| San Basilio Magno |
01 Marzo 2009
Verso la fine del IV secolo tre grandi Padri, scrittori e vescovi, emergono in Cappadocia: Basilio Magno (ca.330-379), vescovo di Cesarea dal 370, Gregorio (335-394), suo fratello, vescovo di Nissa dal 371, (di cui non si parla in seguito), Gregorio di Nazianzo (ca. 330-390), amico di Basilio, vescovo di Costantinopoli dal 380 al 381.
1. Basilio Magno e il “Discorso ai giovani”
Nel suo Discorso ai giovani si coglie la sapiente composizione fra fede cristiana e umanesimo:
Come le api, a differenza degli altri animali che si limitano al godimento del profumo e del colore dei fiori, sanno trarre da essi anche il miele, allo stesso modo coloro che in tali scritti non cercano soltanto diletto e piacere, possono anche ricavarne una qualche utilità per l'anima. Noi dobbiamo dunque utilizzare quei libri seguendo in tutto l'esempio delle api. Esse non vanno indistintamente su tutti i fiori, e neppure cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano ma ne traggono solo quanto serve alla lavorazione e tralasciano il resto. E noi, se siamo saggi, prenderemo da quegli scritti quanto si adatta a noi ed è conforme alla verità e lasceremo andare il resto. E come mettendoci a cogliere dei fiori dal roseto evitiamo le spine, ugualmente, raccogliendo dai libri dei pagani quanto è utile, dobbiamo guardarci da quello che vi è di nocivo. La prima cosa da fare dunque è di esaminare attentamente ogni dottrina e di adattarla allo scopo mettendo, come dice il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo (Basilio, Discorso ai giovani, 4, 8-11: Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Torino, SEI, 1993, p.290).
2. Basilio Magno e l'organizzazione della vita monastica
Basilio visitò i monaci del deserto egiziano, della Palestina, della Siria e della Mesopotamia, e, rientrato in patria diede le proprie ricchezze ai poveri e si ritirò a vita eremitica. Con l'esperienza maturata organizzò la vita monastica in Cappadocia approntando delle Regole nate dalle domande che gli rivolgevano monaci e asceti: Basilio predilige il monachesimo cenobitico, forma nella quale si possono meglio esercitare le virtù della pazienza, del servizio e dell'amore vicendevole.
Domanda: [...] Vorremmo sapere se chi si è separato dal mondo debba vivere solitario, oppure convivere con fratelli che abbiano gli stessi suoi sentimenti e aspirino allo stesso ideale di pietà.
Risposta: Ho constatato che la convivenza di più persone nello stesso luogo ha molti vantaggi. Prima di tutto nessuno di noi è sufficiente a se stesso nelle necessità fisiche, ma abbiamo bisogno uno dell'altro per procurarci le cose necessarie. Il piede ha la facoltà di camminare, ma non ne ha altre; e, senza l'aiuto delle altre membra, esso non ha la capacità sufficiente alla propria conservazione; né ha modo di supplire a ciò che gli manca. Così avviene nella vita solitaria: ciò che abbiamo ci è insufficiente, e non possiamo provvederci ciò che non abbiamo; perché Dio creatore ha disposto che noi avessimo bisogno l'uno dell'altro, affinché, come dice la Scrittura, noi ci associassimo gli uni agli altri (cfr. Sir 13,15-16). A parte questo, anche la carità cristiana non permette che ciascuno abbia di mira l'utile proprio. «La carità», dice l'Apostolo, «non cerca i propri vantaggi» (1Cor 13,5). Ora la vita solitaria ha un solo scopo: che ciascuno badi a ciò che gli è necessario. E questo è manifestamente in contrasto con quella legge di carità che praticava l'Apostolo, quando non cercava l'utile proprio ma quello di molti, affinché fossero salvi (cfr. 1Cor 10,33). Inoltre, chi vive segregato non potrà conoscere facilmente i propri difetti, perché non ha chi glieli faccia notare e lo corregga con mansuetudine e clemenza. Certamente la correzione, anche quando è fatta da un nemico, suscita sempre nell'uomo assennato il desiderio di emendarsi; ma solo chi ama sinceramente sa applicare con saggezza la cura, come dicono i libri santi: «Chi ama corregge con cura» (Prov 13,24). Ora una tale persona la si trova difficilmente nella solitudine, se uno non se l'è prima associata nel medesimo genere di vita; e si verifica quindi quello che dice la Scrittura: «Guai a chi è solo, perché se cade non ha chi lo rialzi» (Qo 4,10). Inoltre molti precetti si possono adempiere facilmente quando sono molti radunati insieme; ma non già quando uno è solo; perché adempiendone uno, non se ne può adempiere un altro. Per esempio: se si visita un ammalato, non si può ricevere un ospite; il prestarsi alle altrui necessità specialmente quando esige lungo tempo, impedisce di occuparsi del lavoro. E potrebbe così accadere di trascurare il maggiore dei comandamenti, quello che più conduce alla salvezza, cioè la carità, perché non si dà da mangiare a chi ha fame e non si veste chi è nudo.
