lo sento da tempo. Ho evitato di sentirlo durante la campagna elettorale per il referendum sul divorzio. Non mi sono sentito di confrontarmi con lui. Lui s’era schierato contro il no.
So – me lo ha riferito Citterich – che è molto preoccupato per il clima che si respira in Italia, per tutte le spallate destabilizzanti che arrivano da destra e da sinistra – dall’estrema destra e dall’estrema sinistra.
A sinistra, si sono fatte largo le Brigate Rosse. A destra, è il magma. Sono convinto, comunque, che ci sia una mente.
Cade Rumor. Ci prova Fanfani. Non gli va bene. Ci prova Moro. E Moro riesce a formare il suo quarto governo, mente è stato spiccato – inutilmente – mandato di cattura nei confronti del banchiere Michele Sindona, in odore di mafia. Sindona è già negli Stati Uniti. Francini mi suggerisce di leggere con attenzione quel che Berlinguer ha scritto su Rinascita qualche mese prima e che non tutti hanno valutato con attenzione. Lo leggo. L’esponente comunista parla di nuovo e grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.
Il compromesso storico è un modo indolore di portare la sinistra al governo. Berlinguer offre “la prospettiva politica di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica, oltre che formazioni di altro orientamento democratico”.
E’ anche il modo giusto – sottolinea – per togliere l’Italia dalla crisi che l’attanaglia.
Hanno un effetto devastante, queste parole, in numerosi comunisti, quelli in là con gli anni.
Trovo Alina, di sabato, intenta a leggere La Storia di Elsa Morante, romanzo che ha scosso la repubblica delle lettere. Romanzane popolare, sentenzia il solito critico con la puzza sotto il naso, concepito per mettere su un po’ di soldi. E altri: “Finalmente un bel romanzo. Una storia sincera. Scritta bene”.
A Parigi, muore Vittorio De Sica. Tutti a riconoscergli il merito d’essere stato il protagonista del neorealismo nel cinema. Io gli riconosco soltanto la fortuna d’avere incontrato Cesare Zavattini e d’averne intuito la genialità. E’ Zavattini il padre della rivoluzione, del funerale dei telefoni bianchi, che De Sica aveva praticato, attore tronfio, stucchevole.
Vorrei poter avere più informazioni sul Sid, sulle sue trame. M’hanno detto d’intervistare il generale Vito Miceli. Ma non ce l’ho fatta. Il giudice Giovanni Tamburino, di Padova, l’ha fatto arrestare. Accusa: cospirazione contro lo stato. E’ arrivata quale conseguenza delle indagini sul tentato colpo di stato di Junio Valerio Borghese. C’è andato di mezzo anche Sandro Saccucci, deputato del Msi.
E’ un fine anno tinto di rosso sangue. Due aderenti ai nuclei armati proletari – Giuseppe Romeo e Luca Mantini – sono stati ammazzati dai carabinieri. Li hanno bloccati nel corso d’un tentativo di rapina in Banca a Napoli.
Cinque appartenenti ad Autonomia operaia hanno fallito una rapina al portavalori dello zuccherificio Sil di Argelato, Bologna. Un carabiniere ha tentato di contrapporsi ed è stato ammazzato. Il suo nome: Andrea Bombardini.
Mi telefona un amico. Mi propone, per la fine dell’anno, una rimpatriata.
“Ci stai?”
“Ci sto se posso portare un’amica”.
“Certo. Tutti avranno accanto mariti e mogli”.
Chiedo ad Alina se va.
Sicuro che le va.
Ci ritroviamo in una quarantina nella bella villa di campagna dell’organizzatore, industriale calzaturiero.
Da ragazzi, era il luogo del nostro ritrovo. Palcoscenico delle prime storie.
“per favore, - dico – non cominciamo a rivangare”.
“Rivangare non fa male”, obietta qualcuno.
“Non stasera. Stasera dobbiamo godercela”.
257.
Due telefonate, in una mattina pallida di gennaio. Triste. Ho saputo della morte di Carlo Levi, autore di Cristo si è fermato a Eboli. Libro letto e riletto.
