Questi avvenimenti, ripresi da una pergamena trovata nella biblioteca di Catanzaro, non hanno collegamenti diretti con le Cronache, hanno solo un punto in comune: Mesoraca. La località, dove era eretto il castello di uno dei crociati e dove anche le informazioni terminano, ed è lo stesso posto dove è stato edificato il Monastero poi Convento dei frati francescani. Proprio quel convento che il 9 Marzo del 1688 ricevette come ospite un bambino: Zosimo detto Nisticò.
IL MISTERO DEL CAVALIERE
...il cavaliere intanto aveva lasciato la maestosa abbazia benedettina incassata in un restringimento formato dalla valle dei fiumi Vergari e Reazio, restringimento così angusto da far dire al padre priore che chi viveva qui aveva come orizzonte solo il cielo.. e lui, il cavaliere ormai disarmato, affaticato e pensieroso, si era incamminato per un sentiero irto, con molti rovi e alberi di alto fusto che facevano filtrare a fatica i lucenti raggi di sole. E così, pian piano fra mille e mille pensieri che volteggiavano nella sua testa, arrivò alla dimora, incastonata fra cespugli di ginestre gialle e bianche, e l’avvicinarsi fu annunciato dai profumi emanati dai fiori diffusi all’intorno. Toc..toc..toc.. bussò alla porta, e attese risposta, toc..toc..toc..
“Chi è?” domandò una voce di donna “ Chi è che bussa così forte?”
“Sono io” rispose timidamente il cavaliere.
“Io, chi?” chiese ancora in modo brusco la dama all’interno.
“Sono io, il cavaliere, madonna..” rispose un po’ intimorito.
“Che volete ? Vi ho già detto che non voglio vedervi. “
“Si lo so, ma siete tornata da un lungo viaggio e volevo…”.
“Che cosa cavaliere, che cosa volevate. Darmi ancora fastidio? ”
“No, no, sapete il mio sentimento, volevo conoscere come eravate stata, quali avventure avevate vissuto, se il viaggio era stato di vostro gradimento, insomma volevo vedervi…”.
“Mmmh, non so se aprirvi la porta,… non so…”
Il cavaliere era ancora lì fermo in attesa che la dama, che nel frattempo aveva chiuso la porta, gli parlasse. Toc..toc..toc.. bussò di nuovo al portone e attese risposta, toc..toc..toc..Nessuna risposta. Il tempo trascorreva inesorabile ma della dama nessuna notizia, sembrava sparita, volatilizzata, o forse era uscita da un altro passaggio, mah! Il Cavaliere, stanco del cammino e delle fatiche consumate, si assopì ed ecco che……
...un nugolo di cavalieri ove si notavano Rinaldo di Montalbano, Orlando, Ruggero, Malagigi, Ricciardetto, Astolfo, Oggiero il danese, Buovo d’Antona, e a capo di tutti Goffredo di Buglione, Luigi il Santo, Baldovino di Fiandra, gli apparvero in sogno e là lontano, lontano si intravedeva, in mezzo al nugolo di polvere sollevata dai destrieri, Gerusalemme…. Ah quella notte…l’orgia nel finir della cena era al suo ardente apogeo. Le voci e le risa sguaiate di quella pazza riunione salivano alte in una strana confusione di suoni, in una smodata allegria. C’erano proprio tutti i commilitoni, donne saracene, là radunati sotto la tenda venuti a dare l’addio alla matta vita da solitario di Andrea da Villafranca. Perché al cavaliere Andrea era venuta la stramba idea di prendere moglie. Egli, dopo anni trascorsi in una successione di piaceri e baldorie, si era sentito all’improvviso stanco di quel celibato turbolento e aveva deciso di accasarsi con una donna bellissima, di Tiro, di nome Adji, figlia dello sceicco Amman el Mouabbib. Lei bella come il sole, capelli corvini e due occhi che sembravano tizzoni ardenti faceva contrasto con Andrea biondo, occhi azzurri e carnagione chiara, non sembrava per niente di terra italica. La decisione sorprese molto gli amici e soprattutto le donne, perché Andrea aveva dichiarato che se avesse preso moglie avrebbe rotto ogni relazione femminile! Da principio furono sarcasmi acuti per questo proposito, poi ci furono moine per farlo desistere, poi ancora proteste.
C’era una ragione superiore a tutte le altre, alla razza, alla religione, ai divertimenti, alle seduzioni, Andrea si era accorto un giorno di avere un cuore e si era innamorato di questa bella giovane donna saracena. Lui, libertino, divenne poeta e adesso era lì nella tenda con i suoi commilitoni più cari a dare l’addio al celibato. I calici riempiti di buon vino si davano di cozzo l’un l’altro, l’allegria percorreva i presenti e le donne, discinte, si erano date in braccio all’ebbrezza. Parlavano di storie fosche, ridevano, discutevano e quelle donne non si erano ancora arrese alla decisione di Andrea, ubriache cercavano di dimostrare le sciocchezze che il loro carissimo amico stava per compiere, erano strane discussioni filosofiche, pazzi aforismi, assiomi stravaganti. Fatima sosteneva che il matrimonio era un suicidio, l’amore libero per lei era la gioia, la felicità, la vita.
Lei gli era al fianco e cercava di ammaliarlo con la sua voce, con il suo corpo, con lo sguardo, le movenze, come aveva fatto tante volte. Aveva le vesti in disordine e il seno nudo, le braccia scoperte, aveva gemme fra i capelli e attorno al collo, al polso aveva un braccialetto prezioso da cui pendeva un piccolo stiletto, appuntito, micidiale.
“Resta con me ti darò il piacere, ti darò l’amore” diceva Fatima e continuava “Vuoi andare incontro alla morte della libertà, tu conquistatore sei conquistato, tu potente ti riduci a schiavo. Oh, per Allah, tu per quella donna, esile, romantica, ti togli la vita. Il più stupido dei suicidi”. E Fatima lo avvinghiava con le braccia voluttuose nella provocante seduzione del corpo rigoglioso…..
