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Bruna Spagnuolo: Dietro lo schermo della televisione
Dietro lo schermo della TV
Dietro lo schermo della TV 
07 Febbraio 2009
 

Indice: TV e nascita del ‘fenomeno’ mediatico/ TV-junk e involuzione sociale/ Il fenomeno (mediatico?) Mino Reitano

 

TV e nascita del ‘fenomeno’ mediatico

L’arrivo della Tv ‘accadde’ in una società italiana che aveva conosciuto i disastri, le privazioni e il dolore della guerra, che conosceva ancora molto bene gli stenti e i sacrifici necessari a imbastire un futuro migliore e che non si esimeva dal tramandarne i cardini alla generazione successiva. Gli adulti accolsero il ‘sortilegio’-TV con occhi ingenui e infantili e non andarono oltre le forme in movimento dentro lo schermo -scatola che si animava (soltanto per qualche ora, di sera) nelle prime sale ‘sociali’ che i Comuni mettevano a disposizione (e che relegarono nel ruolo di finzioni senza ‘vasi comunicanti’ con la vita fatta ancora e sempre di calli e sudore). I giovani ne furono raggiunti con valenze culturali più o meno inconsapevoli. I bambini v’investirono lo sguardo assorto dell’inconscio sognante… I primi passi di quella TV ancora tutta da ‘plasmare’ avrebbero potuto essere indirizzati in milioni di modi. Si sono evoluti, purtroppo, senza poter sfuggire al ruolo di prede predestinate di tentacoli-ideologie (e del boom economico, che sarebbe esploso negli anni ’60 e che avrebbe rivoluzionato una volta e per sempre la vita dei singoli e delle masse). Benedetti furono gli anni Cinquanta, che poterono ospitare ‘cose’ come Cime tempestose (‘lo’ sceneggiato televisivo diretto da Mario Landi -che ne curò la sceneggiatura con Leopoldo Trieste- e adattato alla TV da Enrico Piceni, che ne era anche il traduttore). Erano tempi in cui la gente tutta (e specialmente quella semplice e poco scolarizzata delle dislocazioni più impervie e lontane dalle città -che nulla sapeva dei film e della letteratura) guardava le cose con occhi bambini. Soltanto gli addetti ai lavori sapevano dell’esistenza del film Cime Tempestose diretto da William Wyler (1939) e della sua versione in lingua spagnola (Abismos de pasión) diretta da Luis Buñuel (1953). Nessuno (o quasi) fece caso al nome dell’autrice (Emily Brontë). La gente del popolo ignorava, comunque, l’esistenza di Emily Brontë, del suo pseudonimo (Ellis Bell), dello sconcerto iniziale della critica e della sua convinzione che l’opera fosse una produzione immatura di Charlotte Brontë (sorella di Emily- nota negli anni Quaranta con lo pseudonimo Currer Bell) e che precedesse la sua opera più matura Jane Eyre. La prima pubblicazione del libro (1847) aveva incontrato scetticismo e incomprensione. La critica non aveva compreso né ammirato lo stile del romanzo e, soprattutto, ne aveva avversato l’architettura ‘nuova’ (anche quando la sorella di Emily, Charlotte, più nota e famosa, ne aveva curato una seconda edizione). Avevano torto quei critici e furono smentiti dalla critica successiva, che rivalutò il romanzo e scrisse che, in esso, Emily Brontë aveva raggiunto livelli di gran lunga superiori a quelli della stessa Charlotte Brontë. Cime Tempestose divenne un classico della letteratura inglese.