La prima telefonata è da Firenze. Un amico di un amico. Un industriale, che ha soldi da spendere. Lo alletta il nuovo che sta avanzando. I riferisce a radio e tv libere.
“Mi assicurano che lei sarebbe la persona giusta”.
“Esagerano”.
“Non la tratterei male”.
“Non lo metto in dubbio. Però ho una certa età, forse non più adatta per le avventure”.
“Mi promette che ci pensa?”
“Ci penso”.
“Tra quanto possiamo risentirci?”
“Tra una settimana”
“La richiamo”.
L’altra telefonata arriva a fine mattina, redazione deserta. E’ una voce metallica, che riemerge dal passato.
“Sei troppo curioso”.
“Ma senti”.
“Non hai perso il vizio. Costì, comunque, ti tengono a freno, fortunatamente. Fossi in te, però, lascerei perdere certe storie. Sono più grandi di te. Sei una pagliuzza. Basta un sospiro per spazzarti via”.
Non mi sento spaventato. E’ una voce che, negli anni, ci ha provato più volte. Tuttavia, è impressionante come venga a sapere sempre tutto. Deve esserci un filo che unisce città e uomini. Un filo che si dipana nel lato oscuro della politica. Quel lato che mi viene di definire terz livello. Gli altri due sono l’eversione di destra e l’eversione di sinistra, con tutte le loro sigle.
Terzo livello più potente e pericoloso degli altri due. Potere occulto, tante braccia, ma una sola esta. Non è detto che sia una persona.
Chiamo Alina. Le racconto le due telefonate. Mette in secondo piano quella del’industriale, non la commenta nemmeno. Invece, la seconda la spaventa.
“E’ una voce che mi perseguita da anni. Era un pezzo che non la sentivo”.
S’è fatta viva quando ti sei mosso su una strada diversa, quando hai cercato informazioni sul Sid”.
“Deve esserci tanto marcio in Danimarca”.
“Sì. E ho paura. Lascia perdere. So che ti chiedo troppo. Ma io non voglio che ti accada qualcosa. Non lo sopporterei”.
“Non mi accadrà nulla. Stai tranquilla”.
Siamo insieme, Alina e io, quando rimbalza la notizia che a Empoli, certo Mario Tuti – insospettabili, incolore geometra comunale – uccide due poliziotti (Leonardo Falco e Giovanni Ceravolo) e ne ferisce un terzo (Arturo Rocca). Sono andati a casa sua, un ordine di cattura in mano. Tuti, da indagini attente, è risultato il fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario, gruppo armato d’estrema destra.
Tuti è uccel di bosco. Su di lui pesano i sospetti d’essere l’autore di azioni eversive, non ultima la strage dell’Italicus. A Empoli, ignoravano tutto. Era un geometra neanche tanto brillante.
258.
Rebecca m’annuncia che ha deciso di mollare e di lasciare Roma. La vedo invecchiata, nervosa.
“Devo cambiare tutto”.
“Hai una soluzione? Parlo d’una soluzione decente”.
“Ho una soluzione. Penso sia la migliore”.
“M’auguro sia vero. Mi dispiacerebbe se fosse il contrario”.
“Ritorno a casa.”.
“Spero riesca a ritrovare un po’ di serenità”.
“Ci provo”. M’abbraccia e mi bacia sulla bocca. Un bacio delicato. “Siamo stati poco insieme. Avrei voluto di più. Ma tutto è andato a rovescio”.
Se ne va con un sorriso lieve e un gesto con la mano destra, una specie di saluto, come se dovessimo incontrarci di lì a poco.
Mi dispiace. Mi dispiace veder soffrire persone come Rebecca. Una donna rimasta sola. Una vita a ostacoli. Non l’ho aiutata molto.
La cronaca, ogni giorno, riserva sorprese. Un albergo va a fuoco, a Domodossola. Sedici i morti. Eppoi ci sono i morti – di destra e di sinistra – in agguati e manifestazioni.