…il cavaliere a quel punto del sogno ebbe un sussulto e aprì gli occhi, si drizzò subito in piedi come per brandire la spada al fianco, che non aveva più, ma tutto era rimasto uguale, la porta era sempre chiusa e dalla magione della dama non si sentiva alcun rumore…Toc..toc…niente…
….il cavaliere si sentiva demoralizzato e la colpa era solo sua, non doveva, non doveva in alcun modo …. e poi il passato, il passato che lo tormentava ancora ed anche adesso inconsciamente tornava con prepotenza alla memoria ….….
“Ah! Perché…perché…” si lasciò andare a voce alta, si alzò e guardò di nuovo la dimora incastonata fra cespugli di ginestre gialle e bianche.
“Perché ?...” ripeté ancora sospirando, e lo sguardo si smarrì fra le piante che lo circondavano……Fatima avviluppava con il suo corpo il promesso sposo e rideva, una risata anche troppo sguaiata. Andrea si era alzato, liberandosi dalla stretta amorosa, calmo, sorridente, “Ah il matrimonio è dunque un suicidio, il suicidio dei vili! Ah tu Fatima, che mi hai insegnato le seduzioni d’amore, vuoi sapere perché sposo una giovinetta, incontaminata dalle depravazioni? E tu dici che commetto un suicidio degno di disprezzo? Bevo alle tue teorie. Pensi che non sarei capace di uccidermi con un pugnale o andare incontro alla morte disarmato?” disse con molta foga.
“Ah pazzo, tu sei pazzo! E’ vero, ci vuol bene uno strano carattere per comportarsi in tal modo, hai tutto amore, gloria, dolci carezze, perché, perché?” disse di rimando Fatima.
“Sì, io sposo una giovine che le forme del seno non sono così turgide come le tue, che negli occhi non ha fascini così voluttuosi , ma io ti dico che sarò felice! Perché io la amo, la amo, amo le sue fattezze, la sua bocca, i suoi capelli, i suoi occhi, i suoi grandi occhi neri” disse Andrea.
“Ah l’amore, che cos’è l’amore un fruscio nella tempesta, un attimo di abbandono, un fuoco che brucia per poco e poi.. poi non sazi si cercano altre donne…altri uomini. Meglio la solitudine fare quello che vuoi quando lo desideri senza renderne conto a nessuno. Il piacere questo sì che è la forza della vita.” rispose Fatima.
Nel frattempo la discussione, che aveva raggiunto espressività veementi, aveva fatto in modo da placare il rumore di presenti, e tutti, o quasi, erano catturati da questa discussione che aveva assunto toni accalorati.
“Tu sei una filosofessa mia cara Fatima, cosa dici che è meglio uccidersi con una spada, un pugnale o forse con un mezzo più subdolo, come tu sei, come il veleno? Piuttosto che…”
“Eroi, eroi! Oh lo stupido e troppo dolce suicidio che è il matrimonio… questo piccolo pugnale nel cuore, ecco il vero coraggio” urlò la giovane interrompendolo e mostrando l’oggetto che aveva appeso al suo braccialetto, che stava cercando di rendere libero con manovre frenetiche.
Adesso tutti gli occhi dei presenti erano rivolti verso i due giovani contendenti che non trattenevano più, forse causa anche del vino, i loro sentimenti e la loro irruenza.
“Com’è bello questo pugnale, Fatima chi te l’ha dato? Splende ai raggi delle lampade come a quello dei vostri occhi, ragazze perfide, guarda, guarda Fatima.., come riesce a morire un crociato senza il suicidio dell’amore” e così dicendo Andrea da Villafranca strappò dalle mani di Fatima lo stiletto e girando la mano se la diresse verso il cuore. Fatima impallidì all’istante e si frappose velocemente fra il pugnale e il cuore del crociato. Lo stiletto penetrò nelle carni della bella infedele e lei lanciò un grido di dolore mentre cadeva per terra. Come il vento spazza le nuvole nel cielo e lo rende sereno così, purtroppo, questo triste avvenimento rese immediatamente Andrea sobrio e capì, in tutta la sua portata, quanto era accaduto. Si chinò all'istante prendendo fra le sue braccia la bella e impavida donna saracena.
“Fatima... Fatima... oh mio Dio... mio Dio che cosa ho fatto…” disse il cavaliere.
“Ah! Amore, amore mio, amore mio” sussurrò la donna “ ti ho sempre amato, sei il mio unico ed eterno amore, baciami…. baciami ancora….” e mentre il cavaliere ,incredulo ancora della piega che gli avvenimenti avevano preso, si stava chinando su Fatima, lei lanciò un ultimo, flebile lamento e spirò fra le sue braccia.
Nel chiarore sidereo dell’afosa notte estiva, la sagoma di San Giovanni d’Acri si profilava nell’aria tersa con la maestosità solenne delle sue inconfondibili sagome, minacciose anche nell’albagia dei ricordi di un remoto tempo in cui la sacra terra era stata calpestata dai padroni del mondo ma soprattutto da Lui: il Salvatore. La terra dintorno palpitava di fantasmi e pareva si elevasse una fantasmagorica coorte di saraceni e crociati, deceduti di morte violenta, ondeggiante in una morbidezza di sudari trasparenti e vaporosi.
“Mohamed, Mohamed, ...pare che tutto si incendi laggiù... vedo ombre... vedo spettri... ho paura Mohamed!” disse in preda alla febbre il cavaliere.
“E’ un’allucinazione, mio signore. Riposa tranquillo”.
“Non posso Mohamed, ho ancora davanti il volto sorridente di Fatima, vorrei essere cieco, cieco come tu lo sei..”
“Non dirlo, non bestemmiare.. oh cos’è la luce..il sole” nella voce quasi roca del servitore c’era un’amara e inconsolabile nostalgia di tempi migliori.
“Passami la tua mano sulla fronte, brucio mi sento ardere, la tua mano è così fredda.. che caldo, soffoco”.
“E’ la notte di Kashmin, il deserto vomita su di noi tutto il suo fuoco…. ha sete… ha sete dei suoi figli”.
“Dov’è Adji? Mohamed l’hai chiamata? Verrà? Cosa ti ha detto?”
“Mio signore, stai calmo, adesso verrà… è preoccupata per te… molto preoccupata”.
“No..no..deve andare al Krak là sarà più sicura” disse con voce un po’ impastata il giovane cavaliere.
