"La voce" è una poesia intima di tono colloquiale, apparentemente interlocutoria, ma risolta nel soliloquio e nel monologo. È il racconto della condizione esistenziale del poeta, drammaticamente vissuta, che trova l’unica ancora di salvezza in quel diminutivo, Zvanì, appena percettibile che lo mette al riparo dalla tragedia. C’è, nei versi, una maturità espressiva raggiunta, una capacità di andare ben oltre le cose e scoprire le fragilità umane e l’indifferenza della società. L’insieme è un viaggio a ritroso del poeta nella propria vita, un vaglio delle circostanze avverse, un bisogno di ritrovare persone, affetti e luoghi, la rincorsa di un sogno impossibile, attraverso un uso strategico della parola, a cui affida se stesso. È nelle parole che si scopre il bisogno malcelato di ritornare al mondo perduto del nido, di rifiutare la violenza e l’ingiustizia di cui è stato vittima, di desiderare il ritorno all’infanzia felice per dare corpo a quella voce che ora è solo un soffio. (A.L.)
La voce
C’è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:
voce d’una accorsa anelante,
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:
tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì…sì…
ma di tante tante parole
non sento che un soffio…Zvanì…
Quando avevo tanto bisogno
Di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno,
svegliandomi al primo boccone;
una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, Si beve?);
dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto d’accanto
quel soffio di voce…Zvanì…
Oh! La terra, com’è cattiva!
La terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
-No…no… Di’ le devozioni!
Le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa:
la tua mano nella mia mano:
ridille! Vedrai che ti passa.
Non far piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
Il tuo pane, prega il tuo angelo
Che te lo porti… Zvanì…
Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere), che all’improvviso
dissi- Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso,
ora, o babbo!- che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:
e che agli uomini, la mia vita,
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio… Zvanì…
Oh! La terra come è cattiva!
Non lascia discorrere, poi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
-Piuttosto di’ un requie per noi!
Non possiamo nel camposanto
Più prendere sonno un minuto,
chè sentiamo struggersi in pianto
le bimbe che l’hanno saputo!
Oh! La vita mia che ti diedi
Per loro, lasciarla vuoi qui?
Qui, mio figlio? Dove non vedi
Chi uccise tuo padre… Zvanì?...-
Quante volte sei rinvenuta
Nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:
voce d’una accorsa anelante
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:
la tua bocca! Con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì!
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci… Zvanì…
che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi,
sentivo un tepore di pianto!
che ti lessi negli occhi, ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono!
Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanì…
"La voce", Da Canti di Castelvecchio
La poesia riflette con una sequela di immagini e di espressioni l’angoscia dell’uomo e avvicina Pascoli all’arte di Munch nella rappresentazione di un’umanità dolente, il cui grido si smorza in un silenzio rimbombante.
La poesia è intessuta di voci lessicali che si ripetono: voce, bocca, soffio, terra, pianto; di anafore “tante tante cose”, “tante tante parole, “Non far piangere piangere piangere”, di antitesi (“occhi, ch’erano / pieni di pianto, che sono / pieni di terra”), un gioco espressivo per sottolineare sentimenti, pensieri, stati d’animo, che vengono articolati dal poeta ma che si tramutano in un silenzio profondo dove non è percepibile nessun suono a rompere l’intesa di un colloquio che finisce per essere solo un monologo. Lo stato esistenziale del poeta emerge in toni drammatici, esprimenti il suo dolore per ciò che sarebbe potuto essere e che non è stato, il senso di solitudine che lo investe da piccolo, quando la vita gli nega gli affetti, il peso della violenza che avverte piombargli addosso e che nelle scelte insane degli uomini sente che lo travolgerà. La poesia si aggira nei meandri di una psicosi che diventa riflesso inconsolabile di un’umanità che prende coscienza della propria condizione.
Composta nei primi mesi del 1902, come attesta la lettera al Caselli del 14 marzo, in cui si dice tra l’altro: "questa poesia, non la leggere prima: ti farebbe male a leggerla, come a me, a scriverla", fu pubblicata nella prima edizione dei Canti (aprile 1903). Sulla reazione emotiva indotta in lui dalla propria poesia il Pascoli ritorna in un’altra occasione, scrivendo a Maria il 4 luglio 1903: “Stamane ho rimandate al Marchi le pagine che avevo di Canti. Avevo una grande malinconia solitaria. Ho guardato quei fogli…che singulti alla Voce! Ma chi ha fatta quella poesia?”.
