Giorno della memoria di un paio di anni fa in una scuola superiore della provincia. Gli studenti s’alternano al microfono che rimanda le loro voci ovunque. Anche chi non vuole, deve sentire. I ragazzi si limitano a leggere i nomi degli ebrei toscani deportati, e morti, nei campi di sterminio dal 1943 al 1945.
Cominciano con Elia Giuseppe Abenaim, nato a Livorno il 21 ottobre 1912, figlio di Dario ed Eminente Rosa. Coniugato. Ultima residenza nota: Genova. Arrestato nel capoluogo ligure il 2 agosto 1944. Detenuto nel carcere locale, poi trasferito a Milano, quindi nel campo di Bolzano. Deportato ad Auschwitz il 24 ottobre 1944. Matricola numero 199858. Deceduto a Mauthausen il 22 aprile 1945.
Nel grande edificio rimbombano altri sette nomi della stessa famiglia.
Non si stancano i ragazzi. Leggono da una lista lunga oltre ottocento nomi. E concludono con Susanna Ziegler, nata ad Anversa (Belgio) l’8 aprile 1917, coniugata con Joseph Ziegler. Ultima residenza nota: Firenze, dove è arrestata l’8 dicembre 1943 da italiani con tedeschi. Detenuta nel carcere locale, poi a Milano. E, il 30 gennaio 1944, deportata ad Auschwitz. Matricola non certa. Deceduta in data e luogo ignoti.
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La memoria non si consuma in un sol giorno, soprattutto quando si sentono certi rulli di tamburo che inquietano. La Shoah non può riempire discorsi, in un sol giorno, più o meno lunghi, più o meno ispirati. Neanche in Toscana. Non può per due motivi.
Il primo. La Toscana fu sconvolta da un numero elevato di eccidi fatti dai nazisti.
Il secondo. Dal 1938 al 1945 anche la Toscana fu interessata dalle persecuzioni contro gli ebrei.
Uno studio in due volumi, curato da Enzo Collotti ed edito da Carocci per conto della giunta regionale, nel 1999, dà ampia testimonianza di quel che subirono gli ebrei. Anche “Il libro della memoria”, di Liliana Picciotto, edito da Mursia, dà il suo contributo. Dimostrano quanto sia importante portare l’argomento al centro dell’attenzione dei giovami, dei ragazzi, nelle scuole. E’ storia vera, questa. Che ci tocca tutti da vicino.
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Nella quaresima del 1938, l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, invia una lettera pastorale sull’ebraismo fiorentino, che la dice lunga sulla posizione delle gerarchie in quel momento: “E qui è necessario ricordare i non pochi acattolici che abbiamo nella città e in qualche altro centro della diocesi e da cui dobbiamo tener lontani i nostri figli spirituali, perché, anche prescindendo dal pericolo di perversioni, è fuori di dubbio che i frequenti contatti con quanti non professano la nostra fede, sono generalmente dannosi alla coscienza cristiana. Vedete adunque, o sacerdoti, che i fedeli non leggano la stampa degli acattolici che si diffonde con tanta intensità: che i nostri fanciulli non frequentino compagnie d’altra fede”.
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Il 20 agosto 1938, Vittorio Pisa, 32 anni, sposato, una figlia, procuratore legale fiorentino, ex ufficiale dell’esercito italiano, appartenente a una famiglia di commercianti, è a Compiobbi, in uno dei poderi ereditati dal padre.
Prende un quadernetto di scuola, a righe, che chiamerà non diario ma “ricettacolo di pensieri”, e fa la prima annotazione.
Scrive: “Ha inizio questo quaderno con presagi poco lieti: mi sento così stanco e scosso, che mi impressiona non poco il vedermi così: mi sembra l’aria impregnata di veleno, sprizzante dai giornali, ormai battenti la grancassa dell’argomento prediletto: ebrei”.
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Il 3 settembre 1938, la prima pagina di un quotidiano fiorentino non lascia dubbi su quel che sta accadendo agli ebrei. Con un titolo a tutta pagina (otto colonne), annuncia le deliberazioni del consiglio dei ministri: “Insegnanti e alunni giudei eliminati dalla scuola fascista”. Il catenaccio: “L’appartenenza alle Accademie, Istituti e Associazioni di Scienze, Lettere e Arti inibita alle persone di razza ebraica”.
All’Università di Firenze vengono espulsi trentanove insegnanti di vario livello. Per gli studenti, non esistono dati sicuri, ma è noto che numerosi giovani sono costretti ad abbandonare, anche chi è alla vigilia della laurea.
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In ottobre, Vittorio Pisa torna a Firenze. La moglie Luciana e la figlia Roberta hanno raggiunto Genova, ritenendola più tranquilla.
Scrive, il 25 ottobre: “E’ necessario farsi forza. Mettere in pratica il pensiero di dover vivere ora per ora. E’ giocoforza fare così”.
E il 22 novembre: “Chi sono? Dicono ora: un giudeo, adoperando in modo triviale un termine tanto stolto quanto vano. Se per religione, sono israelita, è nascita e non me ne dolgo. Se per razza (oh! la parola scabrosa e sdrucciolevole) niente in contrario ad affermare che non sono giapponese, non moro, non indiano, e non ariano (che vorrà dire?), appartengo alla razza che si dice ebraica”.
E nel 1939: “Ecco il 1939. Non più italiani, se non mussoliniani, non più uomini, per somma disgrazia. Perché l’uomo non deve vegetare, deve vivere e vivere non è questo”.