Il’ Primo Programma Nazionale televisivo (l’attuale Rai Uno) iniziò le sue trasmissioni regolari il 3 gennaio 1954 (il Secondo Programma, l’attuale Rai Due, le iniziò il 4 novembre 1961); fino all'arrivo delle televisioni private (anni '70 -XX secolo), la TV era una televisione pubblica (‘la’ RAI Radiotelevisione Italiana -con dirigenti determinati a servirsi dello strumento TV per innalzare il livello culturale nazionale e per combattere l’analfabetismo ancora elevato). Le prime miniserie TV (romanzi sceneggiati/ teleromanzi/ originali televisivi), le antenate di quelle che oggi vengono chiamate ‘fiction’, erano produzioni dai ‘connotati’ altamente culturali, erano, cioè, la sommatoria di quanto di più elevato ci fosse (poiché attingevano direttamente al teatro e alla letteratura vera e propria), prendendo esempio dallo sceneggiato radiofonico (che aveva preso gli attori dal teatro e i soggetti dalla letteratura). Tali caratteristiche sarebbero rimaste invariate a lungo (anche quando lo sceneggiato-TV avrebbe preso in prestito gli attori e le tecniche espressive e strumentali dal cinema).

La gente del popolo non ebbe bisogno di conoscere i pareri della critica, il 12 febbraio 1956, quando prese posto nelle scomode sedie allineate alla meglio, in sale senza arredamento né riscaldamento, e assistette alla diretta della prima puntata di Cime Tempestose; non sapeva neppure dell’esistenza di una cosa chiamata critica. Rimase affascinata e calamitata dal piccolo schermo e vi si trasferì dentro, esperimentando quasi fisicamente l’ambientazione degli eventi e le interiori motivazioni dei personaggi. Giovani e meno giovani impararono ad attendere con ansia l’arrivo della puntata successiva, commentando e rivivendo, nel frattempo, eventi/dialoghi/ disavventure e ambienti di Cathe e Heathcliff bambini; interiorizzarono le atmosfere di una delle tre ambientazioni principali del romanzo (la casa cupa e imponente, il cui nome dà origine al titolo). Dubito che agli spettatori stregati dalla trama sia venuto in mente di pensare a coloro che ai due personaggi prestavano il volto (Paolo Foti e Ludovica Modugno). Il seguito della storia (fino all’ultima delle quattro puntate domenicali, quella del 4 marzo 1956) fece sì che le sembianze degli attori (bravissimi) Massimo Girotti e Anna Maria Ferrero si fondessero con le identità di Cathe e Heathcliff adulti, che interi passi del romanzo entrassero nell’inconscio popolare e vi dimorassero, con tutta la forza del loro fascino ottocentesco, e che alcune frasi di Catherine (Vedi: «Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne/ …/ … io sono Heathcliff!») e di Heathcliff (vedi: «Il mondo intero è per me una terribile collezione di cimeli che mi ricordano che lei è esistita e che io l'ho persa!») divenissero celebri e indimenticabili. Vi erano state altre tre mini serie televisive, prima di Cime Tempestose (La Domenica di un fidanzato, Il dottor Antonio, Piccole Donne), e, a mio avviso, erano servite come gradini propedeutici al risveglio del gusto del ‘romanzo’ e avevano preparato il terreno alla potenza dei sentimenti che Cime Tempestose avrebbe suscitato negli spettatori. Piccole Donne era piaciuto molto e a molti, ma Cime Tempestose portò una vera e propria ventata di romanticismo tenebroso tra i giovani, lacrime a fiumi tra i meno giovani e semi di fantasia ribelle tra gli adolescenti.

Ci furono altre versioni di Cime tempestose (un film diretto da Robert Fuest -1970, un film per la televisione diretto da Peter Kominsky -1992, una miniserie televisiva diretta da Fabrizio Costa -2004), ma mai assursero all’onore di evento culturale di massa (perché ‘caddero’ in ‘terreni’ culturali già ‘sfruttati’ e, infine, saturi di sovrapposizioni-mistificazioni pseudoculturali e junk). Mi sento di affermare che, nella versione televisiva del 1956, il romanzo di Emily Brontë rappresentò un ‘fenomeno’ televisivo senza precedenti/ una incredibile risposta popolare a un’iniziativa televisiva/ il primo evento che possa essere definito fenomeno ‘mediatico’.

