La lettura del tempo artistico di Fernando Rea, ovvero la sostanza storica che è compendio di tracce, scali, diversioni, condurrebbe ad una percorrenza fitta di soste durevoli, fluide, eminenti nei loro riflessivi segnali, e di ripartenze altrettanto ragionevoli come se la corrente iniziale avesse esaurito di colpo la propria responsabilità linguistica, il suo dinamismo espressivo, lo specifico modello di conoscenza.
Un lettore sventato definirebbe allora talune esperienze – la Nuova Figurazione, la Macronatura, il Simbolismo ermetico, il Mito – delle temporalità collassate, predate in tutto e per tutto delle loro autonome densità, vuotate di ogni presumibile appendice. Come se l’artista avesse, nel tempo, navigato per arcipelaghi appartati, inconciliabili, distanti, privi di un reticolo comunicante e consumato poi, con avidità, ogni minima risorsa di quelle zone.
In verità le aree della consapevolezza espressiva di Rea hanno sempre vissuto – e vivono tuttora - una sorta di complicità consequenziale, fatta di propedeutiche relazioni o di un’intima organicità. D’altra parte la componente alchemica – quasi un durevole fenomeno di contagio - evocata da Rea quale presupposto essenziale della sua narrazione, non è figliolanza occasionale di una specifica vicenda narrativa, bensì la coscienza che la Storia, soprattutto quella artistica, è sintesi evolutiva di “modelli assunti”. È pertanto il rimescolio delle congetture – finanche di quelle già perseguite – a ricongiungere perentoriamente l’epilogo all’invadente prologo.
L’incontro con Fernando Rea cela, al di là di ogni ragionevole ed eloquente confronto sui moti dell’espressività - sulle sue consequenziali ouvertures - un variopinto mondo sotterraneo fatto di ricordanze lievi, di approcci timorosi, di ascolti mai disattesi. Forse per una conoscenza che è riepilogo permanente ed essenziale di tracce comuni, remote e presenti al contempo.
In primis il luogo. Che è memoria sotterranea, caliginosa, umida. Lo è per me innanzitutto, curiosamente nato a pochi passi da questo solido portale di castagno brunito, celato quasi dalle ombre che si danno ritrovo tra le viuzze della città vecchia, tra i saliscendi di pietra, lungo gli aliti della nebbia amica che accompagna talvolta la sera tra le braccia della notte. Non è per nulla ridicolo o irragionevole difendere questo avamposto e farne uno straordinario luogo di assemblage.
Ed è oltremodo curioso come questo – il luogo naturalmente - possa apparire, nella sua persuasiva fisicità, un ideale spartiacque temporale, magico quasi, capace di sottolineare o suggerire un inconfutabile gioco delle parti, in cui queste rielaborano, in un naturale e per nulla immaginario percorso, il senso specifico della trasmissione intesa come epidemia inevitabile, come consequenzialità di attracchi, ovvero quale riassunto dilatato del periodare. Se il portale robusto sembra aver assimilato e compreso il tragitto naturale del tempo – l’accento talvolta stancante delle ore, dei mesi, dei decenni – oltre la soglia il luogo visionario abitato da Fernando Rea restituisce invero una dilagante dimensione di contemporaneità. Viva, tangibile, autonoma, sovrapposta, impastata.
La casa di Dedalo è probabilmente la sua: nella molteplicità delle avvisaglie visive, nei reticoli di memorie occhieggianti, nella dinamica apparenza che preannuncia l’inedito alibi. Una vera e propria macchina labirintica all’interno della quale pare consumarsi l’ultimo – qualora decidessimo ancora di assecondare il tempo nella sua consolatoria direttrice – ambiguo affioramento.
Quando circa dieci anni fa Marcello Carlino, scrivendo di Fernando Rea sottolineò che “il mito è racconto ed è viaggio, pertanto”, preannunciava consapevolmente un nuovo e identificativo paragrafo della vicenda narrativa dell’artista. Il viaggio, quale cifra dinamica e inesauribile di ricerca - pendolo a ridosso di sostanze epiche, territoriali, affettive, dolorose – è l’obbligo essenziale e dotto della poetica di Rea; ovvero l’insolito volano capace di unificare, proprio attraverso la ricognizione, il senso e il volto del remoto con gli embrioni del presente.
