215.
La Nazione njon esce. E’ rimasta alluvionata. Era l’unico quotidiano sulla piazza.
Ma poi chi ha voglia di leggere?
C’è fango dappertutto.
La vita stenta a riprendere.
Sonmo sfatto. Ho voglia di una pastasciutta. Sto andando avanti a scatolette. Barbara riesce a contattarmi.
“Finalmente”, dice.
“Finalmente”, dico.
“Deve essere terribile”.
“E’ una città in ginocchio”.
“Vedo che Bargellini non dà tregua”.
“Una grande sorpresa.
“Ha trovato il modo di rimanere al suo posto”.
Penso proprio di sì”.
“E te come stai?”
“Sono stanco. Non sono riuscito ad andare ancora a casa. Immagina in che stato sono”.
“Importante è che tu sia in salute”.
“Sì, sono in salute. Ma il morale è sotto i tacchi.
“Hai bisogno di me”. Ride. Rido anch’io. “Mi piacerebbe venire. Ma non posso”.
“Mi dispiace”, dico.
216.
Circolano alcune pagine del diario di una bambina di 10 anni. Si chiama Fiammetta. “L’acqua si è ritirata lentamente, lasciando Firenze sepolta da fango, nafta, masserizie e disperazione. I fiorentini ancora non si rendono conto di quello che è successo, sono allibiti, trasognati, tutto ai loro occhi pare impossibile. Purtroppo è vera realtà e non possiamo perdere tempo. Firenze deve rinascere. Gli aiuti sono subito arrivati: militari, volontari e i fiorentini stessi hanno cominciato a spalare il fango, distribuire viveri e salvare le opere d’arte; sì perché anche i monumenti, le opere d’arte fra cui i quadri della Galleria degli Uffizi e i manoscritti della Biblioteca Nazionale”.
Intorno a Fiammetta tutto si muove, si risveglia. Si sente inutile. Vorrebbe andare in centro per aiutare i suoi fratelli. Ma non può far niente, è troppo piccola. E piange.
Girando per Firenze, dopo l’alluvione, passa davanti alla Biblioteca Nazionale. S’affaccia a una finestra che dà nel sottosuolo. Arrivano rumori che l’incuriosiscono. Vede numerosi ragazzi che tolgono i libri dal fango. Prova una stretta al cuore. Vorrebbe urlare “aspettatemi”, vengo anch’io”. Invece, non può. Abbraccia la mamma, che la stringe. Capisce quel che la figlia prova.
La notizia mi viene bene.
Prendo appunti continuamente all’alluvione: sulle storie, sui danni. M’impressione il numero di morti: un centinaio. L’Arno non ha avuto pietà. E’ stato terribile. Lo è da sempre. Perché non è un fiume come gli altri. Ha un regime torrentizio. E’ bizzarro, imprevedibile come tutti i torrenti.
Bizzarro lui, bizzarri i suoi affluenti. Di destra e di sinistra.
Tenere il dito puntato contro l’Arno è facile. Lo fanno tutti. E’ un coro. Ma ci pensa Terracini, uno dei padri della Patria, a fare i conti con la verità. Ci sono responsabilità di uomini.
Ho intenzione di scrivere qualcosa di più di un articolo, poche righe per la radio.
Chissà cosa nascerà.
217.
Sono tornato a casa.
Ho camminato per Firenze.
Mi sembra un’altra città.
Anche i fiorentini mi sembrano diversi. Più tristi.
Bargellini tiene banco.
Firenze è su tutti i giornali del mondo. Quasi spiazza Venezia, che ha avuto il suo da questo maledetto novembre 1966.
Ioo mi sento come Firenze.
Non mi giova la solitudine.
Vado in cerca di Lucia, ma sembra sparita dalla circolazione.
Non trovo neanche Paola e Anna.
Arriva Barbara. Non poteva resistere.
M’abbraccia, mi bacia. Si dà senza esitazioni, la voglia di me trattenuta troppo a lungo.
“evo lasciare la stanza tra qualche giorno. Non posso fare diversamente”, dice poi.
“Come ti trovi a Torino?”