Chi dunque vorrà preferire una vita sterile a quella fruttuosa e conforme al precetto del Signore? Noi, «che fummo chiamati per vocazione a un'unica speranza» (Ef 4,4), formiamo tutti un solo corpo, che ha per capo Cristo, e siamo membra gli uni degli altri. Soltanto unendoci concordi nello Spirito Santo potremo formare la compagine di un unico corpo. Ma se invece ciascuno sceglie di vivere da solo e non vuole servire al vantaggio della comunità secondo il beneplacito di Dio, per assecondare il gusto di fare quello che gli piace, come potremo noi, così disuniti e separati, conservare la vicendevole relazione e il mutuo servizio delle membra e la dipendenza dal nostro capo, che è Cristo? Se vivremo separati, non potremo congratularci con chi è onorato, né patire insieme a chi soffre, perché ciascuno, come è naturale, non conoscerà come sta il suo prossimo. [...]
Del resto, la vita solitaria oltre agli inconvenienti che abbiamo detto, presenta anche dei pericoli. Il primo, e il più grave, è la compiacenza di se stesso. Il solitario non ha chi possa dare un giudizio sul suo modo di agire, e quindi crederà di essere giunto alla perfezione nell'osservanza dei comandamenti. Inoltre, lasciando sempre inesplicate le sue capacità, non potrà conoscere i suoi difetti né constatare i progressi, perché non ha occasione di mettere in pratica i precetti. E infatti, come potrà egli dimostrare di essere umile, se non ha nessuno dinanzi al quale abbassarsi? Come potrà dimostrare la sua compassione verso gli altri, se vive separato dalla società? Come potrà esercitare la pazienza, se non c'è nessuno che si opponga al suo volere? Se poi uno dicesse che, per la riforma dei costumi, gli basta l'insegnamento della Scrittura, io gli risponderei che egli fa come chi impara a edificare, ma non costruisce mai; o impara l'arte del fabbro, ma non mette mai in pratica le norme imparate. A costui l'Apostolo potrebbe dire: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti dinanzi a Dio, ma coloro che la praticano saranno giustificati» (Rom 2,13). Anche il Signore infatti, per la sua grande bontà, non si ritenne pago di ammaestrarci con le parole ma, volendoci dare un esempio sublime di umiltà nella perfezione del suo amore, si cinse i fianchi con un asciugatoio e lavò i piedi dei discepoli. E tu, a chi laverai i piedi? Con chi ti mostrerai servizievole? Di chi ti farai ultimo se vivi da solo? Del resto, come si potrebbe, nella vita solitaria, realizzare la bellezza e la gioia del coabitare con i fratelli nella stessa dimora, cosa che lo Spirito Santo paragona all'unguento che esala profumo dal capo del gran sacerdote? (cfr. Sal 132/133,2). La coabitazione di più fratelli riuniti insieme costituisce dunque un campo di prova, una bella via di progresso, un continuo esercizio, una ininterrotta meditazione dei precetti del Signore. E lo scopo di questa vita in comune è la gloria di Dio, secondo il precetto del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: «Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, in modo che vedano le vostre opere buone, e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Questo genere di vita è conforme a quello che conducevano i santi ricordati negli Atti degli Apostoli, dei quali si dice: «I fedeli si tenevano uniti e avevano tutto in comune» (At 2,44). «La moltitudine dei fedeli aveva un cuore solo e un'anima sola; e nessuno diceva proprio qualunque suo bene, ma tutto era posseduto in comune» (At 4,32) (Basilio, Asceticon, Settima regola in forma estesa: Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Torino, SEI, 1993, pp. 277-281).