Dico di no alla proposta dell’industriale di Firenze. Ammetto di non avere coraggio. Mi tengo il sicuro, con tutti gli annessi e connessi. Sto in Rai.
“Se ci ripensa, non fa che chiamarmi” dice salutandomi.
259.
“Pronto?”
“Sì, Claudio, sono Lucia”.
“Lucia?”
“Si”.
“Dimmi”.
“Niente”.
“Niente?”
“Volevo sentirti”.
“Una vita. E’ passata una vita”.
“Per me, è come se fosse ieri”.
“Dio, che dici?”
“Quel che è vero”.
Ho il core in gola. “Come hai fatto a trovarmi?”
“Ho chiesto. Sei una persona conosciuta. Un giornalista conosciuto”.
“Ti ringrazio. Ma…”.
“Voglio dirti la verità. Perché c’è una sola verità. Scoprire che ero innamorata di te, m’ha fatto sentire in colpa. Mio marito – mi sono detta – non lo merita. Come se il mio fosse un tradimento ei confronti di una persona ancora n vita. Ho detto no. E mi sono punita. Sono stata incapace di spiegarti. Vigliacca, mi sono data alla fuga. Sono scappata. Non mi sono resa conto del dolore che ti procuravo e che mi procuravo. Perché? Mi chiedesti, quel giorno, sulla spiaggia a Viareggio. Quante volte m’è rimbombato in testa quel perché. Avrei dovuto buttarti le braccia al collo e coprirti di baci. Invece scappai piangendo. Ogni volta che t’ho incontrato, sono scappata. Sono sicura d’avere perso tanto. Troppo”
. Mi lascio andare. Non ragiono. Non rifletto. Viene fuori tutto quel che ho messo a dormire dentro di me. Dico: “Vengo a Firenze”.
“No. E’ tropo tardi”.
“No”.
“Hai un’altra donna. Lo so che hai un’altra donna. Vivi con lei. E’ una persona perbene”.
“Non puoi farmi questo”.
Ti ho sempre amato”.
“Non poi farmi questo”.
Non siamo più giovani”.
La testa mi scoppia. Un collega mi guarda preoccupato. Devo avere una faccia strana.
“Tanti auguri, Claudio. Tanti tanti auguri, amore mio”.
E abbassa.
Vorrei urlare.
260.
Randolfo Pacciardi, con accanto Edgardo Sogno, a Roma, in un comizio, esalta la repubblica presidenziale.
“Il regime parlamentare è in crisi”, mi dicono i due. Pacciardi aggiunge: “L’Italia è un baccanale orgiastico di delitti e rapine.
Vogliono l’uomo forte. Dire che, tutti e due, l’hanno combattuto, l’uomo forte.
Alina mi chiama: “Perché non sei venuto?”. Mi rimprovera: “Non m’hai avvertita. Sarei potuta andare a trovare i miei”.
Ho sbagliato. La telefonata di Lucia m’ha fatto andare fuori squadra. “Ho avuto da fare. Succedono tante di quelle cose”, dico.
261.
Il capo delle Brigate Rosse – Renato Curcio – viene liberato dal carcere di casale Monferrato. Hanno agito in quattro.
Mi chiedo se non vi siano state complicità.
Compro due libri: Ernesto, romanzo postumo di Umberto Saba, e Padre padrone di Gavino Ledda. Poi, un collega mi consiglia Berlinguer e il professore, romanzo di fantapolitica. L’autore è anonimo. C’è quasi un toto autore tra di noi. Sono in molti a sostenere che sia un giornalista. Se ne fanno, di nomi. Nessuno che smentisca o affermi. Il giochetto funziona. Il libro diverte, E, di divertirsi, bisogno.
Gaetano Verzotto, presidente dell’ente minerario siciliano, democristiano, ex senatore, è scappato all’estero evitando l’arresto. Lo accusano d’essere implicato nel crack di Sindona.
Gaetano Arfè, senatore, direttore dell’Avanti, se la vede brutta. La bomba distrugge la sua abitazione.
Claudio Varalli, diciotto anni, milanese, muore per un colpo di pistola, sparato da un fascista di Avanguardia nazionale.