Il rapporto di Pascoli con Munch si coglie nella capacità di entrambi di utilizzare espressioni che riflettono nella scelta lessicale, nella costruzione di immagini, nella scelta dei colori, la condizione dell’uomo che grida al mondo la sua angoscia e quel grido diventa in entrambi pianto, singulto, lamento, un soffio: disperazione. Pennellate infinite, colori pastosi, strade senza meta; una solitudine che si spegne nel grido di dolore informe, fortemente espressivo, accanto allo scorrere in entrambi dell’acqua muta.
La morte del padre è per Edvard Munch un colpo da cui non si riprenderà e la sua visione della vita diventerà sempre più cupa e disperata. A questo proposito egli scrive:"E io vivo coi morti; mia madre, mia sorella, mio padre, lui soprattutto. Tutti i ricordi, le minime cose mi ritornano a frotte. Lo rivedo così come lo vidi, per l'ultima volta quattro mesi fa quando mi ha detto addio sulla banchina; eravamo un po' timidi nei confronti l'uno dell'altro, non volevamo tradire la pena che la separazione ci causava. Quanto ci amavamo malgrado tutto, quando si tormentava la notte per me, per la mia vita, perché non potevo condividere la sua fede" (il padre, al contrario di lui, era molto religioso).
Una visione cupa della vita che mai lo abbandonerà e che egli renderà protagonista della sua arte: «Dal mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori e io sarò dentro di loro: questa è l'eternità» (Edvard Munch).
Sia in Pascoli che in Munch incombe l’idea della morte:
…una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, Si beve?);
dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto d’accanto
quel soffio di voce… Zvanì…
"L'urlo" è il simbolo dell'angoscia e dello smarrimento dell’intera umanità. Una situazione che nasce da un’esperienza di vita vissuta: l’artista si trovava a passeggiare con degli amici su un ponte della città di Nordstrand (oggi quartiere di Oslo), quando venne pervaso dal terrore e così egli stesso scrive: « Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo neroazzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. ». Quell’urlo colpisce ancora chi guarda l’opera e vi legge una condizione di vita reale: l’indifferenza e l’alienazione. Le due figure che appena s’intravedono lungo il ponte, non comprendono lo stato d’animo dell’amico, anzi ne sono estranee e si allontanano. La bocca spalancata sembra emettere dei suoni che sconvolgono il paesaggio, con le linee curve e i colori forti, espressioni dell’interiorità stessa dell’uomo, il tutto accentuato dal volto deformato come un teschio e dal corpo apparentemente privo di colonna vertebrale. La funzione comunicativa è fortemente espressiva. La forma, le linee, i colori, tutto risponde a precise connotazioni simboliche e l'uso della luce dà immediatezza alla scena rappresentata e dà l’impressione di una fotografia che coglie l’evento nel momento più drammatico.
La poesia è per Pascoli un mezzo per "leggere" e interpretare la realtà, un disvelamento di ciò che è nelle cose, anche in quelle più semplici della vita di ogni giorno. L’arte è per Munch un mezzo per gridare al mondo il proprio sentire. Le sue opere, fortemente connotate sono la lettura della realtà nel preciso contesto in cui maturano e del dramma interiore vissuto dall’artista, una sospensione in un vuoto che inghiotte senza riparo. Molte sono le affinità con Pascoli. L’artista fu provato fin da piccolo da numerosi lutti familiari, che egli esprime mediante l'uso di colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate, specchio del suo tormento interiore. I colori sono per Munch ciò che la parola, l’iterazione dei termini, l’uso costante dell’aggettivo sono per Pascoli. Una pittura e una poesia che lasciano il segno della propria potenza espressiva per raccontarci tratti dell’uomo e dell’umanità.
Anna Lanzetta
Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912).
Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Ekely, 23 gennaio 1944) Pittore norvegese. Uno dei massimi esponenti del Decadentismo.