Si nota in questo testo, una spiccata sensibilità sociale, che fra l'altro spingerà Basilio a fondare una "città di rifugio" per poveri e bisognosi (Basiliade).
3. Basilio Magno e la teologia trinitaria
L'attività teologica di Basilio è sia contro l'arianesimo sia sul tema specifico dello Spirito Santo. Riguardo allo Spirito Santo, Basilio combatte quanti negavano la divinità dello Spirito Santo. Il suo pensiero è raccolto nel trattato su Lo Spirito Santo: ce ne indica l'occasione:
Di recente, mentre pregavo col popolo, terminavo la dossologia a Dio Padre in due diversi modi, talora dicendo: «Insieme al Figlio, con lo Spirito Santo», talora invece dicendo: «Per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo». Alcuni dei presenti Lo osservarono e ci accusarono di aver usato formule insolite e per giunta fra loro contraddittorie (Basilio, Lo Spirito Santo, I, 3: Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo. Traduzione, introduzione e note a cura di Giovanna Azzali Bernardelli, Roma, Città Nuova, 1993 -Collana di Testi Patristici, 106-, p. 89).
La seconda formula, tradizionale, poteva essere usata anche con significato subordinazionista, la prima invece, introdotta da Basilio, poneva inequivocabilmente sullo stesso piano le tre persone della Trinità senza permettere quella interpretazione: era quindi un'affermazione implicita della divinità dello Spirito Santo (oltre che del Figlio). Ecco alcuni motivi per dimostrare la divinità dello Spirito Santo:
Ritorniamo dunque all'argomento iniziale: come, in tutto, lo Spirito Santo sia inseparabile dal Padre e dal Figlio né si frapponga fra essi distanza alcuna. [...] La domanda di Pietro a Saffira: «Perché vi siete messi d'accordo per tentare lo Spirito Santo?» (At 5,9); «Voi non avete mentito agli uomini, ma a Dio» (At 5,4) dimostra che i peccati contro lo Spirito Santo e contro Dio sono gli stessi. E anche così potresti apprendere che in ogni operazione lo Spirito è unito e indivisibile dal Padre e dal Figlio. Quando Dio distingue le operazioni e il Signore distingue i ministeri, lo Spirito Santo è presente a distribuire secondo il proprio volere i carismi, in conformità alla dignità di ciascuno. «Vi sono distinzioni di carismi, ma lo Spirito è lo stesso» dice l'Apostolo. «E vi sono distinzioni di ministeri, ma il Signore è lo stesso. E vi sono distinzioni di atti, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti... Ma è l'unico e medesimo Spirito che opera ogni cosa, distribuendo in particolare a ciascuno, a suo piacimento» (1Cor 12.4-6.11). [...] Tu potresti apprendere la comunione dello Spirito col Padre e col Figlio anche dalle opere iniziali della creazione. Le potenze sovracosmiche pure e intelligenti sono sante e sono chiamate sante, poiché posseggono la santità, per la grazia infusa dallo Spirito Santo. Ma è taciuto il modo della creazione delle potenze celesti: l'autore che ha narrato l'origine del mondo, ci ha rivelato il Creatore soltanto dalle cose percettibili. Ma tu, che hai la capacità di intuire per analogia le realtà invisibili partendo da quelle visibili, glorifica il Creatore nel quale sono state create tutte le cose, le vili e le invisibili, i principati, i poteri, le potesti i troni e le dominazioni e ogni altra natura razionale, se mai esista senza nome. Nella creazione di questi esseri prendimi in considerazione la causa prima di ciò che è stato fatto: il Padre; la causa operante: il Figlio; la causa perfezionante: lo Spirito. Di conseguenza gli spiriti che hanno compiti ministeriali esistono per volere del Padre, dall'atto del Figlio sono condotti all'essere, dalla