Giannino Ribecchi, ventisei anni, insegnante d’educazione fisica, viene travolto e ammazzato da una camionetta della polizia. A Firenze, Rodolfo Boschi, ventiduenni, iscritto al Pci, è colpito a morte: gli ha sparato un agente in borghese. Sergio Ramelli, diciannove anni, aderente al Fronte della gioventù, more a Milano. Vittima d’un’aggressione da parte di aderenti ad Avanguardia operaia.
Violenza ogni giorno.
M’inquieta.
La notte dormo poco.
Mi chiedo, spesso, come si possa spazzare tutto questo.
Alina non si fa sentire e io non la cerco.
Giovani Taras, nappista, è dilaniato dall’ordigno che stava confezionando.
Cerco Rebecca ma non riesco a trovarla. Il telefono squilla inutilmente. Provo a ore diverse e in giorni diversi.
Niente.
Rapimento dell’industriale Vittorio Vallarono Gancia. I carabnieri, forse hanno avuto una soffiata, circondano la cascina dove si trova l’industriale.
E’ ad Arzillo, non lontano da Acqui Terme, nell’Alessandrino. C’è un conflitto a fuoco. Muore la brigatista Mara Cagol, donna di Curcio, e rimane ferito il carabiniere Giovanni d’Alfonso. Le sue condizioni sono disperate.
Alceste Campanile, ventidue anni, di Lotta Continua, viene ammazzato a Reggio Emilia. Non dai fascisti, ma da Autonomia operaia.
C s’ammazza anche tra compagni.
Compagni? Mi chiedo se la parola è giusta.
Telefona Alina.
Va al sodo. Ho chiesto il trasferimento dalle mie parti. Voglio stare accanto ai miei. Sono vecchi e malmessi. Hanno bisogno di me. Ti libero casa. Lascio le chiavi alla vicina”.
“Hai già deciso”.
“Non potevo fare diversamente. Non ti fai più vedere e i miei hanno bisogno”.
“Potremmo…”.
“Cosa potremmo, Claudio? Pensavo d’avere trovato la persona giusta dopo tante tribolazioni. Invece, passato l’entusiasmo iniziale, mi trovo accanto una persona assente, oche parole, insignificanti o formali. Un estraneo quasi.
Mi sento un verme. Forse lo sono. “Neanche una spiegazione. Ho evitato di venire a Roma per non incappare in umiliazioni. Non so che vita conduci costì, e con chi”.
“E’ un momento particolare per me. Lontana da me l’intenzione di farti del male”.
“Me l’hai fatto e me lo stai facendo”.
“Certe cose, Alina, andrebbero affrontate a quattr’occhi”.
“Con te non è possibile. On te bisogna usare il telefono. E terribile, ma è così”. Abbassa senza aggiungere altro.
Rimango con il telefono all’orecchio, forse nella speranza di sentire ancora la sua voce, almeno per dirmi ciao.
Ho fatto il vuoto intorno a me.
Ridono, più in là, alcuni colleghi. Qualcuno ha raccontato una storiella piccante.
262.
Le elezioni per il rinnovo dei consigli regionali, provinciali e comunali registrano una novità: sono chiamati al voto anche i diciottenni. La maggiore età non è più ventuno anni.
Il Pci avanza del 5,5 per cento, il Psi dell’1,6 per cento, la Dc fa un passo indietro significativo, del 2,5 per cento. E i laici vanno ancora peggio: diminuiscono del 3,3 per cento.
Riprendo a scrivere e riscrivere i miei raccontini. E torno a considerare seriamente l’opportunità di sottopormi al giudizio di un editore qualificato.
Al ciclostile affido considerazioni sulla vita politica e sulle condizioni dell’Italia.
Sono deluso.
Chiedo il trasferimento a Firenze. La risposta è no. “Abbiamo bisogno di te qui. Stanno per cambiare tante cose. Ci servi”.
La Rai sta per cambiare. Lo sento dire da tempo.
M’adeguo e vivo la mia solitudine.
