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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. IX
17 Gennaio 2009
 

90.

Chiara s’avvicina alla mia scrivania. Dice: “Mi ha chiamato la polizia. Vogliono che vada a dare un’occhiata ad alcuni tizi, gente rimasta in una retata. Gente violenta. Fascistoni”.

“Pensano che siano i tuoi aggressori?”

“Hai detto bene: pensano”. Sorride.

“Quando vai?”

“Subito”.

“T’accompagno”.

“Non hai da fare?”

“Ho da fare un pezzo che non scappa. Per me, oggi, è giornata fiacca. C’influisce anche il caldo”.

“Vedo che ogni tanto guardi le agenzie. Cosa ti preoccupa?”

La Polonia”.

“Preoccupa tutti. Ho sentito Bilenchi parlarne al telefono. Diceva che quel che accade è una buona cosa. Ma ho avuto l’impressione che dall’altra parte del telefono, chiunque ci fosse, non la si pensava allo stesso modo”.

Scruta i tizi, Chiara. Ma non vi riconosce i suoi aggressori”.

”Mi dispiace”, dice un ispettore.

“Lo sapevo – dice Chiara, una volta fuori, sul marciapiede – Secondo me, fanno per far vedere che se ne occupano. Tra qualche giorno, il silenzio. Come con la morte della Volpe”.

 

91.

E’ una strana estate.

Bilenchi è pallido. Parla a voce bassa.

Siamo tutti intorno a lui.

La Polonia è il soggetto. I fatti di Poznan sono il soggetto.

Bilenchi legge il suo editoriale. E’ l’editoriale di un comunista addolorato, deluso, indignato.

Chi è d’accordo? La redazione si divide.

Ho la morte nel cuore. Comunisti contro comunisti.

Bilenchi ha scritto, tra l’altro: “I morti di Poznan sono morti nostri. Intendete che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che anch’essi sono caduti sulla via che porta ad una società più giusta e più libera”.

Sono insorti gli operai.

Segno mentalmente il giorno: 28 giugno.

“Mi aspetto il peggio”, dice Chiara.

E arriva, il peggio. Puntuale. Bilenchi e Il Nuovo Corriere finiscono sotto processo.

Come hanno osato. L’apparato politico – da Roma a Firenze – non accetta discussioni.

Non fa una piega.

 

92.

”Traditore”, mi sento dire.

Una pugnalata.

Bilenchi allarga le braccia quando gliela riferisco. “Tu sapessi cosa dicono di me. Mi trattano come una pezza da piedi”.

“Mi sembra di capire che è iniziato il si salvi chi può”, dico.

“Già. Anche perché Roma ha deciso di chiudere il giornale. Il pretesto è che sta accumulando troppi debiti”.

“Che vigliaccata”.

“Sì. Pensa te: Mattei dell’Eni s’è impegnato a investire nel giornale, per risanare il bilancio, con una campagna pubblicitaria. Niente. No deciso”.

“Diobòno”.

“Sàlvati”.

“Non ho àncore. Lo sai”.

“Cerca aiuto da La Pira”.

“Figurati. Lui potrebbe anche adoperarsi. Ma chi è disposto ad aprire la porta a un giornalista del Nuovo Corriere? Piuttosto salviamo Chiara. Lei non è colpevole di niente, se mai c’è un colpevole in questo giornale”.

Bilenchi mi guarda. “Se credere nella libertà, nella democrazia, nel progresso della società, che è progresso dell’uomo, nella difesa della sua dignità contro il sopruso: se credere in tutto questo vuole dire essere colpevole, bene io sono colpevole che di più non si può. Profondamente, inguaribilmente colpevole”.

 

93.

Siamo sdraiati, Chiara e io, a occhi spalancati.

Non parliamo. Lei tiene una mia mano sul cuore. Dalla strada arrivano rumori attutiti. Il tram. Una voce. La risata, seguita da un moccolo, di un ubriaco.

Quando filtra la prima luce, Chiara si mette a sedere sul letto e si prende il volto tra le mani. “Stento a credere che abbiano potuto tanto”, sussurra. Il 7 agosto è uscito l’ultimo numero del Nuovo Corriere. “Che faremo?”, chiede.