 

 

TV-Junk e involuzione sociale

Nulla hanno a che vedere con il ‘fenomeno’ inteso come ho sopra descritto i fenomeni mediatici odierni (fatti di TV spazzatura che non ha soltanto dimenticato gli obiettivi programmatici dei primi vertici dirigenziali della Rai, ma che, con i reality, li ha rinnegati nel modo più virulento e ‘colposo’ che si possa immaginare). Lo strumento TV (che doveva servire a elevare il livello culturale della società) è stato asservito in modo inqualificabile all’ignoranza più bassa e cieca che mai si possa concepire; viene adoperato con ‘solerzia’ inarrestabile per aumentare la ‘cecità’ più assoluta delle menti e degli spiriti; spiana mercilessly le eredità belle di secoli di cultura eccelsa; involve il processo di sviluppo culturale affidato alla scoietà (colpendo al cuore l’influenza delle famiglie e l’intervento di quelle strutture didattiche e pedagogiche che ‘funzionano’). Tutto ciò assume dimensioni catastrofiche proporzionate alla misura in cui tutta la pochezza destabilizzante per i vari strati-princìpi si possono massificare e globalizzare. L’incedere della TV di bassa lega avanza proprio come il ‘nulla’ che distrugge Fantàsia nel film (per ‘bambini’ di tutte le età) La Storia Infinita (del regista Wolfgang Petersen -tratto dal romanzo omonimo di Michael Ende) e si scalmana, nel tentativo doloso di omologazione-appiattimento delle nuove generazioni. Il silenzio di leibnitziana memoria continua a farsi grido e non smette di esortare l’intuito delle sentinelle dell’intelligenza, inseguito e perseguitato dalla pochezza imperversante di certi spettacoli pietosi: invano. La dignità umana continua a scendere gradini che hanno ormai corrispondenze-geometrie soltanto nelle grandezze in negativo delle equazioni possibili. Finte cavie (nei vari Amici, Grande Fratello e… isole varie), chiuse in finte ‘scuole’-labirinto, imparano contorsioni spirituali / interiorizzano traumi non districabili / spandono spore malaugurate di disagi portatori di fioriture-aspettative-iattanza prive di identità e di volti-orme-consistenza utili all’umanità; adolescenti subiscono violenze inconsce quotidiane in diretta e disimparano secoli di buona pedagogia educativa. Varie Soap opere disfano ogni e qualsiasi percorso interiore di ascesa spirituale e intellettiva e interessi ideologici di parte intorbidano il tessuto sano necessario alle varie fasi dell’età evolutiva di figli, nipoti e pronipoti di questa società in cerca di firma ‘autenticante’. Le trasmissioni di buon livello ci sono, ma sono poche e subiscono l’onta della TV-junk, che la fa da padrona e getta discredito e ombre nefaste sulla TV in senso lato. La gente di spettacolo (quella che vale e che sceglie di stare, nei limiti del possibile, al servizio della cultura e/o, almeno, delle decenza) dovrebbe sentirsi (forse) minacciata dalle sabbie mobili (fangose e infanganti) dell’immondizia broadcasted dalle stesse ‘antenne’. La gente accende la TV e lascia che le faccia ‘compagnia’ e, spesso, non si rende neppure conto di bruciare ore preziose della vita guardando i reality-pattumiera e facendo gl’indici di ascolto. Coloro che hanno aperto (come una ferita) la finestra-reality nella privacy delle case (e specialmente in quelle che ospitano delle famiglie) speculano sulla curiosità morbosa di spiare respiri, gesti, parole, emozioni, pettegolezzi, reazioni e tutto quanto di infimo livello sia possibile carpire a cavie in cattività forzata. I privati cittadini che rispondono a tali aspettative sono come cercatori di tane che, attraverso microcamere, spiino le pigre volute delle spire attorcigliate di un serpente o di vari serpenti costretti in un ambiente limitato. ‘Carcerieri’ e ‘carcerati’ non ci fanno bella figura di sicuro, ma coloro che sono liberi sia dai labirinti-visibilità che da quelli del guadagno di qualsivoglia entità non hanno giustificazione di sorta, perché, facendosi spettatori di simili storture, le avallano e giustiziano il buonsenso, il buongusto e i principi all’ombra dei quali sono morti genitori e nonni (e all’ombra dei quali loro stessi vorrebbero morire).

