242.
E’ il 17 maggio. Non sto bene. Penso a Rebecca. Ha prolungato l’aspettativa d’un altro mese.
Il redattore capo arriva alla mia scrivania con alcuni lanci d’agenzia. Hanno ammazzato il commissario Calabresi. L’hanno preso davanti alla sua abitazione.
“C’era da aspettarselo”, dice.
Calabresi era al centro di polemiche, politiche e giornalistiche, per le indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano. Calabresi era uscito dall’anonimato dopo la misteriosa morte – il 15 dicembre 1969 – dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Precipitato da una finestra. Dalla finestra della stanza in cui veniva interrogato.
“Suicidato”, ha detto la sinistra. E l’ha gridato Lotta Continua.
“C’era troppo odio intorno a Calabresi”, dice il redattore capo.
E ambiguità, aggiungo dentro di me. Non esprimo giudizi a voce alta. Non ho mai pensato bene di Calabresi, ma arrivare a eliminarlo, questo no.
Ridò vita al mio ciclostile con un articolo che condanna l’omicidio, ma si scaglia anche contro i troppi misteri di quest’Italia che non ha voglia di crescere, liberandosi dei fantasmi del passato.
Dove sei, Rebecca?
Vorrei prendermi alcuni giorni di riposo.
Provo a chiederli. Ottengo un fine settimana. Non ce la faccio a raggiungere Torino. Non ne ho neanche tanta voglia.
Decido, davanti allo specchio, mentre mi faccio la barba, tra una smorfia e l’altra (arba dura per una pelle troppo delicata). Decido di mettermi in cerca di Rebecca.
Consumo ore – inutilmente – davanti alla sua abitazione. Infine, raggiungo il cimitero dov’è sepolta Aurora.
La tomba ha fiori freschi.
Di Rebecca neanche l’ombra.
243.
Peteano è una località nei pressi di Gorizia. Luogo tranquillo. Non sospettano di niente i carabinieri, che si muovono sollecitati da una telefonata anonima. Mèta una Fiat 500, parcheggiata non lontana dal confine con la Iugoslavia.
La trovano. La controllano esternamente. Poi decidono di guardare meglio. Uno di loro alza il cofano. L’esplosione è potente. Tre perdono la vita, due rimangono feriti. In tanti senza precauzioni.
Le indagini si rivolgono verso alcuni abitanti di Gorizia.
Perché loro?
Qual è il movente?
Non vanno avanti, le indagini.
Un altro mistero.
Barbara arriva a Roma. Un’improvvisata.
S’accorge che non l’accolgo con entusiasmo.
Non mi piacciono le sorprese.
“Ho capito, - dice – sarà bene che vada a fare un giro per conto mio”.
“Ma che dici?”. Cerco di rimediare. Ci riesco in parte. “Devi avere un po’ di pazienza. Sono sotto pressione. Stano per fare il nuovo governo. Cerco di capirci qualcosa”.
“Ho letto. Mi sa che lo slogan sia avanti al centro”.
“E’ finito il tempo delle grandi speranze. Oggi si naviga a vista. Nel buio. Andreotti è nel suo elemento”.
“Non lo ami”.
“Mai amato. Andreotti non fa niente per essere amato. Quel che tocca sa di bruciato”.
Barbara scuote la testa. “E’ furbo”.
“Micidiale”.
Andiamo a mangiare in via del Gesù.
“Riesci a stare in questa confusione?”
“Sì. Mi piace. Si mangia bene”.
“O non sei te quello che non ama la confusione?”
“Questa, la sopporto”.
244.
Andreotti dà il via al governo Dc, Psdi, Pli, con l’appoggio esterno dei repubblicani.
Barbara ha finito le ferie. Torna a Torino.
“Potremo mai vivere insieme?2, dice baciandomi alla stazione.
“Mi a di no. A meno che non s’attenda l’età della pensione”.
“Figlio di…”.
La acio.
Mi saluta salendo. Il treno è in partenza.
La solitudine mi si rimette a fianco e mi svuota.
Rebecca, dove sei?
245.
Dopo aver vinto il Giro d’Italia, ha vinto il Tour de France. Esaltano Eddy Merckx. Io, no. Uno che vince tutto non mi va. Non lo sopporto. Gimondi fa la figura del tapino. Secondo. Sempre secondo. Apprezzo di più gente come Marino Basso. E’ lui, con un guizzo, il nuovo campione del mondo. Esce così dalla mediocrità.