“I piemontesi sono tsti. Ma noi toscani abbiamo gioco facile con loro. Restiamo simpatici. Stanno ad ascoltarci a bocca aperta. Il giornale, se ti riferisci al giornale, patisce lo strapotere della Stampa. E te?”
“Sono giornalista di carta stangata. Faccio fatica. D’altra parte, ho bisogno di lavorare”.
“Non hai bussato a qualche porta?”
“C’è soltanto una porta, a Firenze, quella della Nazione. Non credo s’apra per me. Specialmente ora. Ha avuto danni gravi dall’Arno”.
Barbara torna a Torino malvolentieri.
Possibile che Lucia, con tutto quel che è successo, non abbia avuto il bisogno di cercarmi?
Devo smettere d’interrogarmi su Lucia. Non stiamo più insieme da quindici anni.
218.
La Pira non molla Firenze. Va a chiedere solidarietà a Montreal, Ottawa, New York, Parigi.
La gente non rimane indifferente.
Scrivo sull’alluvione. E’ una specie di monologo. Lo scrivo per me stesso. Non saprei proprio a chi rivolgermi per farlo rappresentare. L’ho intitolato La ballata dell’Arno. Lo terrò nel cassetto come il Viaggio nel ’48, il lungo articolo scritto prima di raggiungere Firenze.
219.
La telefonata arriva a pomeriggio inoltrato. Fa freddo. Pochi i segni delle feste imminenti di fine anno.
E’ Mario Francini. Lo saluto sorpreso.
Mi chiede: “Come va?”
“Così e così”, rispondo. Non mi va di dire: male.
Ma lui capisce. Te la sentiresti di lavorare in tv a Roma?”
“A cosa?”
“Documentari di storia. Con me”.
“Pensi che sia in grado?”
“Penso di sì. Si tratta di ricostruire fatti importanti e farli capire a tutti. Poi da cosa nasce cosa. Non ti ci vedo relegato al Gazzettino Toscano. Per carità, non è male. Però ti va stretto. Non lo ammetti, ma è così. Ti conosco”.
Dico: “proviamo”. D’altra parte è un trasferimento nell’ambito dell’azienda. Aggiungo: “Sei in grado di farmi trasferire?”
Risponde quasi ridendo: “Certo. E con l’avallo del direttore generale. Bernabei ti ha sempre apprezzato”.
Lascio Firenze. Lascio un pezzo di me. Una srana storia personale. A Roma, forse, avrò altri spazi. Intanto ho la possibilità di cimentarmi con un mezzo nuovo come la tv. C’è gente in gamba. E lavorare con Francini, m’attira.
Lascio Firenze. E tutti i suoi veleni. I suoi misteri irrisolti.
Lascio Lucia. E m’allontano ancor di più da Barbara.
L’avverto, Barbara, a notte fonda.
Piange. “Scusa, sono imperdonabile”, dice.
Lascio la cronaca politica per rifugiarmi nella storia.
220.
Roma ti distrae e, nello stesso tempo, ti costringe all’anonimato. Mi sento un pesce fuor d’acqua. Arancini m,i sprona. Fare i,l cronista d’archivio non è male, ma vuoi metere andare alla ricerca dela notizia fresca, della dichiarazione capace di smuovere un vespaio.
La sera, nel piccolo appartamento che sono riuscito a trovare vicino a Piazza del Popolo, faccio il consuntivo della giornata e mi viene il magone.
Il tempo passa e io sto sempre più fuori dell’attualità. La vedo scorrere davanti ai miei occhi, testimone muto, impotente, qualche volta distratto.
Ho smesso di fare il conto degli anni.
Rebecca, la segretaria di redazione, dice che ilo sono un tipo che nonm sa prendere il lato buono della vita.
“Non posso darti torto”, rispondo.
Lei è un’ottimista, nonostante le ciaffate prese dalla vita. Ragazza madre, una mamma anziana e bisognosa di cure e un fratello che entra ed esce dal carcere, ora per furto, ora per rapina, ora per oltraggio a pubblico ufficiale. Malato fradicio.