Nella Casa di Dedalo i frammenti visivi – le opere definite e di esse una miriade di convinzioni precarie – disseminati magicamente lungo vere e proprie corsie della memoria appaiono come un robusto bagaglio mai disfatto da precedenti peregrinazioni. Un archivio di profili e ombre, di fluorescenze impenitenti, di biacche e di neri avversi, di invadenti allegrie e, al contempo, di miserevoli ostilità. C’è pertanto, al di là di un’accoglienza distintamente retinica, un approdo fatto di mille ormeggi, edificato sulla consapevolezza di essere comunque viaggiatore instancabile tra gli arenili del passato e gli incerti scali del tempo presente.
Le parole di Fernando Rea – quelle strappate generosamente all’entusiasmo della narrazione – sembrano oltremodo confermare quanto finora raccolto. Citando palesemente Delacroix e di questo sottolineando il tempo vissuto, Rea sembra finalmente giocare a carte scoperte – rischio assai grave per un magico manipolatore quale egli è - mostrando per un momento l’anima inscindibile e antesignana del suo incedere. “È stato detto tutto ma ora bisogna dirlo in un altro modo”. Probabilmente è vero. Tutto è stato detto. Non oggi, non ieri ma all’inizio della Storia. E la rinascita – non già la resurrezione incalza Rea – è un moto perpetuo di arricchimento, di fecondazione, di reiterato e salutare saccheggio.
“Sono opere – ha scritto di recente Loredana Rea, puntuale alter ego dell’artista – che vivono totalmente in quel tempo prossimo e contemporaneamente remoto”, quasi a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, il senso circolare e transitorio dell’intero racconto.
Ecco allora che il viaggio nel mito ci restituisce una nuova iconografia come se il tempo trascorso avesse alimentato – e rigenerato, naturalmente – una rivelata, inedita prospettiva gerarchica. L’immagine si apre ad una rafforzata contaminazione simbolica, la pittura offre il fianco, accogliendola forse come figliolanza riparatrice, ai segni e alle misture di una comunicazione – di una dialettica - non più rassicurante o subalterna ma invasiva, feroce, perforante. I profili solenni che restituivano all’intera struttura narrante finanche la percezione di un moto perpetuo, duraturo – quasi l’artista avesse imbarcato con sé Teseo, Dioniso, Persefone e Danae lungo le rotte del vento - mutano l’indirizzo scenico. A loro, ai suoi compagni di viaggio, Rea restituisce il volto del tempo presente. Ma non quello sociale, afflitto, disincantato, inquieto; non già lo sguardo oppresso relegato nelle periferie metropolitane, nei sobborghi scordati, nelle case della quotidianità negata. A loro attribuisce le sembianze di una immortalità – smaniosamente estetica - che è consanguinea di quella primordiale. Il mito è racconto ed è viaggio, pertanto. E appartiene esclusivamente ad una dimensione altra ma non per questo troppo distante dai sogni, dalle attese, dalle utopie. Degli uomini, naturalmente.
Rocco Zani
Giovedì 5 febbraio 2009, alle ore 18:00 a Frosinone,
presso la Villa Comunale, via Marco Tullio Cicerone,
si inaugura la personale di Fernando Rea. La casa di Dedalo,
curata da Rocco Zani.
La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Frosinone, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia e della Fondazione Umberto Mastroianni di Arpino, rimarrà aperta fino al 24 febbraio tutti i giorni (compresa la domenica) dalle ore 9:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00.
Raccoglie un nucleo importante di lavori recenti, che Rea ha realizzato a partire dal 2004 - sculture bassorilievi e digital paintings – a creare un percorso articolato capace di restituire la complessità di un linguaggio che nel mito ha trovato stimoli, suggestioni e ragioni di essere.