Vado a Viareggio, quando i giornali pubblicano la notizia che Mario Tobino ha vinto il Campiello con Per le antiche scale.
Due giorni dopo, imparo a conoscere un nuotatore speciale, l’americano Mark Spitz: sette medaglie d’oro alle Olimpiadi.
Franco Freda e Giovanni Ventura, estremisti di destra, finiscono sul banco degli imputati per la strage di piazza Fontana. Ma Valpreda è sempre in carcere con gli altri del XXII marzo.
Si decidano.
Riappare Rebecca.
“Diosanto”, dico.
“Avevo bisogno di staccare”, dice.
“Mangiamo insieme?”
“No”. E’ un altro no secco. Che mi fiacca.
“Hai qualcosa contro di me?”
“Per carità. Sei uno dei pochi, se non il solo, che s’interessa a me. Il fatto è che ho bisogno di stare sola. La tre morti, una dopo l’altra, mi hanno fiaccata. Soprattutto quella di mia figlia, avvenuta in quella maniera, mi ha cambiata”.
“Ho capito. Non voglio forzarti. Se hai bisogno, sai dove trovarmi”.
246.
ì5 settembre. Un commando palestinese entra nel villaggio olimpico, a Monaco. Jun bagno di sangue. Muoiono nove atleti israeliani, presi in ostaggio, e cinque terroristi.
Nessun giornale borghese dice che è il frutto della disperazione d’un popolo maltrattato.
Lo scrivo nel mio ciclostilato.
Mi sento sempre più fuori posto. Faccio il conto degli anni. Ne ho quarantasette.
Non mi sembra d’avere fatto granché.
Scrivo. Scrivo raccontini. Scrivo questi fogli. Mi rendo conto che troppe cose mi passano sopra la testa. Ci sono troppe veline, in giro, e parole che vanno interpretate.
M’addolora la morte di Ennio Flaiano più di quella di Bruno Cicognani e di Pound.
Barbara mi consiglia di leggere un bel giallo made in Italy, anzi made in Torino: La donna della domenica di Fruttero e Lucentini. Aggiunge: “Vai a vedere Ultimo tanto a Parigi di Bernardo Bertolucci prima che lo sequestrino”.
Faccio appena in tempo. Non mi piace. Non mi piace Marlon Brando. Lo vedo bolso, impacciato, in un ruolo che non è il suo. C’è chi grida allo scandalo per il panetto di burro. Figuriamoci.
Neanche Il padrino di Coppola mi piace. Mi sembra tutto sopra le righe. Di maniera.
I giornali dànno risalto a un piccolo fatto e lo fanno diventare grande. Anna Moffo – bella donna – si prende fischi a cascata al Teatro dell’Opera di Roma mentre canta nella Lucia di Lamermoor. S’è presentata mezzo nuda e senza voce.
Rebecca non mi cerca. Barbara non si fa viva. Ogni tanto penso a Lucia. Avessi un altro cuore.
247.
Raggiungo Torino.
“Finalmente”, dice Barbara.
Torino m’emoziona. Mi risento ragazzo in Piazza d’Armi. Arrabbiato in via Roma, sotto i portici, per un giocattolo non avuto.
Barbara ha una casa bella.
“Per una come me ci vuole spazio”. Ride di cuore.
Mi ha voluto a Torino per festeggiare. E’ diventata caposervizio della cronaca. “Non scrivo più. Faccio scrivere. E mi arrabbio se il pezzo non è come dico io”.
Andiamo al Valentino. Poi alla Mole Antonelliana. Facciamo l’amore appena rincasati.
Dice: “pensavo di non esserne più capace. Sono ai primi giorni di menopausa. Mi tormentano le caldane. Ci pensi? In menopausa”.
“Il tempo vola”. Non riesco a dire nient’altro.
E’ il 1973.
Evito di guardarmi indietro”. Si muove nuda per la casa.
“Io non ne posso fare a meno. Mi piace farmi male”.
“Mi pare d’avertela sentita dire un’altra volta, codesta cosa”.
“E mela sentirai ridire. Sto guardando sempre più indietro e sempre meno avanti”. Non sono del tutto sincero.