“Ma…. mio signore è lontano... laggiù al confine fra il Regno di Tripoli e il Regno di Antiochia, deve andare a Banijas e attraversare la terra di Tripoli... e... e deve…” ma il cavaliere non lo ascoltava più perché un sereno torpore si era preso le sue membra e gli occhi, allucinati fino a poco prima, adesso erano chiusi mentre il respiro profondo faceva muovere ritmicamente il torace del giovane.
Mohamed ripensò a quando aveva conosciuto il giovane Andrea, là nelle terre di Tripoli vicino al Krak dei cavalieri, la fortezza dei crociati vicino ad Homs. Era lì, in quel castello imponente che i cavalieri di Gerusalemme erano ospitati ed era in quella posizione strategica che Andrea e i suoi amici commilitoni avevano avuto il loro primo scontro con gli infedeli. Ed era sempre lì che lo sceicco Amman el Mouabbib gli aveva dato da accudire al cavaliere.
“Mio buon Mohamed, come va Andrea? “ Mohamed fu tolto di soprassalto dai suoi pensieri dall’amico più caro del giovane, da Ruggero di Mesoraca. Ruggero abitava le terre dello Jonio, là all’interno di quel territorio dove il mare bagna le coste dei Calabri e degli Apuli, lui per venire a combattere gli infedeli aveva lasciato la giovane moglie Bianca di Arcidosso nel castello dei padri.
“Sta migliorando, tornano le forze e cerca continuamente la sua giovane donna”.
“Adji, dov’è?” chiese Ruggero.
“Era presso suo padre, ma ho mandato un messaggero ad avvertirla e credo stia arrivando. Oh sento dei passi forse e lei… la mia signora”.
“Mohamed, dov’è ?” chiese una voce di donna, e Mohamed a quelle parole fece un profondo inchino.
Adji era uno splendore, lunghi capelli sparsi sulle spalle, occhi nerissimi languidamente profondi e luminosi, labbra carnose dalle quali s’intravedevano una fila di candide perle, l’abito alquanto largo nascondeva forme aggraziate e sicuramente perfette, mentre il ventre con linee arrotondate dimostrava un’attesa di futura maternità.
“Sul giaciglio.. là nella tenda..mia signora... ma non ti allarmare... si riprenderà” rispose, mentre la bella saracena di corsa si diresse verso Andrea.
“Amore... amore mio... quale perfido e maligno genio si è impadronito di te… amore sono io la tua Adji”.
“Oh..Adji….mia piccola..” rispose con voce un po’ impastata Andrea“ mia piccola… niente… niente… è successo tutto così velocemente …è tutto a posto ...non pensavo ...sai ...la festa con i miei compagni… vi erano anche… e poi… poi l’incidente… è colpa mia… non dovevo...” disse il cavaliere tentando di alzarsi, ma ricadde pesantemente sul giaciglio non avendo forza sufficiente per alzarsi.
Lei lo guardò con aria di rimprovero, ma il vero amore scaccia qualsiasi nube, e poi si gettò su di lui abbracciandolo e baciandolo, stringendolo fra le sue braccia fin quasi a soffocarlo.
Nel frattempo i due uomini si erano allontanati, lasciando soli i due innamorati.
“Salam alaikum” disse Ruggero a Mohamed allontanandosi.
“Alaikum al salam” rispose Mohamed, portandosi la mano destra al petto, alla bocca e alla fronte, poi si ritirò nella sua tenda.
Là nella solitudine i pensieri ritornarono, a Mohamed, come un fiume in piena e il passato si ripresentò, quasi martellante, alla mente, quando era alla guida del suo zaruk e solcava i mari lungo le coste arabe. Era un muwallad, faceva pirateria assaltando le navi indifese, ma non in nome di Allah, non c’era guerra santa nei suoi ideali ma solo denaro.
Navigava fra Creta, Cipro e le coste arabe e qualsiasi nave, alla sua portata naturalmente, era attaccata, nessuno rimaneva più in vita, era feroce, crudele e spietato.
In uno di questi viaggi, lungo le coste arabe, incontrò la passione e la distruzione della sua vita: Miriam. Due occhi grandi umidi e vellutati, un ovale d’alabastro e una chioma nera lussureggiante, vaporosa, che emanava un profumo di cinnamomo. L’aveva trovata in una piccola navicella con suo padre mentre trasportavano stoffe, il genitore era morto di paura e lui non aveva avuto coraggio di ucciderla, e, l’aveva tenuta con sé, ma con il tempo se ne era innamorato. Miriam era vergine, non aveva mai conosciuto uomo, la sua anima rassomigliava a quelle piante della zona torrida che danno fiori e frutti una volta sola e perciò prima di concedersi voleva essere sicura di aver trovato l’uomo giusto, quello di “tutta la vita”, e lui “il pirata” lo era.
Fu una gioia immensa, una vertigine di entusiasmo, di passione a suggere il miele sulle sue labbra e nella nave quell’alcova di trine e merletti, tutta odorante di lei, delle sue vesti, della sua tunica, della sua figura di Venere sana e robusta.
Aveva un neo sotto il seno sinistro e se ne rammaricava, lo voleva nascondere con i lunghissimi capelli crespi, fra quella fitta selva di fili di seta lucidi e neri come l’ebano. Furono notti e notti d’amore poi la catastrofe angosciosa, l’incendio nella profumata alcova, la morte straziante di Miriam, la cecità e la miseria per lui.
Oh l’ora fosca di quella triste notte! Una vertigine, una distruzione, ma come avvenne, perché? Nessuno scampò, perché non riuscirono a salvarsi? La mente si offuscò, nessun ricordo certo, poi il naufragio sulla costa di Antiochia, lui cieco, urlante, chiedendo di essere ucciso e poi la mano amica di Amman el Mouabbib che lo accolse come un fratello. Sempre con lui, ovunque andasse Amman lui era presente. Un giorno gli chiese di stare vicino al futuro sposo di sua figlia Adji e di proteggerlo, anche a costo della sua vita. Mohamed, riconoscente aveva acconsentito, e con il tempo si affezionò a quel cristiano come fosse stato suo figlio.