Ogni tanto sono preso da tentazioni.
Mi dico: telefono ad Alina.
Un’ora dopo cambio opinione: telefono a Lucia.
Lucia m’ha spiazzato. Ho riaperto un capitolo che ritenevo chiuso. No, devo essere onesto. Facevo finta che fosse chiuso. Sennò non riuscirei a spiegare, a spiegarmi, certi comportamenti, certe prudenze con Barbara, con Rebecca e anche con Alina. Perfino con Chiara.
Cerco d’avere un’intervista con Benigno Zaccagnini. Moroteo, è il nuovo segretario della Dc. Fanfani ha cercato di mettersi nuovamente di traverso, ma è stato battuto. L’elezione di Zaccagnini ha prodotto n altro evento, un imprevisto: la spaccatura tra i dorotei. Il leader Mariano Rumor è stato messo in minoranza da Antonio Bisaglia e Flaminio Piccoli. E’ gente di poco spessore che adopera i gomiti per farsi ragione.
Zaccagnini mi riceve. M sembra una pasta d’uomo. Ha poco del politico. Sono in tanti a sostenere che è un uomo di paglia.
Glielo dico. Non s’arrabbia. “Essere della corrente, che ha come riferimento un politico della statura di Moro, non vuol dire non avere personalità. Ho le mie idee. Penso che la Dc debba stare meno nei palazzi e più tra la gente. I bisogni della gente sono tanti. Ogni giorno aumentano. E il clima che si respira, creato dal terrorismo di destra e di sinistra, non è dei migliori”.
“C’è ci afferma che i rapporti tra Dc e Psi si stanno sfilacciando”.
“Chi lo afferma è tra quelli che remano contro, che non hanno mai digerito il centrosinistra”.
263.
Ad agosto evito la solitudine della casa dei miei. Mi rifugio in un piccolo albergo della Versilia. A Fiumetto. Cambio bagno. Mi trasferisco al Nettuno, sul confine con Tonfano. E’ animato dai giochi di giovani. Tornei. Mi va bene. O bisogno di questa animazione, che non è mai sbracata.
Una signora di Prato mi riconosce. Dice che mi ha visto in tv, che segue le mie cronache politiche, che le sembro una persona seria, che sono meglio visto da vicino. Mi chiede che libro sto leggendo. Le rispondo che è un libro di Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari. Raccoglie gli articoli che ha scritto per il Corriere della sera. Articoli che hanno suscitato attenzione, discussioni, polemiche.
No, Pasolini non è autore che ama. Nel suo giudizio negativo incidono i film. Con tutto quel sesso, quelle esagerazioni, quelle scene così esplicite, con tutta quella violenza, dice.
“Con tanta poesia”, dico. Lei mi guarda interdetta.
Confesso: non amo Pasolini, ma di fronte a quella dona, alle se parole, mi sento di difenderlo.
Si trattiene ancora un po’. Fa scivolare il discorso alla qualità dell’acqua. “Tutto quel lavorare. Ci sono giorni che evito di fare il bagno”.
Su questo ha ragione. Il mare è in condizioni disastrose. Come lo sono i fiumi. Tutti i fiumi. L’Arno fa pena. Non solo è scuro, quasi nero. Puzza anche di marcio. Chi fa qualcosa?
264.
L’hanno ammazzato a sedici anni, Mario Zicchieri. Apparteneva al Fronte della gioventù. Era davanti alla sede del Msi del Predestino, a Roma.
Il core mi fa brutti scherzi. Ci sono momenti che non riesco a respirare, il fiato mozzo.
Corro a controllarmi. Invecchiando, sono diventato pauroso. Non voglio morire. Non o combinato niente per morire ora.
Dai controlli, emerge che ho un numero incredibile di estrasistoli. Nessuna patologia. Forse il lascito di una malattia antica, la difterite. Superata grazie alla penicillina acquistata da mio nonno che aveva possibilità economiche.
Forse a difterite le ha lasciato un bel ricordo. Una piccola ferita al core che, con l’andare degli anni, s’è calcificata e le produce le estrasistoli”.
