Scritto nel '63 e pubblicato postumo nel 1975, Il padre selvaggio di Pier Paolo Pasolini (Giulio Einaudi Editore, collana Nuovi Coralli) era stato scritto per un film mai realizzato.
È la storia di un ragazzo negro che come tanti altri proviene da una tribù dell’Africa per studiare alla scuola di Kado, ai bordi della foresta.
In quel liceo insegna un professore bianco particolarmente intelligente e sensibile, che più che fornire nozioni cerca di attivare nei giovani studenti – che vivono una situazione di grande confusione tra il vecchio e il nuovo, tra natura e “civiltà” d’importazione – una propria autonomia di pensiero per una presa di coscienza e forse di posizione.
In questa breve ed intensa opera c’è tutto il Pasolini poeta e il Pasolini insegnante, che ai suoi allievi semplicemente chiedeva di osservare la vita per rifletterla e raccontarla, come egli stesso faceva nelle sue opere letterarie e nei suoi film.
Il padre selvaggio di Pier Paolo Pasolini
È il primo giorno di scuola. L’insegnante arriva nel misero college fatto di cortili, baracche e dormitori. Sente le grida degli studenti che giocano a pallone in un prato davanti alla scuola chiamandosi tra loro “Fratello, fratello”.
Il professore prova l’esaltazione di essere lì, con il suo idealismo e la sua poeticità.
Usa toni amichevoli e democratici per avvicinare i suoi allievi, ma questi non sono preparati a un simile approccio e restano sulla difensiva.
Per rompere il ghiaccio il professore inizia a parlare di sé, dei suoi difetti e delle sue aspirazioni, dei suoi ideali e convinzioni politiche. Confessa la sua difficoltà a mettersi in relazione con essi poiché – dice – non sa niente di loro, non sa niente della loro terra, delle loro famiglie. I ragazzi si mostrano diffidenti verso una dolcezza che vorrebbe metterli a nudo.
Il professore inizia allora una lezione sulle origini della poesia latina citando Nevio, Ennio ed altri. Ma il giorno successivo nessuno sa dire una parola sulla lezione di letteratura latina, se ne stanno tutti in silenzio con aria ostile. Solo Davidson parla, ma come recitando una lezioncina imparata a memoria. Il professore esterna tutta la sua delusione, la sua indignazione. Non ce l’ha col ragazzo, ma con gli insegnanti colonialisti che lo hanno preceduto, con il colonialismo, con il conformismo della borghesia europea. Urla: “Voi siete liberi, siete liberi!” e Davidson, credendo che l’ira del professore sia diretta a lui, il giorno dopo non si presenta a scuola. Il professore lo trova seduto ai bordi della boscaglia, lo avvicina e tenta un difficile dialogo, consapevole di aver commesso un errore di cui si rimprovera.
Dopo qualche giorno il professore tenta di ripetere in classe la lezione su Ennio interrompendosi spesso per chiedere ai ragazzi se lo stanno seguendo. Essi lo seguono ma senza capire il nuovo indirizzo culturale, così diverso da quello a cui sono stati abituati e che esula dalle conoscenze scolastiche. Questi studenti non hanno avuto mai un libro proprio, hanno letto solo i loro manuali.
Il professore cerca di agganciare il loro interesse con un fuori programma. Legge in classe la poesia di un poeta negro moderno (Senghor, De Andrade), ma è una poesia sofisticata prodotto della scuola europea, poco fruibile nella forma e nel contenuto fatto di ideologie contrastanti. I ragazzi non capiscono il loro poeta, per essi ancora più astruso di quelli latini.
L’insegnante spiega allora la poesia del poeta negro, verso per verso, rendendo familiari ai ragazzi le immagini che sperimentano nel quotidiano.
Un giorno il professore arriva con tanti grossi pacchi pieni di libri, fatti pervenire dall’Europa. Libri sull’Africa e sulla etnologia dei popoli, opere di poeti negri e anche di Hikmet, Neruda, Eliot, Machado, opere dei grandi romanzieri dell’ottocento: Dostoevski, Gogol, opere di sociologia, di politica e divulgative, e il Capitale di Marx.
Il professore chiede se qualcuno vuol fare il bibliotecario di classe e spiega in cosa consista. Chiede se qualcuno ha letto qualcosa dei nuovi libri e se vuole parlarne o chiedere spiegazioni.
La domanda viene da Davidson: “Come sono le città in Europa?” E l’insegnante racconta una città europea, un misto di Parigi, Londra, Roma, Mosca, con le loro diversità e analogie.
Poi dà il primo tema in classe: Com’è il tuo villaggio? Il risultato è disastroso: pensieri retorici e sgrammaticati. Davidson non ha svolto il tema. Il professore scoraggiato si lascia andare ad una nuova scenata: “Voi siete liberi!”.
Davidson prova a scrivere il tema seduto da solo sotto un mogano. Descrive la sua gente, i riti, le superstizioni, le danze, la caccia al leone, ciò che si aspettava da lui il suo insegnante.
Professore e studenti iniziano ad entrare in confidenza. Si ritrovano in una birreria nell’ex quartiere negro e nell’euforia generale Davidson chiede: “Che cos’è la poesia, signore?”. Ne consegue un discorso quasi da ubriachi, vivace e sciolto:
– Ma tu lo sai! – dice il professore.
– No, non lo so! – protesta il ragazzo scuotendo la testa ricciuta.
– Sì, lo sai!
– No, non lo so!
– Sei un africano, sei immerso nella poesia!