Andrea da Villafranca era giunto dalle terre avite al confine con i Liguri, tre anni prima. Del castello e dei beni di suo padre era rimasto poco e lui, con l’avventura nel sangue, aveva seguito un gruppo di cavalieri che andavano in Terrasanta per consolidare la presenza cristiana in quelle terre mussulmane, assetati di potere e di fama, riconquistare Gerusalemme caduta anni prima nelle mani del curdo Salah ad Din, sultano d’Egitto e di Siria . Si era fermato poco tempo a S. Giovanni d’Acri quando reggente di Gerusalemme era Giovanni di Ibelin e lì sulla riva palestinese, in quella città che sembrava un piccolo stato, aveva conosciuto quello che sarebbe divenuto il suo amico più fidato: Ruggero da Mesoraca, e che a causa sua sarebbe cambiata la sua vita. Si era poi diretto con un gruppo di soldati e con Ruggero al Krak dei Cavalieri, nella contea di Tripoli e in quelle terre ebbe qualche scontro con soldati mussulmani, ma piccole scaramucce di poca importanza. Nel susseguirsi del tempo frequenti erano gli spostamenti dei due crociati che andavano dal castello a S.Giovanni, come a ritemprasi dalla solitudine di quella fortezza che con la sua posizione strategica controllava il "Passo di Homs; ovvero lo sbocco settentrionale dell'ampia e fertile pianura della Buqay'a, che conduceva verso la costa mediterranea e che permetteva di raggiungere la città di Tortosa, sulla costa palestinese, costituendo in tal modo la difesa più avanzata della Contea di Tripoli. Andrea aveva saputo che uno sceicco del luogo, un certo Amman el Mouabbib, aveva una figlia bellissima e fece tanto e poi tanto che si procurò un invito alla sua mensa. Il tramonto gettava i suoi colori nella vasta campagna di Tiro, mentre una lieve e refrigerante brezza, carica di profumi diversi cominciava a soffiare da ponente; la sera del novilunio, calma e serena, scendeva sulla gran distesa che presentava scintillii d’avorio e lamine d’argento. Per la vasta campagna regnava solenne il silenzio della vita che dormiva, non carovane, non animali, non cicalecci sibilanti e cavernosi dei popolani, solo il passo dei loro cavalli. Con questa immagine Andrea si ricordava l’incontro con Adji, poi la sua voce che cantava mentre le dita battevano ritmicamente lo strumento musicale. Lei sembrava quasi domandasse aiuto allo strumento per esprimere ancora di più una malinconia selvaggia. Quando lo vide, s’interruppe improvvisamente e i suoi grandi occhi neri si persero in quegli azzurri del cavaliere. Entrambi imbarazzati non seppero proferire parola né staccare lo sguardo l’uno dall’altra. Vennero poi le carezze, i baci e l’amore, la passione li travolse, e lei un giorno disse ad Andrea che attendeva un figlio.
“Ti farai cristiana per me?” le disse Andrea.
“Amore, amore, tu sei il mio sole, la mia vita..se vuoi…lo faccio solo per te.”
“Sarai, nel medesimo tempo anche mia moglie” rispose Andrea.
Adesso erano in attesa del lieto evento, battesimo, matrimonio e poi la nascita del bambino, …del loro bambino…
…stettero lì abbracciati, silenziosi, ogni tanto Adji dava un leggero bacio sulla guancia del suo amato come per far scomparire il male che lo aveva preso.
“Mio piccolo fiore sei pronta per il gran passo?” chiese Andrea , come se si fosse svegliato improvvisamente da una catalessi.
“Certo, ho parlato con il vescovo Emiliano e tutto è pronto, fra una luna saremo marito e moglie” rispose sorridendo e felice Adji.
“Hai letto quello che ti ha dato?”
“Non ci ho capito molto, ma avremo tutta la vita perché tu me lo possa insegnare”.
“Sai in quel libro è racchiusa tutta la dottrina cristiana..e..olà Ruggero” salutò il cavaliere l’amico che era andato a ritrovarlo. Si misero a parlare, a ridere, scherzare, sembrava che l’incubo vissuto fosse passato come all’arrivo dell’arcobaleno, che segnala la fine del temporale…
...Il cavaliere chiuse gli occhi e inspirò fin quasi a farsi scoppiare i polmoni, si mise la mano destra sul viso e lasciò che questa percorresse tutto il volto, poi un grande sospiro uscì dalle sue labbra. Guardò ancora verso la porta della casa, era ancora chiusa e nessun rumore proveniva dall’interno…
...il tempo passò veloce ed arrivò il momento tanto atteso dai due giovani. La chiesa di San Giovanni d’Acri era piena di nobili ed era illuminata a giorno dalla moltitudine dei ceri accesi.
“E’ un’ottima propaganda fra questi infedeli, battezzare una musulmana” pensava fra sé e sé il Vescovo Emiliano di Reims “Meno clamore avrebbe dovuto esserci però per il matrimonio. Era possibile che un nobile crociato sposasse una donna di quel..quel posto ?..mah…”
“Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo”(*) iniziò il Vescovo, vestito con tutti i suoi pesanti paramenti in mezzo ad una nuvola d’incenso “Credere dipende dalla volontà”.(**)
“Credi...” cominciò a chiedere ad Adji, e lei, serena, bellissima nella tunica bianca che indossava rispondeva con forza e convinzione.
Prima di battezzarla il Vescovo le chiese come si sarebbe voluta chiamare “Adelinda” rispose “Adelinda?” chiese alquanto sbalordito il Vescovo.
“Era il nome di mia madre” disse il cavaliere “mia madre che è nelle braccia del Signore”.
Il rito continuò senza altre interruzioni, al termine della liturgia di accoglimento della neofita Adelinda alla religione, il vescovo disse “Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro tutto ciò che vi ho comandato”.(***)
Iniziò poi la funzione per il matrimonio dei due giovani, fu brevissimo, un casto bacio fra i due e poi la festa che Amman el Mouabbib aveva organizzato. Balli, canti e fiumi di vino…e poi…attorno,e sopra di loro il cielo purissimo, l’aria trasparente e le stelle appuntate nel cielo, sotto un paesaggio aspro, velato da vapori confusi, torbido, emergente in quell’aerea chiarezza serena. Nei chiaroscuri della tenda le forme dei due giovani amanti, la figura di lui maschia mentre lei si abbandonava tutta a quell’estasi sovrumana d’allontanarsi dal mondo, in braccio all’amore, personificazione di quell’amore grande e solenne, dell’amore per cui due anime umane si confondono in un rapimento divino, lungi da ogni terrena tristezza, dimentiche di ogni altra cosa che non sia il loro sogno. Quanto affetto e quanta dolcezza! Quanto candore nell’atto leggiadro di lei! Erano due cuori che battevano all’unisono sotto quelle membra. I due giovani rapiti in quell’amplesso, non erano più né uomo né donna, erano una sola cosa, erano due simboli complementari diversi ma solidali, distinti ma inseparabili, erano una sola cosa: l’amore.