presenza dello Spirito ricevono la perfezione. La perfezione degli angeli poi è la santità e la stabilità in essa. E nessuno creda che vengo affermando che esistono tre ipostasi sovrane, né che io dichiaro imperfetto l'atto del Figlio. Uno è il principio degli esseri, che opera mediante il Figlio e perfeziona nello Spirito. [...] Non si tratta dunque della parola che è significativa modulazione d'aria, proferita dagli organi fonetici, né del soffio, che è alito della bocca, espirato dagli organi respiratori, ma della Parola che era in principio presso Dio ed è Dio (cfr. Gv 1,1). E Soffio della bocca di Dio è «lo Spirito di verità che procede dal Padre» (Gv 15,26). Tu comprendi dunque che sono tre: il Signore che ordina, la Parola che crea, il Soffio che conferma. [...] La più importante prova in favore dell'unità dello Spirito con il Padre e con il Figlio è questa: che si dica che lo Spirito sta con Dio nel medesimo rapporto che lo spirito che è in noi è con ciascuno di noi. «Quale uomo», dice l'Apostolo, «conosce ciò che è nell'uomo, se non lo spirito che è in lui? Allo stesso modo, nessuno conosce ciò che è in Dio, se non lo Spirito che è da Dio» (1Cor 2,11) (Basilio, Lo Spirito Santo, XVI, 37-38.40: Azzali Bernardelli cit., pp. 138-140, 146).
La divinità dello Spirito viene quindi colta nella sua azione santificante.
4. La divinità dello Spirito Santo e il concilio di Costantinopoli (381)
Al concilio di Costantinopoli si definì questa fede, ritoccando appena il credo Nicea ma completandolo poi con le espressioni finali appunto sullo Spirito Santo:
...E (crediamo) nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre, e con il Padre e con il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. E la Chiesa una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per la remissione dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
5. Una digressione sul “Filioque”
Si noti, nel Credo costantinopolitano, l'assenza del Filioque. A livello dottrinale affermare, con i latini, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio oppure intendere che lo Spirito Santo procede dal Padre, come mantiene l'uso orientale, porta a concepire la Trinità con sottolineature differenti, più statica e unitaria l'occidentale, più dinamica e attenta alle distinzioni personali l'orientale. La differenza di impostazione era già presente nei Padri della Chiesa: analizzandola nel VII secolo Massimo il Confessore, un teologo bizantino che visse pure a Roma, aveva mostrato la correttezza dell'una e dell'altra dottrina, spiegando la differenza a partire dal diverso significato, in greco e in latino, dei termini usati per esprimere il modo di procedere dello Spirito Santo nella Trinità. Di fatto quegli antichi Padri, latini o greci, si riconoscevano in piena comunione fra loro nonostante questa diversa sfumatura trinitaria: la differenza non era quindi ritenuta rilevante ai fini della professione della retta fede. Al concilio unionista di Firenze del 1439 si mise in rilievo proprio questo fatto. Letture più radicali di parte ortodossa vedono invece in questo un grave vulnus alla fede, sino a ritenere la dottrina del Filioque come, oggettivamente, un'eresia. La questione si inasprì perché in Occidente il Filioque fu inserito nel Credo (nel 1014 a Roma). Ma questa scelta venne giudicata gravemente lesiva dalla Chiesa ortodossa, che ammette la legittimità di scelte del genere solo se avallate da Concilio generale ecumenico. Un ritorno all'antica formula comune, nel rispetto delle differenti interpretazioni teologiche, potrebbe appianare i contrasti su questo argomento.