“Sei insoddisfatto dell’oggi”.
“Puoi dirlo”.
“Ho l’impressione che ti piaccia questa condizione. Non fai nulla per cambiare. Non stai bene in Rai? Perché non ti dài una mossa per trovare un’altra soluzione? Tu sei giornalista di carta stampata. Sei uno che ama la libertà di scrivere. Non tolleri il servizio di trenta secondi, concepito con il bilancino. Ti sono nel cuore e nel cervello. Capisco la tua sofferenza. Soffrirei anch’io”.
“Vorrei poter tornare a Firenze. Ma c’è soltanto La Nazione. Non prendono certo me. Ho quasi cinquant’anni. Qualche anno fa, in Toscana, potevo essere un nome. Ora sono il signor nessuno, o quasi”.
“Una regione senza giornali come la Toscana è quasi una vergogna”.
“Non si crede a certi investimenti”.
Rifacciamo l’amore. Barbara s’abbandona a dolcezze, frutto dell’esperienza.
Ci alziamo da letto che è ora di cena. Niente ristorante. I ristoranti di Torino non sono quelli di Firenze o di Roma.
“E con tuo marito come va?”
“E’ un secolo che non ci sentiamo. So che sta con un’altra, una pediatra. Donna in gamba. Senz’altro sarà una che gli farà trovare pranzo e cena perfetti”.
“Una pediatra?”
“Perché, che hanno di strano le pediatre?”
“Non lo so. Ma…”.
“Evita di dire sciocchezze”.
La tv dà una notizia pessima. La moglie di Darlo Fo, Franca Rame, è stata rapita e violentata. Balordi? Dà più l’impressione che sia opera di gente di destra. Esaltati. Delinquenti.
Non usciamo. Abbiamo bisogno di stare insieme e parlare.
Parliamo di tutto. Anche degli accordi di pace, raggiunti a Parigi per il Vietnam. Una guerra infinita, inutile. E’ giusto che gli Stati Uniti ne escano con le ossa rotte. La superpotenza sconfitta da un piccolo popolo. L’ho scritto nel mio ciclostilato.
Lascio Torino dopo due giorni. Sono stati belli. Barbara è stata capace di ridarmi un minimo di carica.
Ho deciso di fermarmi a Firenze.
Ho bisogno di respirare l’aria di Firenze.
Sindaco è ancora Bausi. La città ne risente.
Cerco di mettermi in contatto con La Pira. Mi dicono che non è in città. E’ tutto preso dalla sua invenzione, le conferenze di convergenza. Forse è a Helsinki, Forse è a Parigi. Forse è a Ginevra. Non sta mai fermo. Macina chilometri. Infaticabile. E ignorato dall’informazione italiana. La Pira non fa più notizia.
Sono riusciti a renderlo innocuo. L’hanno fermato. Chi più ha dalla sua? Pochi e deboli. Gente senza voce in capitolo.
Prendo il treno per Roma.
La malinconia m’ingabbia.
Una signora, seduta davanti a me, mi guarda. Poi fa: “Io, lei, devo averla vista da qualche parte”.
248.
Roma è scossa. Virgilio, ventidue anni, e Stefano, otto anni, figli di Mario Mattei, segretario della sezione del Psi di Primavalle, sono morti bruciati nell’incendio della loro casa. Altri sei componenti della famiglia sono riusciti a salvarsi. Qualcuno ha appiccato il fuoco. Si cercano un paio di giovani. Non si trovano. Hanno agito per odio politico.
C’è tensione. Aria irrespirabile.
Affido al ciclostilato le mie considerazioni. “Se non si cambia, se la Dc non viene messa fuori squadra, si va verso il precipizio”.
Barbara non può muoversi e decido di passare Pasqua al mio paese.
Arrivo di giorno feriale.
In banca, al Monte dei Paschi, chiedo del direttore.
“Cinque minuti e la riceve”.
I minuti sono quindici. Un impiegato mi fa cenno d’entrare.
Alina è in piedi.
“Che bella sorpresa”, dice.
“Sono qui per la Pasqua”, dico.
“Avremmo dovuto rivederci presto e invece”.
“Roma è terribile. Divora”.
“In cosa posso esserti utile?”
“Sono venuto per invitarti a pranzo”.
“Mi prendi alla sprovvista”.