Il tempo felice dei baci, delle carezze, delle notti d’amore finì, perché Andrea era un crociato e come tale aveva il dovere di seguire il suo comandante Giovanni di Brienne.
Isabella di Gerusalemme e il suo ultimo marito, Amalrico I di Cipro, morirono nel 1205, e il Regno fu nuovamente messo nelle mani di una bambina, la figlia di Isabella e Corrado : Maria del Monferrato. Essa fu quindi data in sposa ad un cavaliere esperto e sessantenne, Giovanni di Brienne, che riuscì ad assicurare la sopravvivenza del Regno. La speranza di riprendere Gerusalemme, ai musulmani, scemava anno dopo anno e il fatto che i musulmani non avessero né impedito né ostacolato il flusso dei pellegrini cristiani ai luoghi santi aveva allentato la necessità di intervento. Giovanni studiò, con altri nobili crociati, un nuovo piano. Questo prevedeva la riconquista di Gerusalemme attraverso l'Egitto, ovvero la presa di Damietta , infatti i nobili crociati pensavano che occupando il prezioso scalo commerciale portuale, al delta del Nilo, avrebbero potuto trattare uno scambio con la Città Santa.
Tutte le truppe al comando del reggente partirono e si diressero a tappe forzate vero l’Egitto, all’assalto di Damietta, e fra i crociati c’erano Andrea da Villafranca e Ruggero di Mesoraca.
Nel momento in cui partiva Adji-Adelinda disse al suo amato Andrea “Quando la luna sarà piena, diventerai padre”.
“Mia amata, sai già quale sarà il suo nome... vero?”
“Certo, ne abbiamo già parlato Ruggero o Maria “ rispose con prontezza “e sarà immediatamente battezzato”.
“Mohamed” disse il giovane rivolto al suo fidato amico” veglia su di lei come hai vegliato su di me, i miei beni più preziosi sono nelle tue mani”.
“A costo della mia vita, mio signore”.
Andrea, dato un ultimo bacio alla sua adorata moglie, se ne andò via di corsa unendosi alle truppe, non voleva baciare ancora la sua amata, perché non avrebbe più avuto il coraggio di andarsene.
Erano poche settimane che Andrea era partito quando accade l’irreparabile, la vendetta dell’Islam contro Adji e la sua famiglia.
“Murtadd” entrò nella tenda il Mufti, Muhammad al Nasir, seguito dal Muezzin, Muhtadi al Din, e altri uomini mussulmani che tenevano prigioniero il padre, Amman el Mouabbib, oltre al fedele Mohamed.
“Allah è grande. Io attesto che non vi è altro Dio che Allah. Io attesto che Maometto è l’inviato di Allah. Venite alla preghiera. Venite alla salvezza” iniziò a pregare, con gli occhi chiusi e le spalle rivolte alla donna.
“Discolpati, discolpati!” urlò il Muezzin rivolto a Adji-Adelinda.
“Non ho niente da discolparmi, non ho commesso alcun peccato. Sono pronta a …”ribatté con fierezza la donna.
“Taci, taci eretica! Degenerata, sei una degenerata perché hai scacciato la virtù e la pietà non fa più parte del tuo essere, l’hai scacciata, eretica! Traditrice! Ed io ti condanno in nome di Allah!”.
“Andrea, Andrea amore mio”.
“Condanno te, il figlio che porti in grembo e il padre tuo, che non ti ha fermato in questa degradazione, a morte, a meno che...” disse il Muftì.
“No, non lo farò mai” rispose Adji-Adelinda.
“Figlia mia rifletti, pensa al figlio che hai in grembo...” intervenne Amman el Mouabbib.
“Hai tre giorni di tempo per riflettere e tornare al grande padre tuo che ti riaccoglierà, pur punendoti per la trasgressione, fra le sue braccia” terminò il giudice e poi rivolto agli uomini con lui “ Voi fate attenzione che non fuggano e non incontrino nessuno. Ne va della vostra vita”.
“Se non torni alla tua primitiva fede” continuò imperterrito il Muftì “verrà eseguita contro di te la pena di morte e con te verranno giustiziati quanti ho nominato. Senza alcuna eccezione!”
“Attendi almeno che nasca il figlio, che il mio amato marito lo porti con sé e così...” disse fra le lacrime Adji-Adelinda.
“No, non meriti pietà. È troppo grande, è troppo grande il tuo peccato!” replicò il giudice e prima di uscire di nuovo Muhtadi al Din recitò, con le spalle rivolte alla donna, le preghiere.
Nel frattempo i crociati sotto la guida di Giovanni di Brienne si avvicinavano all’obiettivo prefissato e in vista della città di Damietta fu sferrato un potente attacco. Le forze musulmane erano sicuramente più numerose ma il valore dei crociati non si poteva in alcun modo mettere in discussione. Andrea e Ruggero erano fra i primi a combattere sui loro destrieri, e là dove non si riusciva a cavallo, la lotta continuava anche a terra. Furono accerchiati da un pugno di nemici e loro, schiena contro schiena, lottavano come furie uccidendo nemici, tagliando braccia, decapitando teste. Ruggero a un certo momento cadde in ginocchio sopraffatto dalla fatica.
“Ruggero cos’hai ? Ti hanno ferito?” chiese prontamente Andrea.
“No, no. La spossatezza si è impadronita di me, non ti preoccupare passerà” rispose l’amico. Continuavano a combattere come furie, a fianco a fianco contro cinque, dieci, nemici. Poi una freccia, più fortunata di altre, si conficcò nella coscia di Ruggero “Ahi me!” disse.
“Che succede? ti hanno ferito?”