Sono andato a casa di Rebecca. Non ho potuto farne a meno. Ha insistito tanto. Ho conosciuto la madre Giuseppina, una donna che porta l’anima con i denti anche se non si lamenta mai, e la figlia Aurora, una ventenne che m’è parsa posata. E’ al primo anno di matematica. Il fratello Aurelio, l’ho visto in fotografia. Ora è in carcere. Tentata rapina. E’ un inguaribile. Lo è stato fin da bambino. Un tormento.
M’hanno costretto a cenare con loro. Niente di straordinario: quello che c’era per loro.
Dopocena ci siamo messi a parlare.
Rebecca m’ha chiesto cosa ne penso di quel che sta avvenendo ovunque. Questa contestazione che non risparmia neanche il mondo cattolico. Le scuole, le fabbriche, la cultura. Tutto è in subbuglio. Tutto viene buttato giù dal piedistallo.
“E’ giusto?”
“Non so che pensare con esattezza. Comunque, ci sono incrostazioni che vanno eliminate. Si mantengono dal tempo del fascismo. C’impediscono d’avere una democrazia vera”.
“Su codesto piano, ti dò ragione. Però non si può buttare tutto. Rischiamo di perdere le nostre radici, qualunque esse siano”.
Il pavimento sussulta, il lampadario di cucina dondola.
“Madonna salta, il terremoto”. La mamma di Rebecca si porta una mano al petto e impallidisce.
“Mamma”, urla Rebecca.
“Nonna”, urla Aurora.
“Non è niente. Non è niente”, tenta di tranquillizzare Giuseppina. Stenta a riprendersi. “Ho avuto paura”, dice proprio nel momento in cui un’altra scossa ci fa sentire indifesi.
“Bisogna uscire”, dice Rebecca.
“Andate. Andate voi, dice Giuseppina. Lei non ha gambe, se le sente prive di forza, impossibile fare un passo.
Autroa apre la porta d’ingresso, attratta dai rumori che arrivano dalle scale. C’è gente che scende precipitosamente.
“Non prendete l’ascensore”, urla un uomo spettinato, pallido, due coperte in braccio.
“Non ti lascio sola”, dice Rebecca a sua madre. “Ci mancherebbe altro”.
“Io non me la sento di scendere. Non ce la faccio”.
“Aurora vai tu”, dice Rebecca alla figlia. Eppoi a me: “Claudio, se vuoi andare, non fare complimenti”.
Nessuno si muove.
“Piuttosto – dico – telefoniamo in Rai e sentiamo che informazioni hanno”.
Siamo costretti a usare il numero riservato per arrivare alla cronaca. Mi sento rispondere: “E’ successo in Sicilia, nel Belice”.
“E l’abbiamo avvertito fin qui?”
“Deve avere fatto danni ingenti”.
“Morti?”
“Tanti. Sono le prime notizie. Si va su con il numero”.
Giuseppina si stende sul letto. Vestita. Respira male.
Rebecca è preoccupata. Anche Aurora è preoccupata.
“Volete portarla all’ospedale?”, chiedo.
“Chiamiamo un medico, il nostro medico”, dice Aurora.
Lo cerchiamo. E’ un’impresa. Arriva dopo n’ora. E’ un uomo non più giovane. Conosce la famiglia da tempo. L termine della visita, parla con franchezza: “Non mi fido a tenerla qui. Secondo me, va ricoverata subito”.
Giuseppina non vorrebbe. Figlia e nipote sono irremovibili.
L’ambulanza arriva dopo mezz’ora. Per le strade non si viaggia. C’è gente con una paura sfottuta a rincasare.
Metto a disposizione la mia vecchia auto per seguire l’ambulanza.
“Mi dispiace, Claudio”, dice Rebecca.
“Deve dispiacerti per tuia madre, non per me”, dico.
Lascio l’ospedale verso le tre. Rebecca e Aurora non hanno voluto lasciare sola Giuseppina.
Mi butto sul letto senza spogliarmi. Sogno male. Mi sveglio di soprassalto. Sudato.
Albeggia.
Faccio un bagno caldo in vasca.