6. Gregorio di Nazianzo e la sua riflessione cristologica
Gregorio di Nazianzo, originario di Arianzo, amico di Basilio dai loro studi ad Atene e poi suo compagno nell'iniziale esperienza monastica; forzato nel 361/362 a diventare sacerdote per Nazianzo dal padre Gregorio che ne era vescovo, fu poi nominato vescovo di Sasima da Basilio (come aveva fatto col fratello): Gregorio però non entrò mai in sede a Sasima, e pure fuggì da Nazianzo, dopo aver amministrato per qualche tempo questa Chiesa alla morte del padre (374). Nel 380 accettò di sostenere a Costantinopoli la comunità nicena, una piccola minoranza: Costantinopoli era baluardo ariano da decenni, come volevano gli imperatori Costanzo e Valente! Dei mesi costantinopolitani del Nazianzeno è importante la predicazione teologica e la rifioritura della fede nicena dopo l'ingresso in città di Teodosio alla fine del 380. Gregorio aprì a Costantinopoli il concilio del 381 (che sarà poi considerato ecumenico). Tuttavia poi si dimise e ritornò a Nazianzo, ritirandosi infine ad Arianzo. Gregorio espresse una teologia trinitaria e una cristologia rigorose, con precise formulazioni. Ci soffermiamo, a mo' d'esempio, sulla riflessione sulla realtà umano-divina di Cristo. Gregorio risponde ad Apollinare, che, per salvaguardare l'unità di Cristo Dio e uomo e insieme per salvaguardarne la santità, immagina che in Cristo il Verbo divino abbia assunto una umanità senza intelletto: così, secondo Apollinare, si sarebbe garantiti da un'umanità in Gesù libera di peccare, e si avrebbe una unità strettissima fra divinità e umanità, in quanto nel Verbo incarnato sarebbe il Verbo divino a guidare direttamente il corpo. La questione era assai grave e ancora una volta metteva in gioco la salvezza cristiana: come può salvarmi il Figlio di Dio se non ha assunto veramente la mia umanità? Allora in lui non c'è stata vera obbedienza "umana" a Dio, Gesù non avrebbe operato con la "mia" volontà umana: io uomo non sarei stato veramente rinnovato, la mia umanità non sarebbe stata salvata, Gesù non sarebbe il nuovo Adamo, santo e obbediente! La formula di Apollinare era: Cristo è un'unica natura del Dio Verbo incarnato. Si rispose affermando invece la duplicità di nature, divina e umana in Cristo (e la natura umana "completa" di anima e corpo, con mente, volontà, libertà, ecc.); ma insieme si confermò l'unità, per non cadere nell'eccesso opposto di due "persone": Cristo è una sola persona (ipostasi), del Verbo, che assume la natura umana dandole sussistenza. Sarò la grande riflessione di importanti concili ecumenici (Efeso, Calcedonia, Costantinopoli III). Gregorio di Nazianzo però inizia a chiarire i termini, e con molta perspicacia!
Non ingannino gli altri quegli uomini né si lascino ingannare, ammettendo che l'uomo del Signore, come dicono loro, o piuttosto il nostro Signore e Dio, è un uomo senza intelletto. Noi non separiamo l'uomo dalla divinità, ma crediamo in un unico e medesimo (essere) (unum et eundem), che prima non era uomo, ma Dio e Figlio solo ed eterno, separato dal corpo e da tutto ciò che riguarda il corpo e alla fine fu anche uomo, assunto per la nostra salvezza: passibile nella carne, impassibile nella divinità, circoscritto nel corpo, non circoscritto nello spirito, il medesimo terrestre e celeste, visibile e invisibile, comprensibile e incomprensibile, affinché da lui stesso, uomo completo e Dio, fosse riplasmato tutto quanto l'uomo che era caduto in potere del peccato. Chi non crede che la santa Maria è genitrice di Dio (Theotokon), è fuori della divinità. [...] Chi introduce due figli, l'uno nato da colui che è Dio e Padre e l'altro nato dalla madre, e non uno solo e lo stesso (unum et eundem), decade dall'adozione divina promessa a coloro che credono