“Non lo so. Mi hanno chiamato traditore. Non penso che sul fronte del partito qualcuno sia disposto a tendermi una mano. Non si rendono conto. Non capiscono la gravità della decisione. E’ uno strappo doloroso. Ferita profonda in numerosi compagni. Per te, Chiara, sarà diverso. Nessuno ce l’ha con te”.

“Ne sei sicuro? Io ho un gran difetto per i burocrati: sono la tua compagna, la tua amichetta, la tua amante. Dormiamo insieme”.

 

94.

A Chiara arriva una proposta. “Mi hanno chiesto se mi va d’andare a Roma, a Il Paese o a Paese Sera. Posso scegliere”.

“Meno male”, dico.

“Come meno male?”

“Non rimani disoccupata”.

“Ma devo lasciare Firenze”.

“E’ il male minore”.

“E te? E te e io?”

“E’ l’aspetto negativo. Ma ci organizzeremo per stare insieme”.

“Devo lasciare la mia cuccia, la nostra cuccia”.

“Starai da me quando verrai a Firenze”.

“Mi sembra d’essere egoista accettando. Come faccio a lasciarti a Firenze senza lavoro?”

“Non sei egoista. Sei saggia. Approfitti d’una buona occasione. Non devi pensare a me”.

 

95.

Parte, Chiara. E aumenta la mia solitudine. E’ difficile la giornata senza giornale. Mi chiedo se non sia il caso di lasciare Firenze e ritirarmi dai miei. Non navigo nell’oro. Quanto posso andare avanti?

 

96.

Mi chiama Bilenchi. Lo raggiungo a casa sua.

“Ti ha cercato nessuno?”

“No”..

“So che Chiara è andata a Roma”.

“Sì, ha scelto Paese Sera, il giornale del pomeriggio. Torna a fare la nera”.

“Sono contento per lei. E mi dispiace per te”.

“E te, direttore?”

“Io? Il silenzio. Un silenzio assordante”.

 

97.

Chiara mi telefona contenta. “C’è da fare. C’è da stare con gli occhi molto aperti. E gli orecchi. Ci sono marpioni in circolazione. Quanti ce ne sono”.

“Hai trovato un  buon alloggio?”

“Sì, insieme con una collega. Dividiamo le spese. Non è male. Anche se è un po’ in periferia. Ma sai cosa m’è saltata addosso?”

“Cosa?”

“La voglia di comprarmi una macchina, una 600. Le vendono a rate. E sembra che mio padre sia disposto a darmi i soldi dell’anticipo”.

“Accidenti, ti fai la macchina”.

Tace. Poi. “Scusami, non volevo. Non ho pensato a te. Perdonami”.

“Che c’entro io? Mica ti finisce la vita perché io sono disoccupato?”

“Non hai contatti?”

“Ti rispondo con quel che mi ha detto Bilenchi: un silenzio assordante”.

 

98.

 Chiedo al padrone di casa se può avere pazienza qualche giorno. Conosce la mia situazione ed è una brava persona.

In San Lorenzo vado una sola volta per il pranzo. La sera me la cavo con un caffè e latte e un po’ di pane abbrustolito su cui spalmo burro e marmellata di albicocche o di ciliegie.

 

99.

Bilenchi mi fa sapere che si rifugia nella terza pagina della Nazione. Deve pur vivere.

Anch’io devo pur vivere. E’ un lunedì quando mi presento in Palazzo Vecchio, alla segreteria di La Pira. Non ho appuntamento. Ho passato una domenica terribile. Ho cercato di trascorre il tempo leggendo. E la notte è stata peggio. Allora ho preso la decisione. Vado a trovare La Pira con un pretesto che è un po’ di tempo che non lo vedo.

La Pira m’accoglie con un  bel sorriso. “Finalmente, - dice – Erano giorni che chiedevo di lei. Nessuno che mi sapesse dire dove trovarla”.

“Chiuso il giornale, sto molto in casa. E non tutti sanno il numero di telefono. La segreteria conosceva quello del giornale”.

“So che la sua fidanzata ha trovato una buona soluzione a Roma”.

“Sì. Mi ha telefonato che si trova bene”.