 

 

Il fenomeno (mediatico?) Mino Reitano

L’Italia intera e buona parte del mondo sanno della morte del cantante Mino Reitano, poiché la TV ha dato l’annuncio della sua morte, ha trasmesso, nei telegiornali, il filmato chiamato ‘coccodrillo’ (destinato, nel mondo, a onorare, in morte, le persone illustri e famose), ha mostrato le immagini relative al funerale e ha realizzato delle trasmissioni commemorative. Ho sentito vari commenti da parte della gente e ho visto perfetti estranei piangere come se avessero perduto una persona cara. Era un cantante come tanti altri, in fondo, perché la gente ha risposto giungendo da lontano e invadendo Agrate Brianza, per vedere un angolo della bara (scaricata a fatica nel corridoio creato nella marea umana dalle forze dell’ordine e sollevata in aria, per un momento, tra le standing ovation dell’ultima comparsa in pubblico di quell’uomo di spettacolo inghiottito dalla morte ma non ancora dall’oblio)? La risposta, forse, risiede nella tipologia del genere musicale sul quale egli scelse di ‘dirottare’ tutte le energie della sua carriera e della sua vita, dopo un periodo iniziale speso su altri pezzi che lo avrebbero condotto in altre direzioni.

Le canzoni che egli ha scritto e cantato sono entrate nell’inconscio popolare e si sono imparentate con i canti della cultura popolare antica (quelli che hanno perduto nella notte dei tempi la firma dei loro autori, che sono appartenuti all’inconscio di infinite generazioni di popoli e che hanno accompagnato il lavoro, i sacrifici, gli sforzi evolutivi, le gioie, i dolori, la vita e la morte dei più umili della terra). Il successo e la durata della musica popolare non hanno a che fare soltanto con la ‘distribuzione’. Dipendono da fattori (legati a inconsapevoli parentele remote fatte di canti di amore e di dispetto/canti di carnevale/ canti cerimoniali sepolti nel tempo dimenticato della storia e del prima della storia/ canti infantili/ conte e nenie di ogni tipo) e da motivi ad aria, ad assolo e a stornellate avulsi dalla consapevolezza degli autori e rispondenti a ‘tastiere’ note soltanto alla memoria atavica che sa pescarli nel ricordo profondo della memoria collettiva (che non ha ‘libri contabili’-archivi materiali/visibili/consultabili). Mino Reitano deve aver toccato queste ‘corde’ (le stesse che vibrano, quando la gente, che di lui conosce solo il canto, piange la sua morte come una perdita importante…).

L’animo popolare prende le distanze dalla cultura artefatta (snaturata dalla paura di retorica), ama l’effondersi del sentimento, non ha paura di snodarlo su ‘musiche’ che si fanno parole – poesia/ non disdegnano di toccare il fondo del dolore o d’innalzarsi fino a toccare il punto più alto dei cieli dell’amore (e delle note più basse e baritonali o così alte da spaccare vetrate e lampadari…).

Le ‘modernità’-mode artistiche, rifuggono dalle parole legate ai valori antichi/ dalle letterature-‘libro cuore’/ dalle autenticità-sentire senza mediazioni-finzioni/ dal grido nudo dell’animo ferito che non ha tempo da dedicare alle idiosincrasie/ dalle schiettezze genuine e sincere/ dall’assenza di filtri e di veli.

L’inconscio popolare, invece, custodisce, intatto, l’anelito all’assenza delle ‘cosmesi’-maschera e alle musiche capaci di posare il cuore (senza corazze) nella mano arcana dell’imponderabile che potrebbe schiacciarlo.