“Non hai tempo?”
Avevo deciso di saltare. Ma non posso rifiutare il tuo invito”.
“A che ora ci vediamo?”
”All’una e mezzo. Cercherò d’essere puntuale”.
“T’aspetto fuori della banca”.
Alina è puntuale. La vedo uscire, elegante. Deve avere la mia stessa età. Non mi sono neanche preoccupato di chiederle se ha un marito. Però, se ci penso bene, mi ha detto che avrebbe voluto portare con sé i genitori.
E’ una bella donna. Parla il necessario. E sa ascoltare. Un gran bel dono. A un certo punto, quando stiamo aspettando il secondo, mi guarda diritta negli occhi, e dice: “Cos’è che ti fa soffrire così tanto?”
“Chi ti dice che io soffra?”
“I tuoi occhi. I dice che siano lo specchio dell’anima. Mia madre, quand’ero piccola, lo diceva a me e a Chiara. Se volte sapere se una persona soffre, diceva, guardatela negli occhi. Non sbaglierete mai”.
Che posso risponderle? Non posso avventurarmi in un discorso, mano sul cuore. Rischierei di tirare fuori un miscuglio di sentimenti, un fritto misto di rimpianti, rimorsi e malinconie.
Mi rifugio in una risposta ipocrita, usando una frase fatta, terribile: “A ciascuno la sua croce”.
“Scusami”, dice. S’è fatta seria.
“Scusa te, – dico - ma non mi va di rendere triste un momento come questo. Eppoi non vorrei essere frainteso. Dimmi, piuttosto, dove e con chi passi Pasqua”.
“Da sola, e qui. I miei se ne vanno in gita”.
“Non hai…”.
Non ho. Sono zitella. Una scelta meditata dopo un’esperienza non esaltante con un collega senese. Uno che vedeva bruscoli ovunque ed era manesco”.
“Manesco?”
“Manesco. Due anni terribili”.
“Allora potremo stare insieme, se ti va”
“Ci sto. Ma ti voglio più allegro”. Posa una mano sulla mia, quella di sinistra, che è oltre il piatto, verso di lei. “Esco intorno alle sei”, aggiunge.
“T’aspetto fuori”.
“Ceniamo qui?”
“Possiamo andare a casa mia”.
“No, meglio a casa mia”, dice.
“Va bene”.
249.
Cucina volentieri. Niente primo. Insalata di radicchio, scaglie di parmigiano, tartufo nero e tocchetti di caciotta, seguita da scaloppine al limone. Pane tostato. Rosso di Montellori. Abbinamento trasgressivo, dice Alina. Io sostengo che non lo è poi tanto, soprattutto per uno che a tavola ci sta poco e per forza.
Mangiamo piano. E parliamo.
“Non dirmi – dice – che non hai più ambizioni”.
“Ho l’ambizione di mettere insieme i raccontini, che pubblico su riviste sconosciute, in un libro, caso mai con una casa editrice dignitosa”.
“Quanti ne hai scritti?”
“Duecento. Uno più uno meno”.
“Spero che ci riesca”. Fa una pausa breve. Poi: “Oggi mi hai chiesto se avevo qualcuno”.
“Sì”.
“E te?”.
“Io?”. Che le rispondo. Posso risponderle che sto con Barbara. Dico: “Né sì né no”.
“Non capisco”.
“Ogni tanto mi vedo con una collega. Lavora alla Stampa di Torino”.
“E’ mai venuta qui?”
“Sì, è venuta”.
“Quanti anni ha?”
“La nostra età. Anzi, qualche anno di più”.
S’alza per sparecchiare. L’aiuto.
“Le vuoi bene?”
“Me lo sono chiesto più volte. Confesso, non sono riuscito a rispondermi con sincerità”.
Mi guarda. “Hai amato mia sorella?”
“Non quanto avrebbe meritato”.
“Claudio, cosa c’è in te che non va?”
“Forse non ci so fare con le donne”.
“No, c’è altro”.
“Non saprei”. Bugiardo. Ipocrita.
“Va bene, non insisto. Vuoi un caffè?”
“Sì, grazie”.
Le sposto una ciocca di capelli scivolata su un occhio. Ci guardiamo con insistenza. Poi lei, d’impulso, mi bacia sulla bocca. Un bacio rapido.