“E lei?”

“Sono disoccupato”.

“Nessuna prospettiva?”

“Nessuna prospettiva”.

“Si sono dimenticati di lei?”

“Penso di sì. Come Bilenchi”.

“So che Bilenchi va alla Nazione, a curare la terza pagina”.

“Me l’ha detto. Sono contento. Uno come lui, un giornalista e scrittore con le sue qualità, non può essere lasciato a casa. Ad ammuffire”.

“Anche lei non può essere lasciato ad ammuffire”.

“Io sono uno dei tanti”.

“Lo dice lei. Lei è un giornalista onesto, attaccato al suo lavoro, alla sua professione. Non è un uomo di partito. Certo, ha le sue idee politiche, ma questo non  le impedisce d’agire da testimone. Come deve essere un giornalista che tiene a essere un vero giornalista, non un propagandista”.

“La ringrazio. Ma non è che con questo vada molto lontano. Si vede che oggi, a Firenze, non c’è bisogno di un giornalista di questo tipo”.

“Proviamo a fare una verifica”. Si sistema alla scrivania, prende un foglio intestato e la penna stilografica. Scrive per una decina di minuti. I fogli, alla fine, sono tre. Li rilegge. Si ritiene soddisfatto. Li mette in una busta che chiude bene. E sopra scrive: per il dottor Ettore Bernabei, direttore del Giornale del Mattino. Dice: “ Da qualche giorno non è più direttore del Giornale del Mattina, l’hanno chiamato a Roma a dirigere Il Popolo, quotidiano della Dc. Vada a casa sua”. Mi dà l’indirizzo. “Ci vada nel pomeriggio, verso le cinque. A quell’ora, lo trova”.

“Non so come ringraziarla”.

“Aspetti a farlo”.

 

100.

Ettore Bernabei, direttore dal 1951, ha fatto del Giornale del Mattino quello che è stato Il Nuovo Corriere per il mondo laico. Due bei giornali da leggere dalla prima all’ultima pagina.

Bernabei non può dire di no a La Pira. Si considera suo allievo. Eppoi, confessa, ha imparato ad apprezzarmi leggendo le interviste con La Pira e gli articoli, che ha sempre giudicato non partigiani. “Lo sai che non sono più direttore, che devo andare a Roma, vero?. Ma vediamo cosa si può fare. Avevo una necessità. L’ho lasciata scritta al nuovo direttore Arturo Chiodi. Può essere una soluzione. Non è la migliore. Però intanto servirebbe per cominciare. C’è bisogno di uno nella redazione di Grosseto”.

“Va bene”, dico. Non posso fare lo schizzinoso, vista la mia condizione. Poi convengo che è più facile incontrarci, Chiara e io, e la soluzione mi sembra meno accia.

“Vai da Chiodi, domani. Lo avverto”.

Vado da Chiodi, il giorno dopo. Non mi fa una grande impressione. Viene da Milano, dove ha diretto l’edizione locale di Il Popolo.

“Avverto il caposervizio – dice -. Intanto prenditi qualche giorno per ambientarti e per trovare casa. Un mese te lo pago io, in albergo. Avresti diritto a di più, ma penso non vi siano problemi”.

“Non ce ne sono. Grazie. Grazie di cuore”.

Vado a ringraziare La Pira. “Vedrà, - dice - non starà tanto in provincia. La voglio qui, con me. Ormai avevo fatto l’abitudine alla sua presenza quotidiana, alle sue domande spesso indiscrete”. Sorride.

 

101.

Chiara grida dalla gioia. “Finalmente”.

Mi sento bene anch’io. Posso contare su uno stipendio e rimanere nella professione. E’ ciò che mi fa sopportare il peso di lasciare Firenze.

Lascio anche la stanza, che ho occupato volentieri per diversi anni. Quando consegno le chiavi al proprietario, saldando il conto in sospeso, sono commosso. Tossisco più volte. Cerco di darmi un contegno. Non sono un buon attore.

Saluto anche al ristorante, in San Lorenzo.

“Spero di rivedervi presto”, dico E’ una sorta d’augurio che mi dà forza, la forza di salire sul treno, trascinando due valige pese spiombate. Vestiti e libri mischiati.