Soltanto il canto che è imparentato con tutto questo entra nell’animo popolare dalla porta principale (ed è ciò che è accaduto al canto di Mino Reitano), ma non c’è da stupirsene: egli stesso, nell’intervista-guida trasmessa nello speciale TG1 di domenica 1 febbraio 2009, ha detto che dedica le sue canzoni e la sua musica ai semplici e agli umili che gli assomigliano (uso il presente, perché tale dedica non ha scadenza e vale per un tempo illimitato). Ecco dove sta il talismano della musica di Mino Reitano: nella semplicità istintiva e completamente priva di artifici di colui che la canta e la dona alla gente del popolo (come accadeva ai tempi dei cantori che rallegravano la sarchiatura, la mietitura e la trebbiatura del grano prezioso come oro). Ciò si ricollega a quanto qualcuno ha detto, durante la cerimonia funebre: “Quando Mino Reitano cantava, cantava dalla punta dei piedi a quella dei capelli”. Tutto questo non ha patria (né regioni come confini). È semplicemente un universo-musica-modo di cantare e/o di essere: un cantante (di qualsiasi nazionalità, regione, città, paese) può farne fa parte o no (senza se-ma-perché-come).

 

Ho sentito che qualcuno, tra la folla, diceva: «La TV ha fatto per questo cantante cose che non ha mai fatto per altri. Peccato che la gente soltanto ora si sia accorta di quanto fosse grande colui che è morto. Ora si parla di ‘storia italiana’, si dice che egli proveniva dal conservatorio, era un musicista con i fiocchi e ha scritto alcune delle più belle canzoni italiane. Avrebbero dovuto dirlo prima».

 

Molto è stato detto, sin dal momento in cui Mino ha chiuso gli occhi per sempre, e mentre egli era ancora sul suo letto, nella sua casa, vegliato dalla moglie e dalle due figlie, Porta a Porta gli ha dedicato una delle sue ‘sedute’ notturne. I cantanti Iva Zanicchi e Pupo (in qualità di colleghi del defunto da commemorare) e altra gente hanno fornito al conduttore il filo di ‘sutura’ tra i vari momenti del patchwork usuale della trasmissione. Gigliola Cinquetti è stata la sola presenza ‘in sordina’, la sola voce ‘adeguata’ al motivo ispiratore della ‘puntata’ in questione; nel resto non ho rilevato l’atmosfera dovuta alle ‘sedute’ commemorative, ma soltanto l’atmosfera fedele al desiderio di stupire e di fare spettacolo propria di quella trasmissione. I colleghi hanno ricordato episodi e pezzi musicali (ma non avevano il tono scevro da interessenze ‘umane’ che si richiede in determinate circostanze); hanno ricalcato, in sostanza, l’orma di Ornella Vanoni che, pochi momenti dopo l’annuncio della morte, in un’intervista telefonica lampo (che doveva servire a ‘placare’ lo shock creato nella gente dalla notizia triste appena data e a far giungere alla famiglia del defunto e a tutti un dolce vento di conforto), in pieno telegiornale, è riuscita a infilare l’aggettivo ‘meridionale’ in una frase di poche parole messe a mala pena in fila. Il cattivo gusto aggrovigliato attorno alle differenze-provenienze (che nulla hanno a che vedere con l’uomo e che nulla possono togliere alla sua grandezza o al contrario di essa) tende a separare piuttosto che a unire ed è sintomo di false culture imparentate con disagi lontani [e…, ahimè, non solo non insignisce di attributi onorevoli chi ne è preda persino in circostanze che andrebbero vissute in punta di piedi e con il rispetto dovuto alla morte, ma, mai come in questa era divenuta ormai multirazziale, torna al mittente (a chi nutra ancora traumi-punti cardinali italiani) con una certa pena]. Il cantante Pupo fece di tutto per non parlare ‘male’ del defunto, quella sera. Assunse un’aria compunta e compassata, si limitò a pronunciare l’aggettivo ‘meridionale’ più di quanto fosse effettivamente necessario e narrò di episodi dai quali non riusciva a tener fuori un certo risentimento-gelosia. Disse di essersi recato all’estero con Mino Reitano e di aver esperimentato, come tutti i colleghi, che conveniva cantare a tutti i costi prima di Reitano, perché il pubblico impazziva letteralmente per lui e perché reggere il confronto con la sua voce, dopo, era impossibile. Ciò fu ‘carino’, da parte sua, ma fu seguito dal racconto (vestito d’invidia mal dissimulata) delle ‘furberie’ di Reitano che faceva ‘cose’ come mettersi una manciata di terra in tasca e poi lanciarla al pubblico come simbolo de ‘la’ terra lontana -l’Italia- (e non sa Pupo quanto quel gesto s’involi verso il legame inestirpabile dell’emigrante con le arature della sua infanzia e con il gesto magicamente evocativo del seminatore antico…/ Non sa quanto l’intuizione di tutto questo imparenti la figura di Mino Reitano con qualcosa che travalica i confini dei continenti, per farsi simbolo di un mondo che ha-è patria soltanto nel ricordo custodito gelosamente dall’emigrante di tutti i tempi). Chi ha conosciuto personalmente il cantante, come chi ne conosce soltanto l’immagine canora non avrebbe avuto modo di venire in possesso di tale particolare toccante, non avendolo seguito nelle sue ‘trasferte’ attorno al globo terrestre, se Pupo non lo avesse raccontato (benché lo abbia fatto incidentalmente e con una valenza marginale tutt’altro che lusinghiera, merita, comunque, un grazie).