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Febbraio 1939. L’arcivescovo di Firenze si rivolge nuovamente a sacerdoti e fedeli con un’altra lettera molto dura. Vuole mettere a tacere il dissenso. Afferma: “Quanto agli ebrei niuno può dimenticare l’opera esiziale che essi hanno spesso svolto non solamente contro lo spirito della Chiesa, ma anche a danno della convivenza civile”. E ancora: “… la Chiesa in ogni tempo ha giudicata la convivenza con gli ebrei pericolosa alla Fede e alla tranquillità del popolo cristiano”.
Non basta: “La Chiesa tratta gli ebrei come gli eretici e gli scismatici di qualunque genere: anche questi vuole che per quanto possibile siano isolati dai cattolici; disapprova che questi contraggano con essi matrimonio, abbiano a coabitare con loro a ad affidare a essi l’educazione dei loro figli”.
In seguito, sostengono alcuni, tenterà di cancellare le parole pronunciate contro gli ebrei cercando loro rifugi sicuri.
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Nel maggio 1940, il ministero dell’Interno scrive ai prefetti per chiedere le liste degli ebrei, italiani e stranieri, da considerarsi pericolosi.
Le risposte non si fanno attendere. E qualche prefetto, come quello di Grosseto, si mostra efficiente e arriva a segnalare anche ebrei originari della provincia e trasferitisi in altre.
Di una donna di Pitigliano, scrive: “E’ nubile, figlia di un commerciante di tessuti ed è prettamente di razza semita (…) Intelligentissima, scaltra (…), non manca di una certa loquacità. Per questa sua scaltrezza ed abilità si ritiene possa diventare pericolosa in caso d’emergenza”.
Secondo il prefetto di Livorno, Aristide dello Strologo, 79 anni, deve essere internato perché “appartenente alla razza ebraica, oppositore del regime e massone, a seguito dei provvedimenti razziali, ha subdolamente e con circospezione svolto sempre opera denigratoria per il Regime”.
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I campi di concentramento sono due: a Villa La Selva (Bagno a Ripoli) e a Villa Oliveto (Civitella della Chiana). Numerosi quelli d’internamento.
Provincia di Firenze: Fiesole, Firenzuola, Greve, Pelago, Pontassieve, Reggello, Romola, San Casciano Val di Pesa.
Provincia d’Arezzo: Castiuglion Fiorentino, Cortona, Forano della Chiana, La Verna, Lucignano, Monte San Savino, Arezzo, Bibbiena, Terranova Bracciolini.
Provincia di Siena: Asciano, Montalcino, Castellina in Chianti, Colle Val d’Elsa, Murlo, Montepulciano, Poggibonsi, San Casciano dei Bagni, Sartiano, Sinalunga.
Provincia di Livorno: Campiglia Marittima, Cecina, Collesalvetti, Rosignano Marittimo, Sassetta.
Provincia di Lucca: Altopascio, Bagni di Lucca, Castelnuovo Garfagnana.
Provincia di Pistoia: Agliana, Lamporecchio, Larciano, Prunetta, Serravalle Pistoiese.
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Gli ebrei vengono internati e privati dei loro beni. Ma quanti sono? Nel 1938, il censimento ne accerta in Toscana 5.931. Il numero maggiore a Livorno (2.332), seguito da Firenze (2.326), Pisa (416), Lucca (315), Siena (219), Apuania (78), Pistoia (62), Arezzo (34).
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Nei campi di concentramento e d’internamento la vita è al limite. Un partigiano di Cortona parla di gente abbandonata a se stessa, sorvegliata continuamente dai fascisti, priva di medicinali e di viveri. Gente che vive con l’incubo della deportazione in Germania. E alcuni non si salvano. Il 5 febbraio 1944, soldati tedeschi prendono gli internati a Villa Oliveto, li portano a Firenze e di qui, con un carro bestiame, a Fossoli. Da Fossoli a Bergen Belsen, dove rimangono quattro mesi.
A Foiano della Chiana e Cortona, invece, non pochi vengono messi in salvo e prendono la strada della montagna, con i partigiani.
I deportati toscani, secondo Liliana Picciotto, sarebbero trecentodue fiorentini, ventotto aretini, diciassette senesi, trentaquattro grossetani, trentatre livornesi, centootto lucchesi, sedici pisani e settantasette pistoiesi. E sedici sarebbero finiti ad Auschwitz.
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Vittorio Pisa, nel dicembre 1943, si è rifugiato in Valdinievole. “Nel mio animo – scrive – si agitano tanti sentimenti, specie sentendo progetti di Svizzera. Ma è certo che non si campa più”. E l’8 luglio 1944: “Ogni giorno che passa è un giorno di più coi nazifascismi”. E l’11 luglio: “I nostri sogni di rinascita, perché si abbia a uscire fuori dai pericoli delle deportazioni e delle fucilazioni, di rinascita, perché si deve tornare a essere uomini tra gli uomini, si infrangono contro la resistenza delle armi tedesche”.
Ma l’11 agosto Firenze viene liberata e Vittorio Pisa può scrivere pieno d’entusiasmo: “Dio mio ti ringrazio. I tradizionali nemici, la cappa di piombo, i teutoni se ne sono stanotte andati. Aria purificata si assorba nei nostri polmoni! La notizia è cominciata a trapelare stanotte con il brusio caratteristico dei grandi avvenimenti. Di casa in casa si è cominciato a parlare che se ne erano andati. Si cominciava a respirare di altro respiro”.
Via da Firenze, ma non dalla Valdinievole, appena lasciata da Pisa, e dove l’esercito tedesco si macchia di un altro eccidio (175 vittime, tra bambini, donne e vecchi), prima di attestarsi sulla Linea Gotica.
Il 19 maggio 1945, Vittorio Pisa – iscritto, finalmente, nell’albo degli avvocati – può riprendere la sua professione a Firenze, senza dimenticare i poderi a Compiobbi. Professa idee liberali. Morirà a Firenze nel 1976.
Riccardo Cardellicchio