“le sento ora? Avrei dovuto sentirle sempre”.
“Più invecchia e più le sente”.
E’ una spiegazione che mi soddisfa in parte.
“deve imparare a convincerci”.
“Ci proverò”.
“Stia più tranquillo. Sì, lo so, fa il giornalista. Ma cerchi di guardare la vita con un certo distacco. O, se vuole, con un pizzico d’ironia”.
“Si fa presto a dirlo. A questa età si cambia poco”.
“Ci provi”.
E’ come dire a un asino di non ragliare.
265.
Sono andato sulla tomba dei miei. Ho messo fiori finti per farli durare.
Quando ponevo domande, non si sottraevano. Neanche a domande difficili.
Erano un’àncora.
Ma ora?
Torno a casa.
Aprire la porta di casa m’ha fatto male.
Mi ha fatto male perché sono entrato nel deserto.
Mi sono trovato di fronte alla mia dabbenaggine.
Accendo la televisione e la prima notizia è sconvolgente. Pier Paolo Pasolini è stato trovato morto ammazzato a Ostia. Si sospetta che l’autore sia un diciassettenne, uno con cui aveva avuto un rapporto sessuale.
Brutta fine.
Ma è la verità?
266.
Roma è chiacchierona. Lo è più di Firenze. E con le parole si fanno morti e, se uno è morto e sepolto, lo si disseppelisce e si riseppellisce un’infinità di volte. Così è per Pasolini.
Non lo merita. Ma vaglielo a dire alle vipere. Strisciano e colpiscono, eppoi si nascondono infide.
Barbara mi telefona. E’ addolorata. Sconvolta. Una gran perdita per la cultura italiana.
Poi mi chiede come sto.
Rispondo: “Come uno che, arrivato a una certa età, si mette a fare i conti, quasi tutti i giorni, e scopre che non gliene torna uno. Il peggio è che, nello stesso tempo, si rende conto che la colpa è sua, soltanto sua. Con l’aggiunta che si è fatto del male e ha fatto del male a chi ha avuto la ventura di stargli accanto. Ti basta come risposta?”
“Sei solo, vero?”
“Sono solo”.
“Non vorresti, però non fai nulla per non esserlo”.
“Masochismo puro. Senza rimedio. Sorvoliamo. Te, piuttosto. Dimmi di te”.
“Non mi sento londinese, tanto meno inglese. Comunque, è un buon posto. Di prestigio. Sembra che al direttore piaccia quel che fo. Ogni tanto m’assale la nostalgia. Figurati, nostalgia di Grosseto. Roba di una vita fa”.
“ Io c’infilo anche il rimpianto. E sono fregato. Ci sono giorni che non riesco a carburare”.
“Incontriamoci. Ho voglia di vederti”.
“Dove?”
“A Firenze”.
“Quando?”
“Per le feste di Natale”.
“Ci risentiamo per fissare con precisione”.
“Chiamo io”.
267.
Eugenio Montale, il poeta di Ossi di seppia, le Occasioni e atura, vince il Nobel.
Barbara è contenta.
“Lo merita”, dice.
Ci sediamo a un tavolino alle Giubbe Rosse. Lei prende un cappuccino, io un caffè molto lungo.
L’ho trovata dimagrita. Anche lei m’ha trovato dimagrito. E stanco. E gli occhi sempre più tristi. E una piega amara sulla bocca.
“Stiamo qui, a Fiorente?”
“In albergo? Non mi sembra natalizio”.
“Allora?”
“Si va a casa mia, dei miei. Ti va?”.
“Come no”.
Usciamo. Fa freddo. Freddo secco. Mi piace. Camminiamo, ogni tanto fermandoci davanti alle vetrine, in via Calzatoli. E’ lei, curiosa, e piena d’ironia, a costringermi alle fermate.
“Quando andiamo a casa tua?”
Tra un’ora. Prima voglio tentare di parlare con La Pira”.
“Con La Pira? Perché?”