 

102.

Scopro la Maremma tra nebbie e piogge di un anno, il 1956, che vuole fare il cattivo fino all’ultimo. Mi tuffo, senza supponenza, nella piccola cronaca. E’ una realtà di grandi disagi, di povertà. L’Ente Maremma dominante. Numerose famiglie sono arrivate con la speranza di una vita meno avara. Le distese di campi, rari gli alberi, impressionano. Mi dànno un senso di libertà ampio. Infinito.

Il Giornale del Mattino è quello che vende di meno. Ha di fronte concorrenti La Nazione e Il Telegrafo. Quest’ultimo, sulla Costa, cerca di non cedere spazi a nessuno. Anche se non sempre ci riesce, perché manca di collegamenti fiorentini e romani. Affidarsi all’Ansa non è vincente. Economico, sì. Ma i giornali si vendono se stai sulla notizia, e ci stai con professionalità, il gusto di scoprire la verità e testimoniarla con una scrittura semplice, pulita. Chi sostiene che con duecento parole non si fa un bell’articolo, sbaglia.

 

103

Dopo la Polonia, l’Ungheria. Leggo avidamente. Il presidente Nagy ha costituito un nuovo governo.  Che chiede il ritiro delle truppe sovietiche. Chiara al telefono è sconvolta. “Fa le cose giuste”, dice.

“Certo”, dico - Ma quanti siamo a pensarla così?

“Pensi che Mosca accetti la nuova situazione?”

“Non credo voglia perdere un Paese importante come l’Ungheria”.

“E’ la mia paura”.

Piove.

L’intervento militare dell’Unione Sovietica è senza appelli. La reazione del popolo non manca. Ma è poca cosa di fronte allo spiegamento dell’esercito sovietico.

Un massacro. Di uomini e di coscienze.

Al posto di Nagy, i russi mettono Kadar. Che è un’altra cosa. L’Ungheria torna alla normalità sotto lo sguardo attento dei sovietici.

 

104.

Mi telefona Bilenchi. L’avevo informato subito del posto ottenuto. S’era detto contento, anche se meriterei di più. L’avevo ringraziato, per telefono e con una lettera, in cui lo innalzavo – giustamente – a mio maestro. E non solo mio: di tutti quelli che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui.

Dice due cose che mi rattristano.

“Lascio il Pci”.

“A causa dei fatti d’Ungheria?”

“La gente lo pensa”.

“Per la chiusura del Nuovo Corriere?”

“C’è chi mi rimprovera che nell’ultimo numero del giornale, tra i ringraziamenti, ho dimenticato il Pci. Una svista. Ma, se ci penso bene, quella morte è stata causata da uno scontro feroce all’interno del Pci. L’ha ammesso anche Togliatti. E questo fa giustizia di tutte le chiacchiere, di tutte le voci sballate sui costi elevati, sui finanziamenti occulti e chi più ne ha più ne metta. La verità è che da un giorno all’altro, per motivi politici non chiari, fior di giornalisti si sono trovati con il culo per terra. Sì, qualcuno è stato recuperato, ma la maggior parte ha dovuto aggrapparsi a tutto pur di non affogare. A Togliatti ho detto chiaro e tondo: ma che concetto si ha degli uomini? Ecco, mi dimetto perché sono stato trattato,e con me tanti altri colleghi, bestialmente. Questo volevo dirti. E un’altra cosa voglio dirti, se non la sai già, visto che lavori in un giornale a lui vicino, anche se stai in provincia. Non si sta mettendo bene per La Pira. Passa da un agguato all’altro. Pistelli non ce la fa a pararli tutti”.

Vado a Roma due giorni – un sabato e una domenica. Sono mesi che non vediamo l’ora d’incontrarci, Chiara e io.

La trovo pallida, dimagrita, afflitta da un mal di testa feroce.

Vuole che facciamo l’amore.

“Non sono venuto per sfogarmi”.

“Io ti voglio”, dice.

E facciamo l’amore.

La notte è agitata. Parla nel sonno.

La sveglio preoccupato. “Che c’è che non va?”

“Niente”, risponde.

