Ella consegnò timidamente all’amica un pacchetto avvolto da una sottilissima carta bianca, dicendole: “L’ho comprato per te, se vorrai accettarlo. Appena l’ho visto, ho pensato che sarebbe stato bene tra le tue mani”.
Poi se ne andò via, senza concederle neppure il tempo di replicare. Allora l’amica aprì l’involucro, stupita. E dalla carta bianca sottilissima si srotolò una tazza, dalla forma affusolata, che andava allargandosi lievemente verso l’alto come una corolla.
Lei la prese tra le mani e fu catturata dall’immagine che si distendeva lungo la superficie: una tenue landa verdeggiante, coperta da radi arbusti ghiacciati, su cui erano intenti a pascolare, a gruppi di due e di tre, cervi nerissimi.
Sullo sfondo, un po’ più in là dell’ultimo cervo all’orizzonte, repentine pennellate che sfumavano in curve dai colori appena adombrati ritraevano morbide colline tondeggianti. E, ancora più in là, si spalancava il placido turgore di una soffusa alba boreale, fino al profilo dorato dei bordi.
Passò le dita sulla superficie della tazza e avvertì nei polpastrelli lo strazio del bianco, le guglie scabre del gelo che scorticavano la lingua dei cervi. Il nero dei loro corpi, tesi al brucare, era l’esserci della sopravvivenza, la quiete arcana della provvidenza in letargo fra l’erba.
Il verde risorgeva dietro la brinata con vigoria inesauribile: promesse innegabili di primavera in brevi sussulti di terra. Ascoltò la lenta pazienza della mascelle dei cervi che centellinavano le radici sopravvissute, l’operosità levigante della loro saliva.
E poi confuse le sue dita nell’orizzonte come fosse seta: la curva argentata della collina lasciò vibrazioni di luce sulla sua pelle, luminescenze appena vive. E più in alto la sua mano inciampò nel tepore del rosa: il grumo splendido dell’alba, dove il sole e la luna si confondono e c’è solo il fiato del nuovo giorno e i colori non hanno ancora assunto il loro sbadiglio terreno.
Prese la tazza tra le mani e avvertì sulla linea levigata della fortuna il graffio delle lontananze: la sterminata quiescenza del cuore, dove l’incontro è l’unico punto fisso, la salda dimora. Ogni incontro è irripetibile. È l’amore a renderci nomadi. Piantiamo tende sui nostri sguardi e ci poniamo intorno al fuoco a bisbigliarci le domande ultime, le nostre assolute incertezze.
Dio c’è anche nell’innominabile.
“Amica mia, come farò quando non ci sarai più?” E mi porti l’alba in una tazza, per farmi bere d’azzurro, tu che conosci il segno della mia sete. E mi porti le distanze levigate da scorrere col dito, tu che hai visto il mio periplo tra nuvola e poesia. E mi vesti col rosa delle albe, tu che mi hai indicato il volo delle aquile e la cuna profonda della terra, dove cervi nerissimi fiutano i primi germogli.
Berrò dalla tua tazza i giorni che mancano. E la nostra lontananza sarà solo la parte mezza vuota.
Eva per Eva. “Amica mia, come farò quando non ci vedremo più?” Eva senza Eva.
Cambierò l’acqua della coppa tutti i giorni per non farla sfiorire. E rimarrà l’incanto.
Dono di Eva per Eva: un’alba da tenere tra le mani.
Tiziana Soressi