“Quanto zucchero?”, chiede leggermente imbarazzata.
“Due cucchiaini pieni. Non mi piacciono le cose amare”.
“Non si direbbe”.
Guardo l’orologio. “Sé fatto tardi”.
Lei si volta verso la cucina per sistemare la macchinetta del caffè. “E’ bene che vada”, dico.
“No, – dice – non andare. Non voglio che tu vada”.
250.
Riuscirò mai a mettere ordine nella mia vita sentimentale?
Ma ho una vita sentimentale? Posso chiamarla così?
La stopria con Alina mi tormenta. Mi ha detto: “Erano anni che non facevo l’amore. Mai avrei immaginato di tornare a farlo con te. Con l’uomo di mia sorella”.
Barbara mi telefona. C’è una novità non di poco conto. Il direttore le ha proposto d’andare a Londra, a fare la vice”.
“Che hai deciso?”, chiedo.
“Ci sto pensando”.
“La proposta non è da buttare”.
“Lo so. E’ un bel salto”.
“Vuole dire che ti stimano”.
“Sì, devo riconoscerlo. Ma non è che mi regalino molto. Mi faccio un culo così”.
“Ti conosco. So che non ti tiri mai indietro”.
“Non dici altro?”
“Cosa dovrei dire?”
“Niente. Mi sa che accetto”.
“Fai bene, Anche perché, lo sai bene, un no ti bloccherebbe per sempre. E’ così nel giornalismo”.
“Hai ragione”. Parla piano. “Ti faccio sapere. Un abbraccio”.
“Un abbraccio anche a te”. So d’avere sbagliato.
Da Milano un’altra notizia fa accapponare la pelle. Gianfranco Bertoli, estremista, lancia na bombaa a mano. Obiettivo: ammazzare Mariano Rumor. Non ci riesce. Ma ci rimettono la vita quattro persone. Passanti.
Rumor, illeso, può far nascere il suo quarto governo.
“Voglio passare le vacanze con te”. Alina è diretta. Mi piace anche per questo.
Ora le sonde vano verso Marte. Undicesima, dodicesima, tredicesima, quattordicesima.
La quattordicesima è sovietica e parte quando incontro Alina. E’ il 9 agosto. Abbiamo deciso di passare le ferie – quindici giorni – in Versilia. A Tonfano.
Alina ha un corpo asciutto. Invitante. Non mi staccherei mai. Lei non si sottrae. Qualche volta è impacciata. Forse teme di non essere all’altezza. In un paio d’occasioni accenna a qualcosa del genere. La blocco. Dico che non è il caso, che è un’amante straordinaria.
251.
Epidemia di colera a Napoli. Condizioni igieniche disastrose. Rifiuti ovunque. Eppoi Bari. E in Sardegna.
La paura si diffonde in tutt’Italia. Il mercato del pesce va in crisi.
Alina mi telefona tutti i giorni, almeno due volte: la mattina presto e la sera, verso le undici.
Mai successo.
Mostra un attaccamento straordinario. Sincero.
Mi fa sentire più vivo. Quasi mi meraviglio.
Ho anche più voglia di lavorare. Mi vengono idee. E la sera riguardo, con scrupoli, i raccontini.
L’11 settembre mi fa rimettere in funzione il ciclostile. Quel che avviene in Cile mi sconvolge. Golpe militare di Pinochet. Il socialista Salvator Allende non si fa prendere vivo nel palazzo presidenziale. Una nazione nel terrore. Nessuno che intervenga. Agli Stati Uniti va bene così. A tutti va bene così. Alina nei fine settimana viene a Roma. “Non posso stare lontano da te – dice – Non pensavo che potesse succedermi a questa età. Dopo la brutta esperienza di qualche anno fa, pensavo d’avere alzato bandiera bianca”.
252.
Spiro Agnew, vice presidente degli Stati Uniti, soccombe alle accuse d’evasione fiscale. Si dimette.
Telefona Barbara. E’ a Londra. Si trova bene. E’ un bell’osservatorio.
“Sono contento per te”.
“Non so quando potrò tornare in Italia”, dice.
“Non preoccuparti”.
“Oh, sì. Non mi preoccupo. Chi c’è accanto a te?”
“nessuno”.
“Sulle donne, sei sempre stato bugiardo. Dovrei odiarti, ma non ci riesco: Ti auguro ogni bene”.
