Le ultime notizie che ho risalgono a lunedì' 19 gennaio. Scontri fra talebani e truppe straniere nella provincia di Kapisa (circa trenta miglia a nord di Kabul), attacco aereo, 19 morti fra i talebani, 25 morti fra i civili. Di questi ultimi i comandanti statunitensi non sanno dire nulla alle agenzie di stampa: stanno vagliando, prendono la cosa molto seriamente, investigheranno. Sono gli stessi tizi che, solo nel 2007, hanno sganciato sull'Afghanistan 4.500 tonnellate di bombe cercando di centrare Osama bin Laden e mancandolo sempre. Non so se si tratti di un problema di vista o di un problema di intelligence, ma so di cosa il mio paese si è reso corresponsabile.
L'Afghanistan è oggi il paese più povero del mondo, in cui l'aspettativa di vita si aggira attorno ai quarant'anni. Solo il Burkina Faso o il Niger a volte ottengono risultati peggiori nelle classifiche. Tre decenni di guerre, un decennio di siccità. Malattie da lungo tempo debellate come tubercolosi e poliomielite sono rifiorite e stanno facendo strage di donne e bambini. Un bimbo su quattro muore prima dei cinque anni, preferibilmente di colera o diarrea (milioni di afgani non hanno accesso ad acqua potabile). Metà delle donne in età fertile finisce per morire di parto. Solo nell'area di Kabul si stimano in 60.000 i bambini che non vanno a scuola e vivono per strada, vendendo cianfrusaglie, mendicando o rubando. I talebani si mettono d'impegno anche loro, per queste creature, non c'è dubbio: dal 2005 fanno saltare in aria circa 150 scuole all'anno, specialmente se in esse si pretende di insegnare alle bambine. Secondo i dati dell'Unicef, nelle quattro province del sud sono chiuse più di metà delle scuole, 380 su 748.
Ancora un po' di numeri? L'87% delle donne riferisce di subire violenza domestica. Il 60% dei matrimoni è forzato. Il 57% delle spose hanno meno di 16 anni (età legale per contrarre matrimonio). E dato che le donne devono stare a casa, persino la moglie del presidente Karzai, che è una ginecologa del cui lavoro il suo paese avrebbe terribilmente bisogno, fa la casalinga.
Sono le “loro tradizioni”, è sempre andata così? No, basterebbe guardare le fotografie degli anni '70 e '80, non è passato poi così tanto tempo, e vedreste studentesse, impiegate, insegnanti, mediche, infermiere, avvocate e ingegnere afgane andarsene in giro vestite come preferiscono e guidare tranquillamente le loro automobili. Certo, per ottenere rispetto e diritti avevano dovuto puntare i piedi e sgomitare e resistere e urlare e persuadere, come tutte le altre donne al mondo. Invasati guerrafondai di ogni tipo in trent'anni hanno tolto loro tutto.
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E qui veniamo a Maryam. È una ragazzina di 14 anni che vive nell'Afghanistan centrale (provincia di Bamyan). Nel luglio scorso è stata stuprata da un compaesano, ma per timore di essere incarcerata, buttata fuori di casa o uccisa, non ha detto nulla. Purtroppo è rimasta incinta.
Quando attorno al sesto mese di gravidanza ciò che era accaduto è diventato evidente, la sua famiglia le ha aperto il ventre usando dei rasoi da barbiere, ha estratto il feto e lo ha seppellito vivo. L'operazione è stata ovviamente condotta senza alcuna anestesia o precauzione medica, ed è andata avanti un'ora circa, dopo di che la ragazza è stata ricucita con l'ago e il filo che c'erano in casa. Cinque giorni dopo, con le ferite infettate, in punto di morte, è stata portata all'ospedale. I familiari hanno detto che era stata morsa da un cane, ma ai medici è stato sufficiente vedere il suo corpo massacrato: «È stata macellata come un animale», ha dichiarato uno degli operatori sanitari dell'ospedale di Yakawlang, dove la ragazza è in terapia intensiva.
Come ha ripreso conoscenza Maryam ha raccontato la verità, e oggi sua madre, suo fratello ed il suo stupratore sono in custodia cautelare in attesa di processo. Dando conferma alla stampa della tragedia di Maryam, la Commissione indipendente afgana per i diritti umani ha aggiunto di essere «particolarmente preoccupata perché la natura e le tipologie della violenza contro le donne stanno peggiorando, e inoltre i casi sono aumentati rispetto allo scorso anno».
Soraya Rahim Suhbrang, membro della Commissione, è molto chiara: «Non è cultura afgana, è cultura della violenza».
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza, 24 gennaio 2009)