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Maria G. Di Rienzo. Il dolore degli altri
20 Gennaio 2009
 

La mattina del 12 novembre 2008, a Mirwais (periferia di Kandahar), Afghanistan. Shamsia Husseini, 17 anni, e sua sorella minore stanno andando a scuola. Ci vanno insaccate nel burqa, non perché gli piaccia, o perché lo considerino un precetto religioso o un'onorevole tradizione eccetera, ci vanno in burqa perché le minacce alle donne che non vogliono indossarlo stanno persino appese ai muri. Una volta a scuola se lo toglieranno, chi mai può leggere bene da un libro o dalla lavagna con una grata davanti agli occhi.

Un uomo in motocicletta affianca le due sorelle. «State andando a scuola?», chiede loro. Le ragazze rispondono di sì. A questo punto l'uomo ferma la moto, sfila il burqa di dosso a Shamsia tirandolo per il cappuccio e le lancia in faccia dell'acido. Lo stesso giorno, altre quindici donne della stessa scuola, insegnanti e studentesse, subiranno il medesimo trattamento (compresa la sorella di Shamsia, la quattordicenne Atifa): la scuola fu infatti circondata dalla squadra di pii motociclisti di cui faceva parte l'assalitore delle due ragazze.

Oggi il viso di Shamsia è coperto da cicatrici e pelle morta, soprattutto dalla parte sinistra, dove una gran macchia scura le copre tutta la guancia.

I suoi occhi non ci vedono più tanto bene, le si offuscano di continuo. Non ha più bisogno del cappuccio per essere mezza cieca. Eppure, oggi, la fanciulla è a scuola, assieme alle altre undici studentesse e alle quattro insegnanti che furono assalite con l'acido. Tutte si sono riprese. Tutte sono tornate. La scuola, che si chiama Scuola femminile Mirwais, conta 1.300 studentesse, oggi. Molte camminano per 2 o 3 chilometri ogni giorno dalle loro case di fango in mezzo alle colline, pur di assistere alle lezioni.

«I miei genitori vogliono che io abbia un'istruzione. Mia madre non sa né leggere né scrivere», racconta Shamsia. «Chi mi ha fatto questo non vuole che le donne vengano istruite. Vogliono che noi si sia stupide, ignoranti».

«Non capisco perché le ragazze dovrebbero buttar via le loro vite stando sedute in disparte», aggiunge Sekhi, uno zio di Shamsia. I medici hanno detto alla ragazza che solo la chirurgia plastica potrebbe cancellarle i segni dal viso, ma Shamsia neppure è in grado di pensarci. Il suo villaggio non ha né acqua corrente né elettricità, e suo padre è disabile. Sarebbe bello se almeno ci fossero i marciapiedi sulla strada per la scuola, dicono le sue compagne. E l'autobus, la preside lo ha chiesto alle autorità locali. A vederla mentre scherza e ride con le altre ragazze si direbbe che Shamsia non sia neppure conscia dell'essere sfigurata. Ma le cose cambiano quando le si chiede di ricordare: «Chi mi ha fatto questo non sente il dolore degli altri».

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, 20 gennaio 2009)


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