253.
Un mostro sacro del giornalismo – Indro Montanelli – si dimette dal Corriere della era. Accusa il direttore Piero Ottone. Afferma: “Ha portato il giornale su posizioni fuori della sua tradizione. Ha scelto la linea filocomunista”. Con Montanelli escono anche altri. Si parla di un giornale nuovo, diretto dallo stesso Montanelli.
Trenta arresti tra militanti di destra. Volevano ricostituire il partito fascista. Ordine Nuovo, organizzazione fondata da Pino Rauti, viene sciolta.
Il governo ci fa sentire più poveri. Vara “misure di austerità energetica”, dettate dalla crisi del petrolio. Crisi dovuta alla guerra del Kippur, iniziata il 6 ottobre e terminata il 24 dello stesso mese con la vittoria schiacciante, severa, di Israele su Egitto e Siria.
Nei giorni festivi niente auto. Prezzo della benzina alle stele. Cinema, bar e ristoranti chiusi alle 23.
Con Alina riprendo il gusto d’andare in bicicletta.
Alina sembra ringiovanita.
La domenica pomeriggio, parte malvolentieri. Appena a casa, mi telefona. Sono parole dolci.
E’ il 17 dicembre quando alcuni terroristi palestinesi ammazzano trenta persone nell’assalto, a Fiumicino, a un aereo della Pan Am.
E’ un Natale triste.
Viene a farmi gli auguri Rebecca.
“Come stai?”, chiedo.
“Come vuoi che stia. Sto pensando di lasciare il lavoro. Di ritirarmi al mio paesello”.
“Devi reagire”. Non riesco a dirle altro.
La Pira è a Dakar, dove è confermato presidente della Federazione mondiale delle città unite. E’ la terza volta.
254.
Gli occhi sono sugli Stati Uniti. Il presidente Richard Nixon è in grande difficoltà. Lo scandalo Watergate lo sta mettendo nei guai. Cerca di difendersi, ma lo fa in maniera maldestra. Non vuole consegnare il materiale che il comitato d’indagine del Senato gli chiede con insistenza.
Fa pena.
Mi fa pena anche l’Unione Sovietica che decide d’espellere Aleksander Solzenicyn, scrittore con il coraggio di dissentire. L’accusa è sempre la solita: attività antisovietica. Non è questo il comunismo. L’Unione Sovietica non lo rappresenta. Lo scrivo nel mio ciclostilato, rifugio dei miei tormenti e anche delle mie contraddizioni, delle mie debolezze.
Seguo la politica nostrana con tanta rabbia in corpo. Devo fare, per la Rai, servizi brevi, inodori, incolori e insapori. La notte mi sfogo con il ciclostile.
Dormo poco. E male.
Mi salva Alina, il pensiero che c’è.
La scena politica è dominata da un mediocre Mariano Rumor. Arriva al suo quinto governo, con l’appoggio dei repubblicani.
Parliamo poco in redazione. Che abbiamo da dirci? Poi fare qualche battuta, ma devi limitarti, stare attento. Alcuni ti guardano male. Occhiatacce di disapprovazione.
Passiamo Pasqua insieme, Alina e io, sulla montagna pistoiese, a Cutigliano.
Camminiamo molto. Tocchiamo il Melo e Rivoreta. Rivoreta è, nei miei ricordi di bambino, vacanze con altri ragazzi organizzate dal parroco. Giorni incredibilmente belli. Gite senza paura fino al Libro Aperto e il Lago Scaffaiolo. Merende a base di mortadella, formaggini e marmellata di mele cotogne.
“Mai amato come ora”, dice Alina. E la luce degli occhi mostra la sua contentezza.
E io? Voglio amarla. Ma non per nostalgia di sua sorella. Fisicamente la ricorda. E, ogni tanto, me la vedo davanti, timida con me e determinata sul lavoro. Scandalizzata di certi andazzi. Meravigliata da certi misteri fiorentini, e non solo.
Quattro giorni dopo Pasqua, il 18 aprile, le Brigate Rosse rapiscono Mario Sossi, magistrato di Genova. E’ una notizia che non fa passare in secondo piano la rivoluzione dei garofani, che mette fine all’èra Salazar in Portogallo. Dittatore sanguinario.