“Perché fa parte della mia vita. L’ho incontrato all’inizio della carriera. E’ stato importante. M’ha aiutato. M’ha fatto entrare al Giornale del Mattino quando sono rimasto senza lavoro”.
“Politicamente non conta più niente”.
“Ne sei convinta? Pensa alle sue conferenze di convergenza, alla conferenza di Helsinki nell’agosto scorso e al convegno dell’Unesco, in ottobre, sulla carta dei popoli europei”.
“Mi riferivo all’Italia”.
“L’Italia è malmessa. Un uomo come lui è spiazzante per, la classe politica odierna. Anche per quella di ieri”.
“L’hanno fermato”.
“Ogni volta che è sceso in campo, ha messo tutti sotto”.
M’informano che La Pira non è a Firenze. S’è preso un periodo di riposo. Non sta bene. E’ affaticato. S’è mosso molto negli ultimi mesi. S’è impegnato molto.
Arriviamo a casa dei miei – per me è sempre casa dei miei, come se fossero sempre vivi, come se fossero lì ad aspettarmi, caso mai tristi perché mi faccio vedere poco, e loro stanno in pensiero.
Arriviamo verso le otto di sera. Non c’è niente da mangiare. Barbara dice che non ha fame.
La casa è fredda. Accendo il riscaldamento e lo mando al massimo.
Ci mettiamo a guardare la tv.
Non so cosa possa succedere tra noi. E’ passato tanto tempo. Per, c’è stata di mezzo Alina, eppoi quella telefonata di Lucia che m’ha scombussolato, che non riesco a togliermela dalla testa.
Non so cosa possa accadere tra noi.
Vorrei che non accadesse niente, anche se è un po’ che non sto con una donna, e Barbara è una che ci sa fare.
Vorrei che non accadesse, ma accade. Perché Barbara è venuta apposta.
Natale e fine anno li passiamo stando soprattutto in casa. Il freddo è intenso, e abbiamo da smaltire stanchezze.
Ci rimettiamo n viaggio il primo dell0’anno. A Firenze ci separiamo. Lei va verso Londra, io verso Roma.
Francesco De Martino, segretario del Psi, ha scritto un editoriale sull’Avanti, quotidiano del suo partito, per annunciare l ritiro dei socialisti dalla maggioranza di governo.
Non si mette bene.
Non si mette bene anche perché dagli tati Uniti arriva una notizia bomba. La Cia ha dato soldi a uomini politici anticomunisti. Si fanno i nomi di Andreotti, Carlo Donat Cattin ed esponenti della destra del Psdi, e Vito Scalia della Cisl. Si parla di sei milioni di dollari.
Gli interessati smentiscono. Ci mancherebbe altro.
Il 7 gennaio il governo Moro non ha più maggioranza. I socialisti invocano un governo d’emergenza.
Corrado gli italiani a casa, la domenica, con una trasmissione dal titolo significativo Domenica in.
Pù gli italiani stanno in casa, più risparmiano.
Sono tempi magri.
L’afferma anche il nuovo quotidiano La Repubblica, diretto da Eugenio Scalari. E’ un quotidiano che vuole essere nuovo in tutto. Gli italiani non è che l’accolgano bene.
Mi dicono: “Tieniti pronto. Stanno per cambiare le cose in Rai”.
Lo sento dire da un pezzo. So anche dovrò scegliere da che parte stare. Vorrei stare dalla parte dell’informazione. Non fare il mezzobusto. Non mi va d’essere ridicolizzato, di sentirmi dare del lottizzato.
Pendono Renato Curcio, a Milano, e qualcuno – in redazione – grida evviva. Con lui hanno preso Nadia Mantovani.
Il Pdup elegge segretario Lucio Magri. E’ uno che si presenta bene, che sa di lavanda e poco di fabbrica. Ma chi sa di fabbrica, oggi? Chi parla in nome, e per conto, degli operai?
Ci sono numerosi – troppi – professionisti della politica, anche dove non dovrebbero essere.
Affido queste riflessioni al ciclostile. Ogni tanto mi fa bene metterlo in funzione.
Riccardo Cardellicchio
Fine diciottesima parte