“Niente, niente, ma se mi dovessi accadere qualcosa di irreparabile, giura, giura amico mio, che quando ritornerai nella terra italica, andrai a trovare mia moglie e le parlerai di me giura, giura amico mio” disse Ruggero.
“Giuro solo per piacere a te, ma andremo via insieme dopo questa battaglia io prenderò la mia Adji e torneremo nelle nostre terre. Basta violenza, ne ho a sufficienza di guerra”.
In quel momento un soldato musulmano scagliò la propria lancia verso i due crociati e questa, per uno strano gioco del destino, colpì direttamente al cuore Ruggero, che cadde pesantemente al suolo.
“Ruggero, Ruggero, amico mio” urlò Andrea. Era rimasto solo, ma si batteva come un leone affamato, urlando “Ruggero per te, per te”, nel momento che sembrava tutto fosse finito, arrivarono altri crociati e riuscirono a porlo in salvo. La battaglia era finita, sul campo erano rimasti molti cristiani e musulmani, la città di Damietta fu conquistata.
Andrea era nel campo cristiano, triste, solo, i commilitoni festeggiavano la vittoria ma lui non aveva niente da festeggiare: l’amico più caro era caduto nella battaglia. Adesso lui si chiedeva per cosa ? per chi? La morte aveva ghermito il suo più prezioso compagno, non per difendere l’onore, non la casa, ma un posto sconosciuto a tutto il mondo e che pochi se ne sarebbero ricordati di lì a qualche anno.
Pensava di ritornare a S. Giovanni d’Acri, prendere con sé Adji e il figlio che doveva essere nato e ritornare nelle terre al confine con i liguri. Non c’era molto, ma quel poco poteva bastare per la sua famiglia.
Il Sultano, Malik al Kamil che occupava la Terrasanta, si era dichiarato subito disposto a fare delle concessioni, ma l’inettitudine e l’intransigenza di Pelagio, il legato pontificio fecero rallentare prima e poi annullare la possibilità di una conclusione favorevole. Inutili, tante morti erano state inutili!
Andrea da Villafranca lasciò sconsolato il campo crociato e si mise in viaggio per ritornare a S. Giovanni d’Acri. Lungo la strada pensava a quando avrebbe rivisto la sua amata Adji, solo il pensiero lo faceva infiammare, i suoi sensi erano tutti rivolti a lei: il suo profumo, il sapore della sua carne nell’amplesso dei baci che si perdevano nel suo corpo, la dolcezza delle sue carezze, le sue meravigliose e perfette forme, il suo gradevole canto…
Con questi e altri pensieri arrivò in vista della città e si diresse subito al campo, dove aveva la tenda. Lì avrebbe trovato sua adorata sposa.
“Adji, Adji” chiamò e non ebbe alcuna risposta “Adelinda, Adelinda mia amata, sono tornato… Adji...”
“Mio signore, mio signore” sentì Andrea e volgendo lo sguardo vide Mohamed, con una fasciatura alla mano destra che nascondeva il moncherino di una mano che non c’era più, che stava piangendo” mio signore… uccidimi, non ho mantenuto la promessa…. uccidimi”.
“Dov’è Adji e mio figlio?dove sono? Che cosa le è capitato? Mohamed rispondimi…” urlò il cavaliere prendendo per la tunica l’uomo, ridotto ad un ammasso di ossa, e scendendo precipitosamente da cavallo cominciò a correre verso la tenda, guardò, girò qua e là, ma della moglie nessuna traccia.
“È andata da suo padre con il piccolo?” chiese con ansia il cavaliere.
“No! non… perdonami signore…”
“Non tacere, dimmi, dimmi dov’è, voglio... voglio sapere”.
“Muhammad al Nasir” rispose Mohamed.
“Il giudice, il muftì che c’entra con questo...”
“Lui è venuto e “murtadd” le ha urlato, perché aveva abiurato…anche il padre suo l’ha pregata, l’ha scongiurata di abbandonare la nuova religione …ma lei no... no...”
“Dimmi... allora... dimmi…”
“Oh mio signore non so come dirtelo… l’hanno decapitata insieme a suo padre!” disse Mohamed in un pianto convulso.
“Nooo! Noo!” urlò “Maledetti... maledetti” preso da una rabbia incontenibile sfoderò la spada uscendo dalla tenda, ma Mohamed sentendo i suoi movimenti riuscì gettarsi su di lui fermandolo come poteva.
“Calmati mio signore.. avrai la tua vendetta”.
Alla sera Mohamed lo condusse al cimitero cristiano, dove l’avevano sepolta e lì Andrea si gettò sul suo sepolcro, abbracciando e baciando la terra.
Il cavaliere, in un apatico silenzio, lasciò passare alcuni giorni, poi chiamo Mohamed gli comunicò la decisione che sarebbe ritornato nelle terre italiche “Ho avuto solo dolori in questa terra, ma prima di partire devo... devo compiere uhm… non può terminare così il mio... la mia vita... una nemesi esiste... deve esistere...”
“Sono con te mio signore” rispose Mohamed.
Andrea, tramite il fido Mohamed, si era accordato con un capitano che commerciava con la Sicilia un passaggio sulla sua nave. La notte, prima di partire, riuscì, insieme al suo fedele servitore, a oltrepassare i punti strategici sorvegliati dai musulmani protettori del Mufti, e poté entrare nella sua tenda. Prima che lui se ne rendesse conto, il cavaliere tramortì Muhammad al Nasir e provvide a legarlo ed imbavagliarlo.
“Hai ucciso una donna indifesa... con un bambino... innocente... lurido... lurido.…”
“Mio signore affrettati, sento dei rumori che provengono da fuori” disse Mohamed.
“Che male... dimmi che male ti aveva fatto?” e gli tolse il bavaglio che chiudeva la sua bocca.
“A me... a me... aiuto... un cane infedele…” cominciò a strillare il Muftì.
Andrea sfoderò la spada e lo trapassò da parte a parte “Per Adji... per mio figlio… per Amman el Mouabbib... per tutte quelle vittime innocenti che hai fatto uccidere”.
“Mio signore... mio signore fuggi... corri... avvicinami la scimitarra del Mufti...”
“Vieni con me” disse Andrea.
“Non posso... non vedo... ma loro non lo sanno... cercherò di coprire la tua fuga... mi devo... mi devo sdebitare per quello che non sono riuscito a fare... vai... vai corri e che Allah sia con te e ti protegga”.