Barbara mi telefona da Londra. E’ elettrizzata. Tiene al referendum sul divorzio. Sa della campagna elettorale senza esclusione di colpi che domina l’Italia.
“Devi votare no all’abrogazione della legge Fortuna”.
Ci scherzo su. “Non esiste una legge Fortuna”.
Q”ma che dici?”
“Dico che tutti dimenticano che si chiama Fortuna-Baslini”.
“Che figlio di…”.
“Non so neanche se andrò”.
“Mi vuoi morta?”
Vince il no. Ottiene quasi il sessanta per cento delle preferenze. E’ il giorno che la Lazio vince il primo scudetto. Ci sono colleghi che fanno salti di gioia e si lasciano andare a sfottò nei confronti dei romanisti.
Non riesco a entusiasmarmi. Il calcio non riesce a entusiasmarmi. Resisto. M’entusiasma, invece, la notizia dell’arresto di Luciano Liggio, bos mafioso, uno dei più sanguinari.
Alina al telefono: “Ti va di mettere su casa insieme?”
Senza giri di parole. Titubanze. Diretta, come sempre.
“Dove?”, chiedo intimidito.
“Dove vuoi”.
Un lampo. “Perché non lasci il tuo appartamento e torni a casa mia? Potrebbe essere un inizio”.
“Buona idea”.
“Ci troviamo lì a fine settimana”.
255.
Le Brigate Rosse liberano Sossi. Hanno ottenuto lo scambio. Fuori i componenti del gruppo XXII Ottobre. Ci sono polemiche. Può lo stato avere di questi cedimenti?
E’ un colpo. Un altro colpo – più grave – arriva da Brescia. Durante una manifestazione sindacale, in piazza della Loggia, una bomba fa otto morti. C’è il marchio dell’eversione fascista.
E’ un’Italia che non sa reagire. Sembra paralizzata dalla paura.
A Padova, Le Brigate Rosse entrano in una sede del Msi e fanno fuori Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, due attivisti.
Alina e io c’incontriamo spesso a casa dei miei,. Lei si sente a suo agio. Ci ha messo anche mano, rendendola più accogliente.
Mi regala Todo modo di Leonardo Sciascia. Non mi piace. Mi piace di più Roma senza papa, romanzo postumo di Guido Morseli, scrittore sfortunato. Ridotto al suicidio. Compro Arcipelago Gulag di Solzenicyn. E’ un atto d’accusa nei confronti di Stalin.
Non tutti lo apprezzano.
Non tutti gli credono.
Indro Montanelli fonda Il Giornale Nuovo. E’ la risposta al Corriere della Sera. Ma il Corrierone sembra non risentirne.
E’ un’estate calda.
Con Alce faccio le vacanze in Versilia, come al solito.
C’incontro Mario Francini e Manlio Cancogni Li apprezzo sempre di più. Parliamo di tutto. Dell’Italia. Della Grecia. I colonnelli non hanno più il potere. E’ finita la loro dittatura.
Ma non finisce il terrore in Italia.
E’ il 4 agosto. An Benedetto al di Sembro. Una bomba esplode su un treno. Dodici i morti e quarantaquattro i feriti. La strage è rivendicata dall’estrema destra.
“Come si fa ad andare avanti così?, dice Alina. Mi sembra reoccupata. “Io, te lo confesso, ho sempre più paura. M’aumenta la voglia di starmene in casa rintanata”.
Nixon si lascia la presidenza degli Stati Uniti. Umiliato. Gli ha dato alle gambe lo scandalo Watergate.
Barbara è a Londra. E’ diventata titolare dell’ufficio di corrispondenza. E’ contenta. Mi congratulo.
“Vorrei festeggiare con te”, dice.
“Non è possibile”, dico.
“Non è più possibile, vero?”
“Siamo così lontani”
“Mi rendo conto. Come si chiama?”
“Perché pensi che ci sia un’altra?”
“stinto. Istinto di donna. Non preoccuparti, però. La nostra relazione è stata così strana, che non mi sono mai illusa. A una certa età, poi… Ti faccio tanti auguri”.
“Anche a te”. Sono imbarazzato.
Taviani, ministro degli Interni, sostiene che la teoria degli opposti estremismi non è vera. E’ vero, invece, che la sovversione è da cercare a destra.
Riccardo Cardellicchio
Fine diciassettesima parte