Pupo ha narrato anche di un viaggio in Australia, dove Reitano lo portò con sé a mangiare a casa di un Italoaustraliano. Completamente ignaro di aver ricevuto un onore (non essendo stato lasciato da solo in un impersonale albergo ed essendo stato fatto oggetto di gentilezza-condivisione non dovuta), Pupo non solo non ha fatto cenno di essersi data la pena di provare la benché minima ombra di gratitudine, ma ha definito ‘meridionale‘-calabrese la dimora in cui era stato ospitato (in Australia!), ha detto che il pranzo non era stato di suo gusto (perché troppo ‘meridionale’) e ha aggiunto di aver assistito a un’altra delle ‘furberie’ di Reitano che aveva ammirato a voce alta uno dei soprammobili ‘grandi’ e ‘brutti’ della dimora ospitante e che lo aveva poi ricevuto in dono dall’onoratissimo padrone di casa. Confesso che Pupo mi è apparso come un serpentello grottesco nel suo tentativo di mordere senza darlo a vedere il suo collega che, se non gli fosse stato superiore (per le doti canore infinite leghe di note più in alto delle sue) in vita, lo era già soltanto in virtù del silenzio della morte sovrana. Mi domando, in verità, quali lezioni di galateo abbiano insegnato a Pupo la regola (più assurda e cafona del mondo) di non dover ammirare gli oggetti o le case altrui (e di non doverlo in alcun modo fare ad alta voce) e come possa egli pensare che accettare un invito, mangiare, farsi servire e riverire, aggirarsi nelle case ospitanti con fare silenzioso e circospetto, non fare complimenti e andarsene, senza magari neanche ringraziare, sia nei limiti della decenza; lo ringrazio, in ogni caso, perché ha dato modo a chi ascoltava di comprendere il perché della popolarità di un uomo che aveva un’umanità straripante (fatta di intesa istintiva con gli interlocutori singoli e con le masse). Non so se qualche accademia abbia dato a Pupo i titoli sufficienti a stabilire quale ‘grandezza’ sia ‘deputata’ a fare di un ‘soprammobile’ qualcosa di ‘bello’ o di ‘brutto’ o, molto più verosimilmente, quale ‘oggetto’ possa essere definito ‘soprammobile’ e quale un pezzo pregiato d’arte. Certo è che, per la sua nota sensibilità, Mino Reitano sapeva incantarsi davanti ai capolavori d’arte etnica o d’altro tipo, ‘piccoli’ o ‘grandi’ che fossero (come davanti al cuore umano-fatto accoglienza squisita e generosa) e che Pupo (che non da terzo incomodo era stato trattato, ma da ospite di riguardo) avrebbe dovuto avere il cuore pieno di amicizia/ conservare quell’invito come un ricordo bello/ essere riconoscente al suo ‘amico’ di averlo portato con sé come un fratello/ riuscire a catalogare il dono ricevuto dal suo collega come un ulteriore segno dell’affetto di cui egli era ovunque circondato/ non sognarsi (dulcis in fundo) di ‘parlar bene’ del suo collega appena morto nel modo in cui lo ha fatto. Merita, comunque, ripeto, un grazie Pupo (che, anche se ha perso una chance di condividere con un pubblico d’eccezione la magia di un momento bello da lui non vissuto come tale, è rimasto entro i ‘confini’ dell’amicizia così intesa da una certa fascia di gente senza troppe pretese spirituali). Altri lo hanno superato, in mancanza di ‘tatto’ (o, meglio, rozzezza cronica dell’animo completamente ‘forestiero’ nella patria della finezza e della gentilezza innata o almeno socialmente d’obbligo). Non li cito, per non onorarli.