rettamente. Le nature, infatti, sono due, Dio e l'uomo, che comprende l'anima e il corpo ma non vi sono due figli né due Dei, [...] Per dirla in breve, diverse sono le realtà di cui è composto il Salvatore, se è vero che l'invisibile non si identifica con il visibile né ciò che è fuori del tempo con ciò che è soggetto al tempo, ma non vi sono due esseri diversi. Non sia mai! Le due realtà divengono una cosa sola (unum) in virtù dell'unione, perché Dio si è fatto uomo e l'uomo è stato deificato, o qualunque altro sia il modo di denominare questo processo. Dico realtà diverse contrariamente a quello che accade nella Trinità. Lì si hanno esseri distinti (unus et unus) per non confondere le ipostasi, ma non realtà distinte (unum et unum) perché i tre sono una cosa sola (unum et idem) nella divinità. [...] Chi spera in un uomo senza intelletto è veramente senza intelletto e non è degno di essere salvato interamente. Infatti, ciò che non è stato assunto non è stato curato, mentre si salva ciò che è stato unito a Dio. Se Adamo è caduto per metà, metà è ciò che è stato assunto ed è salvato; ma se è caduto per intero, è stato unito a colui che fu generato intero e si salva interamente. Dunque, non ci guardino di malocchio per questa salvezza completa e non attribuiscano al Salvatore solo le ossa, i nervi e la figura umana. Se l'uomo è senz'anima, questo lo dicono anche gli ariani per attribuire la passione alla divinità, perché secondo loro ciò che muove il corpo è anche ciò che soffre. Se invece è animato ma non dotato di intelletto, come può essere uomo? L'uomo, infatti, non è un vivente senza intelletto. [...] Se si è fatto uomo per abolire la condanna del peccato santificando il simile con il simile, come ebbe bisogno della carne per santificare la carne che era stata condannata e dell'anima per santificare l'anima, così ebbe bisogno anche dell'intelletto per santificare l'intelletto, che in Adamo non solo era caduto ma era stato colpito per primo, come dicono i medici a proposito delle malattie. Ciò che ricevette il precetto non osservò il precetto; ciò che non osservò il precetto, osò la trasgressione; ciò che trasgredì aveva bisogno di salvezza più di tutti; ciò che aveva bisogno di salvezza fu assunto. Dunque l'intelletto è stato assunto (Gregorio di Nazianzo, Prima lettera a Cledonio, III, 12 - IV, 21; VII, 32-34; XI, 51-52: Su Cristo: il grande dibattito nel quarto secolo. Testi originali, introduzione, note e traduzione a cura di Enzo Bellini, Milano, Jaca Book, 1978, pp. 284-287, 290-291, 296-297).
7. Gregorio di Nazianzo poeta
Un altro aspetto singolare di Gregorio di Nazianzo è la sua umanità delicata, che emerge in testi omiletici autobiografici e anche nei suoi Carmi (17.000 versi!). La sua raffinatezza di scrittore si apre anche a finezze di vera poesia. Un testo sul mistero dell'uomo:
Ma quale mistero mi unisce a questo corpo? Lo ignoro. E come sono ad immagine di Dio, se sono impastato di fango? Il mio corpo è in forze? Mi assilla. È malato? Mi tiene il broncio. Lo amo come un amico di prigionia. Lo fuggo come una prigione. Lo rispetto come un coerede. Se cerco di indebolirlo, chi mi aiuterà a intraprendere grandi progetti? Perché in fondo io so a che cosa sono destinato: devo innalzarmi verso Dio per mezzo delle opere. Se sono dolce con questo mio compagno quale sarà il mezzo per schivare i suoi colpi e stare saldo vicino a Dio, quando pesanti catene mi fanno inciampare e mi impediscono di rialzarmi? Nemico fascinoso e perfido amico! Ah, che intesa e che divisione! Amo l'oggetto del mio timore e temo quello della mia tenerezza. Alla vigilia della guerra noi ci riconciliamo. Non appena viene la pace, eccoci di nuovo in lotta. Quale saggezza mi governa? Quale profondo mistero? Noi siamo una Parte