Andrea da Villafranca sparì nella notte e riuscì a imbarcarsi sul naviglio per la Sicilia.
Mohamed con il volto sereno e sorridente, di lì a poco giacque, trapassato dalle scimitarre islamiche, sul terreno in prossimità della tenda del Muftì.
La nave lasciò Andrea sulle coste siciliane vicino a Siracusa. Riuscì ad acquistare un cavallo e a li passando da Taormina e altre terre ancora, s’imbarcò per Solano, passò dal Ducato di Calabria, e si diresse verso il Principato di Capua, saputo che cercavano uomini per combattere si avviò a Celano, nella Marsia. Qui risiedevano i Conti di Celano e la contea era stata da loro tolta da Federico II perché avevano sostenuto la causa di Ottone di Brunswick e data in amministrazione ai Conti di Segni, ma anche loro non erano stati fedeli all’imperatore che inviò un esercito per punirli della loro infedeltà. Andrea pertanto si era diretto colà a dare manforte agli assediati. Quando giunse a Celano questa era stata già distrutta, allora indirizzò il suo destriero verso Sulmona, essendo venuto a conoscenza che questa resisteva alle milizie del Papa Gregorio IX, e fu al fianco degli insorti, poi passò al comando della rocca di Castel di Sangro e quindi fu a Telese poi a Piedimonte e ad Ariano Nel 1228 era contro le truppe del cardinale Colonna che incendiarono e distrussero il borgo e il castello di Castrum Sari per punire la fedeltà serbata a Federico II di Svevia dal Conte Rinaldo II di Sangro. All’inizio del 1229 era sempre contro l’esercito di papa Gregorio IX, guidato da Giovanni di Brienne, che cacciò il duca di Spoleto della Marca, assediò Sulmona e conquistò il Castello di Pettorano. All’inizio dell’inverno del 1229 era a Roma quando venne alluvionata dal Tevere e i morti furono oltre cinquemila.
Fu allora che si riebbe, che ritornarono alla mente tante, tante storie, erano trascorsi quasi due lustri da quando era ritornato dalla Terrasanta e lui non aveva fatto altro che combattere, non aveva avuto pace, non aveva più memoria degli amici, degli amori. Si ricordò allora di Ruggero, della sua morte e del castello che aveva in un posto bagnato dallo Jonio ”Mesoraca”, disse ad alta voce. Non sapeva dove andare e pertanto si mise in cammino verso quella meta…
...tutti quei ricordi gli avevano fatto male, lui, il crociato, aveva il volto rigato dalle lacrime, tanti morti, inutili, tanto sangue, versato invano, e l’amore era volato via come le rondini all’arrivo dell’autunno e la pace, nel suo cuore tumultuoso, non aveva dimora… e i pensieri corsero ancora veloci…. senza porre attenzione alla casa, e in particolare a quella porta fra le ginestre bianche e gialle...
…giorni e giorni di cammino e poi arrivò all’eremo di Mesoraca e nelle vicinanze di questi si trovava il Castello di Ruggero.
“Qui c’è solo un ammasso di pietre” proferì Andrea ad alta voce “Non c’è alcuno… ehilà... ehi voi” disse rivolto ad un villico che era nelle vicinanze con alcune pecore.
“Dite a me?” rispose lo sconosciuto.
“I signori che abitavano qui dove sono andati?” chiese.
“Non c’è più nessuno, che volete? Sono tutti morti!” rispose in malo modo.
“Come tutti morti! Ma la giovane dama, la sposa di Ruggero...” insistette Andrea.
“Perché volete saperlo” Andatevene via... non c’è più nessuno, Dio abbia pietà delle loro anime…”
“Ero amico di Ruggero, abbiamo combattuto insieme… è morto fra le mie braccia...”
“Ah! Il castello fu distrutto da una guerra che si trascinava da un ducato a un altro, da una famiglia e l’altra fra Catanzaro e Crotone..di più non posso dirvi non voglio rimetterci la testa..., il vecchio morì, ma la giovane dama se né andata ad abitare, con alcuni servi, in un casolare per di qua, al limitare di questo bosco” e dopo aver detto questo gli girò le spalle e iniziò a fischiare al cane per raggruppare le pecore.
Sentiva il cuore che gli batteva forte, tanto quasi da mancargli il respiro, non sapeva il motivo di questa strana agitazione. Arrivò alla casa in mezzo ai fiori, tutto intorno c’era un profumo inebriante, regnavano fiori di ogni specie ma soprattutto ginestre, ginestre gialle e bianche.
Vide la donna in lontananza, lui ancora a cavallo e lei stava salendo per i viottoli del bosco, non era sola era in compagnia di un’altra donna che stava camminando lentamente. A un certo momento si arrestò un poco guardandosi attorno indecisa, poi posò la sua mano sulla spalla della compagna, la salutò e rimase sola. Saliva piano, piano per un sentiero tra alcuni quercioni, scomparve nella boscaglia e poi riapparve perché il bosco avallandosi d’un tratto poi risaliva sullo sperone della montagna. Camminava sicura, conoscitrice del luogo, cogliendo di quando in quando alcuni fiori che le pervenivano alla mano, fermandosi talvolta come in ascolto. Il sole morendo invadeva con i suoi raggi il bosco e le lunghe ombre si sbizzarrivano fra i cespugli, le alberelle, i giunchi e le ginestre. La brezza serale, pungente, rapiva ai rami qualche foglia. La donna si sedette, per qualche istante, su di un pietrone intrecciando, a caso, quei pochi fiori che aveva raccolto sbadatamente, con gli occhi rivolti al basso e con la testa china. Poi parve tutta intenta a legare con un filo d’erba gli steli raccolti. Al Cavaliere sembrò che alcune lacrime rigassero il volto di quella donna. Gli ultimi bagliori del tramonto facevano spiccare nel verde scuro i biondi capelli della dama, e quella luce blanda, quel gran silenzio della sera, le giovanili forme della dama, quell’aria di muto dolore, dava alla sera un incanto strano.
Bianca come un giglio, con un’ammirabile foresta di capelli di un biondo dorato, con gli occhi color pervinca, due labbra carnose, il corpo con le forme veneree racchiuso in una bianca veste, il portamento fiero e disinvolto, apparve in tal modo all’uscita del bosco Bianca di Arcidosso al cavaliere Andrea da Villafranca.