“E’ il lavoro?”, chiedo

“E’ un lavoro stupendo, che mi prende”.

“Allora che altro c’è?”

“Niente. Ti giuro”.

“Ti sei fatta vedere? Fai i controlli?”

“Sì, sì, stai tranquillo”.

“Ti vedo pallida, dimagrita, inquieta”.

“Stanchezza. La stanchezza che non ammazza”.

Passiamo la domenica in giro per Roma con la sua 600. Guida bene.

“Avevi già la patente?”

“Presa appena maggiorenne su consiglio di mio padre. E’ uno che dice spesso: un  si sa mai”. Ride.

Mi fa bene vederla ridere.

 

105..

Non è uno scherzo l’articolo di Pistelli su Politica, il 1° aprile 1957. E’ una grande difesa di La Pira, definito, ancora una volta, testimonianza cristiana,. E uno atto d’accusa nei confronti dei partiti, senza dimenticare stilettate verso un certo clero. “L’uomo che accendeva la sensibilità dei cattolici ai problemi della morale pubblica e la metteva in urto con le strutture liberali del Paese, assumeva il compito di erodere il costume di inavvertita assuefazione all’ordine borghese introdotto nei credenti dalla tradizione clerico moderata”. La Pira un semplice fatto caritativo come vanno sostenendo alcuni ambienti della sinistra?. No. “Noi abbiamo sempre sostenuto che requisire le ville disabitate o impedire la smobilitazione delle fabbriche non aveva il solo merito di venire incontro al bisogno immediato delle famiglie sfrattate e degli operai licenziati, ma prendeva anzitutto il significato di riaffermare che la validità delle forme economiche deve risultare vera a misura d’uomo”. “La Pira – sottolinea Pistelli – è una figura a dimensione almeno nazionale e quanto accade in Palazzo Vecchio interessa milioni di cattolici che all’azione politica del sindaco di Firenze vorrebbero ispirata l’intera Democrazia Cristiana”.

Ma in Palazzo Vecchio ci sono troppi intrighi, e La Pira cade il 26 aprile.

Mi sento svuotato.

Cerco Chiara. Non la trovo. Vorrei sfogarmi con lei. Come si può andare avanti così? Non ci sono valori che tengano. Tiene solo il tornaconto del proprio orto, piccolo e o grande che sia.

Arriva il commissario Lorenzo Salazar.

Pistelli afferma che si deve andare alle elezioni entro novembre. I partiti devono fare uno sforzo. Se non  lo fanno, le sorti di Firenze si congeleranno nelle mani del commissario anche per tutto il 1958.

Non c’è verso. I partiti si guardano in cagnesco. Temono agguati.

E Firenze rimane senza governo.

 

106.

Chiara viene a trovarmi a Grosseto. Non è che la veda meglio. Si sforza di sorridere, d’essere allegra.

“Non me la racconti giusta”, dico.

“Sei come mio padre. Ma lui me lo dice per un altro argomento, per il nostro rapporto. Mi chiede in continuazione se non ci tengo a essere moglie e madre come tutte le donne. E si meraviglia che te, persona che stima, accetti una situazione del genere”.

“Cambi discorso”.

“Non cambio discorso. Per quanto mi riguarda, non ci sono problemi. E’ chiaro che fare la cronista di nera a Roma non è come farlo a Firenze, per di più per un giornale del pomeriggio. Sono levatacce e devi correre per trovare la notizia che faccia titolo strillato”.

“Cambia settore”.

“E’ il migliore per un giornale della sera”.

Le piace la mia sistemazione. Somiglia molto a quella di Firenze. E’ in un condominio fuori le mura, verso il Sacro Cuore.

“Sono venuta in macchina”, dice. “Possiamo girare un po’”.

“Non è il tempo adatto”, dico. E lei mi guarda maliziosa. Invitante.

 

107.

Non ce la faccio a passare le feste di fine anno con Chiara. S’è ammalato il caposervizio. Un rene si è messo a fare le bizze e l’altro l’ha scassato da tempo. E’ uno che non si risparmia a tavola. Meglio dire che non si risparmiava.