di Dio, noi proveniamo dalla sua divinità: tanta dignità rischierebbe di esaltarci e inorgoglirci sì che saremmo portati a disprezzate il Creatore: per questo egli desidera che noi lo guardiamo sempre rimanendo nel nostro duello e nella nostra guerra con il corpo; la debolezza che è legata a noi corregge la nostra fierezza. In tal modo ci sappiamo grandi e insieme umili, terrestri e celesti, perituri e immortali, eredi di luce e di fuoco, o condannati alle tenebre secondo la via che avremo seguito. Questa mescolanza siamo noi: se noi ricaviamo troppa vanità dall'essere immagine di Dio, il fango di cui siamo impastati ci porta a una maggiore modestia. [...] Torno ora al mio primo discorso: poiché la mia carne è un tale oggetto di pietà, come la mia debolezza rivelata nei mali altrui, è necessario, fratelli miei, avere cura di questo compagno di pena che è il nostro corpo. Io l'ho, sì, accusato di essere mio nemico per i disordini che getta nella mia anima, ma lo amo nonostante tutto come un fratello per rispetto verso colui che ci ha riuniti. Vegliamo sulla salute del nostro prossimo, con altrettanta attenzione che su di noi, robusto che sia o infiacchito dalla comune malattia. Noi siamo tutti una sola cosa nel Signore, ricchi, poveri, schiavi e uomini liberi, sani, ammalati. Per tutti non c'è che una sola testa, principio di tutto: il Cristo. E come fanno le membra di un solo corpo, ciascuno si occupi di ciascuno e tutti di tutti. Non trascureremo, dunque, né abbandoneremo coloro che sono finiti per primi in una decadenza che tutti ci aspetta al varco. Invece di rallegrarci per la nostra buona salute, affliggiamoci piuttosto delle infermità dei nostri fratelli e pensiamo che la sicurezza della nostra anima e dei nostro corpo dipende unicamente dall'umanità che noi testimonieremo a questi fratelli (Gregorio di Nazianzo, Discorso 14 (L'amore dei poveri), 6-8: Liébaert, pp. 231-232).
Un inno della sera
Noi adesso ti benediciamo,
o mio Cristo, Verbo di Dio,
Luce della Luce senza spirito,
dispensatore dello Spirito.
Ti benediciamo, triplice luce
della gloria indivisa.
Tu hai vinto le tenebre e prodotto la luce
per tutto creare in lei
Tu hai dato consistenza alla materia
forgiandovi il volto del mondo
e la forma della sua bellezza.
Hai illuminato la mente dell'uomo
donandole ragione e sapienza.
Ovunque si trova il riflesso della luce eterna,
perché, nella luce,
l'uomo scopre lo splendore
e divenga tutto luce
Hai illuminato il cielo di luci multicolori.
Alla notte e al giorno
hai comandato di alternarsi in pace,
dando come regola, a loro, un'amicizia fraterna.
La notte pone termine
alle fatiche del nostro corpo,
il giorno ci risveglia al lavoro, alle faccende che ci occupano.
Ma noi fuggiamo le tenebre,
ci affrettiamo al giorno senza tramonto,
verso il giorno che mai conoscerà
la tristezza del crepuscolo.
Concedi alle mie palpebre un sonno leggero
affinché la mia voce non resti muta a lungo.
Veglierà la tua creazione
per salmeggiare con gli angeli.
Che il mio sonno sia sempre
abitato dalla tua presenza...
Anche separato dal corpo,
ti canta, o Dio, lo spirito
Padre, Figlio e Spirito Santo,
a te onore, gloria, potenza nei secoli. Amen
(Gregorio di Nazianzo)
Un'analisi introspettiva.
Ieri, tormentato dalle mie sofferenze,
solo, lontano dagli altri,
me ne stavo seduto in un bosco pieno d'ombra,
rodendomi nel cuore.
Non so perché amo,
come rimedio alla mia sofferenza,
trattenermi in silenzio
con il mio cuore.
La brezza mormorava unendosi al canto degli uccelli,
e dall'altro dei rami dava un dolce torpore,
dolce soprattutto a un cuore affranto...
Sopportavo il peso di un grave dolore
come potevo sopportarlo...
(Redazione Tellusfolio - "Viaggi e altri viaggi")
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