 

La gente, in generale, può dire ciò che vuole. La verità si può riassumere con le parole che un critico, che mi autorizza a usare soltanto lo pseudonimo (Canaris), mi disse qualche anno fa, all’estero, durante una conversazione di salotto: «Molti sono i personaggi dello spettacolo che possono essere definiti ‘bravi’ e che tali sono impeccabilmente e tecnicamente. Pochi sono coloro che uniscono alla bravura una carica umana e una comunicativa che buca lo schermo, ne esce e raggiunge l’animo di chi ascolta, travolgendolo. Mino Reitano è uno di questi». Pensai, onestamente, allora, che Canaris esagerasse. Devo ricredermi, oggi, alla luce del post-mortem di Reitano, e devo concordare con Canaris (che ha la caratteristica di precursore dei tempi, sempre e ovunque, nel mondo): se Mino Reitano è stato un fenomeno, non lo è stato nel senso ‘mediatico’ del termine, poiché la sua popolarità si è sganciata dalla notorietà, è uscita dai ‘confini’ limitati/limitanti dello schermo e ha raggiunto la gente (toccandone il cuore) come una vicinanza amica/un affetto/un conforto. Credo di poter affermare che il ‘fenomeno’ Mino Reitano (così definito dalla stampa già in occasione del suo boom artistico giovanile) piuttosto che ‘mediatico’ debba essere definito ‘popolare’.

Tale conclusione mi appare logica (e si fa persino ovvia, se penso ai ‘fenomeni mediatici’ di bassa lega che i canali televisivi contrabbandano nelle case, oggi, a detrimento delle coscienze e a danno-alterazione inaccettabile delle culture e del tessuto sociale).

Un reporter ha domandato, durante il funerale, a un Agratese mescolato alla gente assiepata davanti alla chiesa, chi fosse per lui Mino Reitano. L’uomo ha risposto: «Un grande Italiano… del Sud», poi, come rendendosi conto di definirsi estraneo, in tal modo, a colui del quale stava piangendo la morte, si è corretto: «Un grande Italiano» e ha aggiunto qualcosa come “d’Italia”.  

La gente ha detto molte cose. Io ne ho scritto altre. Tutto ciò che valeva la pena di sapere lo ha detto Mino Reitano stesso, nello speciale che il TG1 gli ha dedicato, ma ciò che Canaris ha scritto, dall’estero, merita di chiudere questo articolo, come una nota di poesia dolce soffusa di tristezza (degna di farsi epitaffio di una vita generosamente spesa anche per gli emigranti):

«Non so perche', ma la morte di Mino Reitano mi ha toccato profondamente e mi ha lasciato una spessa coltre di tristezza. Mi rammarico solo di non essere riuscito ad inviargli in vita poche righe attestanti la mia gratitudine di emigrante. Il suo canto aveva il potere di rendere meno doloroso il mio disagio, anno dopo anno, dovuto al fatto che ‘non avrei mai più ritrovato i particolari del mondo del ricordo’».

 

Bruna Spagnuolo


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