Non ho grandi impegni di lavoro. Decido di passare dall’ospedale per sentire se c’è bisogno di me.
Trovo Rebecca e Aurora in lacrime. Giuseppina è morta.
“Ma com’è possibile?”
“L’ha ammazzato lo spavento”.
“Hanno fatto tutto quello che dovevano fare?”, chiedo, con una punta di rabbia.
“Dicono di sì. Dicono che il suo cuore – e non era un mistero – era malridotto”. Rebecca mi viene vicina e appoggia la testa su una spalla. Piange a dirotto.
Fuori, un ragazzo strilla la notizia del terremoto nel Belice. I morti sono quasi quattrocento. Interi paesi distrutti.
221.
Non sopporto la violenza e ogni giorno che passa aumenta. Le parole pare non abbiano più alcun significato. Se ne dicono tante nelle assemblee permanenti.
Parole che si accavallano.
Ammazzano Martin Luther King e hanno sparato a Dutschke, leader degli studenti tedeschi, ferendolo gravemente.
Rebecca mi chiede se me la sento d’uscire con lei.
“Perché no?”, dico. Ha bisogno di distrarsi. La porto in un ristorante in Trastevere.
Sono stata sfacciata, me ne rendo conto. Ma non avevo voglia di stare in casa da sola. Aurora è da un’amica a Ostia. Tornerà domenica sera”.
“Non sei stata sfacciata. Mi fa piacere essere qui con te”.
Compro dallo strillone Momento Sera. Ottocentomila persone hanno partecipato a una manifestazione delle sinistre a Parigi. E’ il momento clou del maggio francese.
Un intellettuale – Aldo Braibanti – rischia una condanna a nove anni di reclusione per plagio.
Commento a voce alta questa notizia e Rebecca sorride: “Sono cose, queste, che non ti vanno giù”.
“Sprofondo nella tristezza”.
Non mi piacciono neanche le notizie che arrivano dalla Cecoslovacchia. Il Paese sta vivendo una stagione stupenda. E’ il socialismo dal volto umano. C’è un leader che mi sembra un buono: Alexander Dubcek. Mi chiedo quanto potrà durare. Rebecca è ottimista. “Non siamo più negli anni Cinquanta. L’Ungheria è lontana”.
“Ne sei convinta?”
“Almeno lo spero”.
Rebecca si sistema i capelli castani, che porta lunghi fin sulle spalle. E una donna piacente con qualche ruga di troppo sulla fronte – segno di preoccupazioni, tristezze, nonostante il suo ottimismo sbandierato.
Usciti dal ristorante, pieno di voci e di risate, decidiamo di camminare. Casa sua non è lontana.
“Sei una persona incredibile, Claudio”, dice Rebecca, prendendomi a braccetto.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Il fatto che non mi fai nessuna domanda su di me”.
“Perché dovrei? Per me esisti da quando t’ho conosciuta. Il passato non conta”.
“Neanche per sapere con chi hai a che fare?”
“Lo si capisce senza andare al passato. Anzi, spesso il passato confonde le idee”.
Ride divertita. “Fossero tutti come te, gli uomini”.
“Non sono uno stinco di santo. Mai stato”.
Da una finestra aperta arriva la voce della televisione. Un annunciatore comunica, con tono drammatico, che hanno ucciso Robert Kennedy, candidato democratico alla Casa Bianca. Gli hanno sparato a Los Angeles.
Stessa sorte del fratello John. Si vede che i Kennedy facevano paura ai poteri occulti. Gli Stati uniti sono terribili, in questo. Rebecca non ha dubbi.
“L’Italia non è immune”.
“Non siamo arrivati all’omicidio”.
“C’è modo e modo d’uccidere”. Penso alla sorte di La Pira. “Potrei raccontarti una storia, ma non voglio annoiarti”.
Siamo arrivati a casa sua. Mi sembra – è un lampo – di rivivere una scena di tanti anni fa.
“Sali?”, chiede Rebecca.
“Lo vuoi?”
“Non aspetto altro. Da mesi”, dice con decisione.
Riccardo Cardellicchio
Fine quattordicesima parte