Chiodi mi chiama per dire che ora la redazione è nelle mie mani. E, per tappare il buco aperto con la malattia del capo, mi manda una collega, un’esperta. La dirotta dalla redazione di Livorno.”E’ una brava. Un po’ scorbutica, ma lo è per timidezza. Te lo garantisco”, dice.

Ne parlo con il redattore che segue lo sport, un paio di collaboratori e il fotografo, un operaio che arrotonda.

Nessuno obietta.

 

108.

La telefonata arriva nella notte. Mi sveglio di soprassalto. “Accidenti”. Penso a lavoro straordinario per un fatto grave. E’ una voce di donna. Parla piano, voce rotta dal pianto.

“Chi parla?”, chiedo preoccupato. “Chi parla?”

“Sono Alina, la sorella di Chiara.

“Alina, sì. Che è successo?” Non risponde. “Che è successo?”

Quasi urla: “E’ morta. E’ morta”.

“Chi è morta?”

“E’ morta. E’ morta Chiara”.

“Chiara? Non è possibile. L’ho sentita stamattina… ieri… poche ore fa. Non può essere. Non è vero”.

Riesce a riacquistare un po’ di calma. “E’ successo all’improvviso. Parto per Roma. Partiamo per Roma. Hanno telefonato poco fa dall’ospedale. Un aneurisma alla testa. Un aneurisma”.

“Vengo anch’io – dico - Vengo anch’io. In treno. No, con un taxi. Con qualche mezzo”.

 

109.

Arrivo in taxi.

Li trovo tutti e tre, i genitori e Alina. L’hanno già sistemata nella stanza mortuaria.

Non posso guardarla. E’ terribile.

Piangono con dignità tutt’e tre.

Alina m’informa che ha parlato con i medici. “Era condannata. Lei sapeva d’avere un  aneurisma inoperabile. Se l’è tenuto per sé. Non ha voluto informarci e informarti. L’ha scoperto a Roma, per via dei continui mal di testa. Ha fatto gli esami. Il responso è stato terribile”.

“L’hanno ammazzata”, dico. “L’hanno ammazzata”, ripeto.

“Pensi all’aggressione, alle botte ricevute in testa? Gliel’ho detto, al medico, e lui ha risposto che è possibile”.

Ho bisogno di piangere. Entro nel gabinetto e piango, soffocato dai ricordi.

 

110.

Chiodi, Bernabei, Bilenchi, La Pira, vecchi colleghi del Nuovo Corriere e quelli del Giornale del Mattino, e altri, mi chiamano o m’inviano telegrammi. Un mare di parole, che aumentano la mia tristezza.

Sto per alzare bandiera bianca, chiamarmi fuori, quando entra nella mia stanza, in redazione, la collega che ha mandato Chiodi. Si chiama Barbara. Mi si mette dietro, alle spalle, e legge quel che ho scritto. Con un gesto veloce toglie il foglio dal rullo della macchina per scrivere e lo appallottola. “Da te non mi aspetto una risposta del genere”, dice.

“Non mi sento più. Non ce la faccio più”.

“Sai quante volte l’ho detto. Ma non ho mollato. Non mi sono mai dimessa”.

“Non me ne va bene una”.

“Primo: non piangerti addosso. Comincia a reagire, a dimostrare che sei un uomo. Non è finito tutto”.

“La fine viene con la morte”.

“La fine viene con la morte? Non ne sono sicura. Io sostengo che dalla morte può arrivare la vita. Forse più consapevole”. Sospira mettendomi una mano sulla spalla destra. “Abbiamo da portare avanti un incarico niente male. Dobbiamo conquistare lettori in una terra difficile per il nostro giornale. E ti dò una novità. La Pira si rimette in gioco. Lo candidano al Parlamento. Ha sette vite come i gatti”.

 

111.

Barbara ha avuto la meglio. Mi ha portato a casa sua e m’ha messo davanti un piatto di minestra. “Non si campa di spirito santo. Forse La Pira, ma noi no”. Ride.

E’ una donna risoluta. Una bella donna, più vecchia di me almeno cinque anni. Ha avuto un marito, che l’ha lasciata per un’altra donna, una casalinga. Ha avuto anche un’altra storia breve, insignificante con un collega. “Un  pidocchio”, dice.