Lui non riuscì a proferire parola tanto era rimasto colpito dalla leggiadria della dama e soprattutto quegli occhi di quel colore azzurro-violaceo così strano che lo fissavano senza abbassare minimamente l’orizzonte.
“Cavaliere...?” disse la dama.
“Andrea da Villafranca, madonna, al vostro servizio” disse scendendo da cavallo.
“Cavaliere Andrea da Villafranca quale impresa vi porta in questo posto sperduto?”
“Voi, madonna”.
“Io, e perché mai”
“Ho combattuto in Terrasanta con Ruggero, il vostro sposo”.
“Sono oltre due lustri che ha sacrificato la vita per la causa …della chiesa ...e siete ...solo ora siete arrivato da là?”
“No, madonna, è trascorso del tempo...”
“Allora... che volete... Ruggero è morto... e niente lo riporterà in vita...”
La conversazione stava prendendo una brutta piega, la donna non comprendeva perché il Cavaliere aveva fatto trascorrere tanto tempo dalla morte del marito per presentarsi, e il Cavaliere, soggiogato dalla bellezza della castellana, non stava riuscendo a chiarire la sua posizione.
“È morto fra le mie braccia!”
“Che dite!”
“Sì, è morto fra le mie braccia mentre sussurrava il vostro nome e…”
“Venite… lasciate il cavallo… se ne occuperà Gualberto... venite... entrate...”
Il servitore prese le redini del cavallo e si allontanò, mentre Andrea seguì la dama nella dimora. Una gran stanza spartana lo accolse, un grande tavolo , alcune sedie, un enorme camino ad una parete, e alla destra dell’entrata un piccolo tavolo con un vaso e una miriade di fiori che davano colore alla tetra stanza.
“Sedete cavaliere e raccontate...”
“Eravamo al culmine della battaglia…” cominciò Andrea, ma lei lo interruppe.
“No, non questo adesso. Voglio sapere, da prima, dove abita vostro padre... quando siete partito… chi avete lasciato”.
Il cavaliere iniziò a raccontare la sua vita, a parlare della Terrasanta, di Adji e della sua morte, di Ruggero, delle sue sofferenze e del pellegrinare.
Il sole faceva capolino all’orizzonte quando il cavaliere cessò di raccontare la sua vita da errante e lei allora pose la sua mano su una delle sue, e gli occhi s’incontrarono di nuovo ma questa volta effondevano una ricerca di pace e di serenità.
“Fermatevi un poco con noi” disse Bianca “se non avete altre guerre da fare”.
“Se lo desiderate, rimarrò. Mi fermerò fino a quando lo vorrete… madonna”.
Trascorsero giorni sereni, felici, lunghe passeggiate sotto il sole o la pioggia, cavalcate nel bosco, e tanto conversare fra loro, e talvolta nel camminare si davano la mano, come due bambini.
Sembrava tutto andasse per il meglio, ma un giorno il cavaliere osò più di sempre e mentre erano seduti sotto una quercia, abbracciò Bianca e la baciò. Lei corrispose a questa effusione, poi si divincolò dalla stretta d’amore.
“Cavaliere...” disse, con voce tremante.
“Madonna... Bianca… le mie sono intenzioni più che serie… siete stata un raggio di luce nel buio della mia vita...”
“No... No... non posso… non potrò mai... mai... condividere la mia vita... sola... devo stare sola... non posso... non potrei soffrire di nuovo...” rispose affliggendosi e non poté andare avanti per il pianto convulso.
“Ma io... io... vi amo... siete...” e le prese una mano mettendola fra le sue, poi la portò alle labbra e la baciò.
Bianca si alzò di scatto, arrossì poi impallidì con rapidità, si mosse di un solo passo innanzi e spalancò i begli occhi, una lacrima ancora sostava sulla sua guancia “No... sola… è il mio destino..., ho deciso... ho giurato... e non voglio... andatevene via... io andrò via… in viaggio da mio padre... Addio cavaliere”.
“Un momento, un momento ancora...”
“Siate veloce… non posso trattenermi oltre…”
“Anch’io ho avuto un evento luttuoso, mi è stato ucciso anzi sacrificato un figlio che doveva ancora nascere, sono andato a combattere per terre non mie, a combattere per dimenticare ma non si dimentica con il sangue, con la violenza… la solitudine, il dolore rimangono ancora più forti di prima… l’unica arma è l’amore e poi riprovare... l’amore dà vita... colore... senso alla vita... ed io per voi…. si voi potete illuminare la mia vita... possiamo avere nuovi giorni... non fuggite da ciò che potrebbe cambiare la vostra vita, la nostra vita... non abbiate paura…”
“Addio... sola...”
“No... no promettetemi di meditare… in questo viaggio vi prego ponderate...”
“Addio… cavaliere...”
Lei era partita e lui si era rifugiato in quell’abbazia a riflettere.
...adesso era lì indifeso, disarmato, pensieroso, si sentiva distrutto, sconfitto. Si riprese dai pensieri, guardò di nuovo la porta della dimora di Bianca ed ancora nessun segno.
“Proverò ancora una volta, l’ultima, poi me ne andrò...” disse a voce alta. Toc... toc... toc… bussò. Niente. Riprovò e ancora niente. Allora fece l’atto di allontanarsi quando sentì un piccolo rumore, la porta si era socchiusa. Il cuore sembrò uscire dal suo torace mentre le gambe sembravano non reggere all’emozione di quanto stava accadendo.
Si avvicinò pian piano, poi lentamente aprì la porta della magione.
“Servo Vostro madonna” disse il Cavaliere Andrea da Villafranca.
“Entrate Cavaliere” rispose Bianca di Arcidosso “e… serrate pure la porta”.
Il cavaliere, docile, ubbidì.
Correva l’anno 1231 e Giovanni di Brienne si era fatto incoronare a Costantinopoli, col consenso di Papa Gregorio IX, imperatore latino d’oriente.
Pierluigi Macchioni Gotti macchioni.gotti@hotmail.it
(*) Marco 1,15
(**) S. Tommaso d’Aquino
(***) Matteo 28,19