– No, la poesia è una cosa dei bianchi.
– Canta una canzone del tuo villaggio!
Davidson si mette a cantare uno dei canti del suo villaggio.
Ma il canto è nella sua testa strettamente unito alla danza. E allora cantando si mette a danzare.
Un lungo canto, una lunga danza.
– Ecco, questa è la poesia!
A Kado si festeggia il terzo anniversario della liberazione dello Stato. Grande dispiegamento di mezzi militari e di truppe nella Capitale, nascono amicizie fra i giovanissimi soldati dell’ONU e gli studenti negri.
Davidson prova una grande simpatia per Gianni, rozzo e privo di studi, semplice e allegro, mentre egli è in piena lotta interiore scatenata, seppure confusamente, dalle sollecitazioni del suo insegnante, unica fonte di conoscenza in un luogo privo di strutture e di strumenti culturali.
Il professore vorrebbe fondare una associazione scolastica autonoma e indice una riunione in cui affronta temi forti, come la bomba atomica e l’analfabetismo, che vengono poi dibattuti fra i ragazzi senza il suo intervento.
Accade un grave episodio: l’esponente del partito politico di opposizione a Kado è stato arrestato. Sconcerto fra gli studenti. Davidson e alcuni altri compagni disertano l’avvenimento politico, condannano l’antidemocratico arresto, dibattono la questione durante la seconda riunione, a cui pochi altri partecipano.
La condizione africana si fa tragica. L’epopea del Congo presenta un quadro spaventoso su tutti i fronti. Davidson vive con sgomento indicibile gli orrendi accadimenti.
Arriva l’ultimo giorno di scuola. Risultati scarsi, ma non peggiori di quelli degli studenti europei. “Ricordatevi che siete uomini liberi”, è il saluto del professore.
Davidson col suo fagotto lascia la cittadina diretto al suo villaggio, e per la prima volta vede l’interno dell’Africa, con sguardo nuovo e consapevole. Al villaggio si scontra col padre capotribù, d’accordo con le grandi società minerarie neo-colonialiste e contro le tribù fedeli al governo centrale.
L’odio tribale esplode nel conflitto fra tribù. La tribù di Davidson sconfigge e trucida la tribù avversa.
Intervengono le truppe dell’ONU. Al pragmatismo non scevro di volgarità e razzismo dei soldati impegnati negli scontri nella regione, centro della lotta africana e degli interessi europei, fa riscontro la spiritualità dei soldati selvaggi che, nell’esaltazione, compiono riti assurdi e crudeli.
Ma mentre i soldati si umanizzano man mano che si allontanano dai luoghi da tempo posseduti dai bianchi, il fanatismo degli africani cresce. Discorsi folli e droga. Davidson, sempre più coinvolto, partecipa alle nefandezze compiute dalla sua tribù.
Nel campo ONU il soldato Bill mette un brano di Bach e balla come un bambino. È l’ora delle nostalgie evocate dalla musica classica della sua Europa. Ma qualcosa di orribile mette fine al momento dei ricordi e dei desideri. Spari, urla, uccisioni. Il corpo di Gianni, il soldato col quale Davidson aveva simpatizzato a Kado, viene trascinato in mezzo alla foresta e mutilato accanto ad un altro cadavere mutilato di un braccio. Anche il cadavere di Gianni viene mutilato. Giovani donne e bambini negri portano tra le braccia osceni, sporchi fagotti.
Si compie nella notte un orribile rito pagano al quale partecipa Davidson con la sua famiglia, posseduti tutti da una arcaica spiritualità sanguinaria.
Nel primo giorno di scuola del nuovo anno lo stesso insegnante si presenta al college. Appare scoraggiato e deluso per la piega storica che hanno preso gli eventi. Tutti gli stringono la mano, tranne Davidson.
I ragazzi fanno tante domande, s’interessano alle vicende del mondo. Davidson resta estraneo ad ogni discussione, lo sguardo perso nella visione della foresta. Finché il professore esasperato inveisce contro di lui e Davidson comincia ad urlare rotolandosi a terra. Il ragazzo è ossessionato dalla sua coscienza, lacerata fra storia e preistoria.
Cose tremende sono accadute nella zona di Kindu, non ne parlano i giornali della Capitale, ma quelli europei. Il professore apprende la cosa mostruosa dal giornale. Il suo pensiero è per Davidson, precipitato in una fossa d’orrore senza uscita, se non ci sarà modo di metterlo di fronte ai fatti che egli da solo non può, non vuole ammettere. E gli parla: “Tu nel tuo villaggio, con tuo padre, coi tuoi fratelli, hai tradito te stesso, l’unico vero Davidson sull’Africa e sulla terra! (…) Sei tornato indietro nei seccoli, hai ceduto. Ti sei drogato, hai partecipato a dei riti che non sono più i tuoi, e quindi sono colpevoli…”.
Davidson reagisce violentemente, aggredisce il suo professore ferendolo con un coltello e scappa urlando nella radura. Vaga disperato, perseguitato dalla visione insopportabile dei misfatti compiuti insieme alla sua gente. Ma anche la bellezza dell’Africa è nei suoi occhi e improvvisa una parola gli risuona nella mente a cui altre ne seguono, ed egli prende a scrivere una poesia che, seppur dolorosa e critica, racconta la bellezza struggente della sua terra e la vita che si annida nella foresta e nei villaggi. E mentre continua a scrivere il suo viso si illumina di un fosco, innocente sorriso.
Maria Lanciotti