SAFFO (seconda metà VII – primi decenni del VI sec. a. C.)
L’unica ode integra di Saffo. Ho lavorato su una servile, troppo onesta traduzione, non avendo la preparazione filologica per affrontare il nudo originale (dialetto eolico), al quale tuttavia ho guardato. Né, al di fuori della fidata pagina a stampa, si arrischia di avviare per i sentieri elettronici il testo greco con la sua segnatura meticolosa. Come ho annotato all’inizio della serie presente, la difficoltà vera del traduttore non è nella lingua di partenza, bensì in quella di arrivo. Ogni lingua letteraria è predisposta ad accogliere del trapianto poetico certi caratteri, a modificarne altri, a rifiutarne altri ancora. Ciò vale peculiarmente per l’italiano, con i suoi otto secoli di tradizione lirica. È dunque inutile, e nocivo, fingere di perseguire una qualche verginità stilistica, una purezza arcaica di ritorno – gli “arcaici” eran tutt’altro che “puri”! – come se duemilaseicento anni non fossero intercorsi tra noi e la poetessa di Mitilene: c’è in mezzo il mare latino, e Dante, Petrarca, Leopardi, e secoli insomma di traduzioni dai classici…
In parallelo alla traslazione linguistica, occorre operare quella dell’immaginario. Noi non vediamo più la natura divinizzata di Saffo; pertanto diversi dettagli figurativi, se non sono tradìti, oltre che tràditi, pèrdono d’intensità: per es. tutta la zona del cocchio con i passeri aggiogati che, presa a sé, sa di stucco rococò, di marzapane arcadico. Per recuperare un pochino lo spirito originario dobbiamo predisporre un paesaggio dell’anima, psicologicamente attendibile.
Siamo su un’isola greca, al termine di una notte insonne di desideri inappagati. Ma ecco verso oriente spunta alta sul mare Venere, la stella maris (e qui come non ricordare il dantesco “lo bel pianeto che d’amar conforta / faceva tutto rider l’oriente” sulla riva del Purgatorio?). Si spalanca una splendida aurora mediterranea, variegata dal rosso porpora al dorato: è questo il trono variopinto dell’astrale Afrodite. Saffo scorge la Dea – nel VII sec. a. C. gli Dei erano là, visibilissimi – e la invoca; ed ella “viene” da lei, lasciando la casa dorata del padre Zeus, ovvero il cielo che, sùbito dopo l’aurora, acquista la sua vastità radiosa. Il cocchio con i passeri. Al sorgere del sole, e già nel crepuscolo antelucano, tutti gli uccellini iniziano a cantare, ed è come se quel tripudio cinguettante accompagnasse la “venuta”, cioè l’insorgere della presenza di Afrodite presso il cuore di Saffo. Sintesi didattica: Saffo, svegliatasi a quel cinguettio e vedendo, oltre l’apertura del suo cubicolo, Phosphóros (Lucifero, la portatrice di luce), si ricorda di una precedente occasione felice, oso dire teofanica, e sente rinascere in sé la promessa di un amore corrisposto. La “terra nera” è un binomio già cristallizzato nell’epica, dato che i Greci disponevano di ben pochi nomi per i colori: la Madre Terra quindi, rispetto al cielo diurno, è sempre “nera” (risimbolizzata dal Carducci in “sei nella terra negra”). Ma qui voglio immaginare che significhi “ancora in ombra”, non illuminata al pari dell’etere mattutino. Infine Afrodite è invocata come “sümmakos”, alleata; Saffo le chiede di lottare al suo fianco, così come combattevano i guerrieri nella falange. L’esecuzione cantata dell’inno sarà avvenuta di fronte a un simulacro della Dea, nell’àmbito del thiasos di fanciulle che Saffo dirigeva (sguardi, bronci, ammicchi, sorrisini…). Gelosie e affetti di breve respiro, di cui non restano nemmeno povere ossa. Rimane la poesia, come sempre.
Quanto alla metrica, si è adottata la tradizionale saffica italiana, di tre endecasillabi più un quinario. La perdita lirica nel suo complesso è irreparabile e non c’è restauro linguistico, ovvero poetico, bastante a consolarcene.
INVOCAZIONE AD AFRODITE
Stella del mare, sul trono istoriato
d’aurora, te generata immortale
dal cielo eterno io supplico, o radiosa
qua d’illusioni,
tu che mi dòmini oh non prostrarmi
con noia e tumulti, già se apparisti
remota ai miei sospiri, e la dimora
d’oro del Padre
lasciasti, aggiogati i passeri al cocchio,
e rapidi in un fitto batter d’ali
ti condussero per il vasto cielo
fin sulla terra
in ombra, e sùbito giungesti, e beata
tu di un sorriso aldilà della morte,
che mai patisse ancora, folle in seno,
che mai volesse
il cuore, avido ancora, mi chiedevi:
“chi è lei che ami, Saffo? che più brami
l’apra al tuo amore la Dea persuadente?
Chi ti rifiuta,
e il modo ancor ti offende? Ma chiunque
ti sfugge ti cercherà, a te con doni
verrà se or li respinge: non perdona
Amor non si ami”.
Torna o stella del mare, da angosciosi
ceppi qui scioglimi ed ai miei acconsenti
più segreti desii, ora e per sempre
lotta al mio fianco.
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