Tanti giornalisti e collaboratori bravi, di nome, hanno abbandonato il Gornale del Mattino. Chiodi non è un buon direttore.

Meno male che se lo levano di torno e gli subentra Hombert Bianchi.

 

112.

La Dc è salita al 42,3 per cento. La sua campagna elettorale è stata all’insegna del progresso senza avventure. Il Pci ha consolidato la sua posizione. Le previsioni lo davano in affanno. Il Psi è aumentato e, per alcuni, è un incoraggiamento a dialogare con i cattolici.

La Pira è stato eletto deputato. Lo rintraccio e mi congratulo. Dice: “Non abbandono Firenze. Sto preparando un colloquio mediterraneo sulla pace”, dice.

A giugno Imre Nagy viene giustiziato insieme ad altri dirigenti, colpevoli – secondo Mosca – d’avere ispirato la rivolta degli ungheresi contro l’invasione sovietica.

Ci sono poteste in tutt’Italia. E mi fa male sentire Pietro Ingrao giustificare, alla Camera, le esecuzioni, sostenendo che sono nella logica della contrapposizione tra Est e Ovest.

 

113.

Ogni tanto, da Grosseto raggiungo Siena, per passare un’ora davanti alla tomba di Chiara. Le prime volte le ho parlato, le ho raccontato il bene e il male della redazione. Poi ho scelto di stare lì e ricordare. Scelta più dolorosa, me ne rendo conto. Perché affondo senza riguardo. E mi chiedo, spesso, quanto l’abbia amata.

 

114.

Il caposervizio è finito in dialisi. Mi dispiace. Barbara continua a darmi una mano. E’ veramente brava. Facciamo belle cronache. Peccato che siano in pochi ad accorgersene.

 

115.

La Pira riconquista le prime pagine dei giornali. Le Officine Galileo licenziano in massa, e lui si schiera con gli operai che hanno deciso l’occupazione. E’ con loro nei giorni delle feste di fine anno. Tuona contro l’ingiustizia.

Firenze è paralizzata dalla presenza del commissario, risultato del cannibalismo dei partiti.

Vorrei essere a Firenze. Invece sono qui, a Grosseto, accartocciato nel dolore, ogni tanto tentato di cambiare tutto. Ma che vado a fare? Non ho più vent’ani.

Il 27 gennaio la polizia interviene alle Officine Galileo e, senza tanti complimenti, fa sgomberare tutti.

 

116.

Seguo con attenzione l’omicidio di Maria Martirano, a Roma. Penso a come ne sarebbe stata presa Chiara. Hanno arrestato il marito Giovanni Fenaroli. L’accusano d’essere il mandante. L’assassino sarebbe un milanese, un giovane. Raoul Ghiani.

Pagine e pagine di cronache. Che leggo con una pena nel cuore.

“Non è giusto”, ripeto.

Entra in vigore la legge Merlin, che abolisce i casini. Barbara dice: “Finalmente”. Carlo, il redattore sportivo, fa: “Non è questo il modo giusto di combattere la prostituzione. Mi sa che tutte queste donne, le vedremo altrove, anche per le strade. E sarà peggio”.

Il 28 ottobre muore il caposervizio. Le sue condizioni erano andate peggiorando negli ultimi tempi. Nello stesso giorno, il cardinale Angelo Roncalli diventa il nuovo papa. Ha deciso di chiamarsi Giovanni XXIII. Immagino la gioia di La Pira: i due si sono sempre intesi

 

117.

Bianchi mi nomina caposervizio di Grosseto. Barbara è la vice. Mi guarda. Si rende conto che non sono contento. “Grosseto ti sta stretta, vero?”, mi chiede una mattina.

“Hai ragione. Penso che sia anche per te. Ero abituato a Firenze”.

“M’hanno raccontato che hai avuto anche una specie d’aggressione, e non si è mai saputo chi è stato”.

“L’aggressione, quella vera, l’ha avuta Chiara, e non è escluso che sia l’origine dei suoi problemi e causa della sua morte. In tre l’hanno aggredita, in casa. Ero appena uscito. Stavamo dietro a un fatto, alla fine misteriosa di un conoscente, soprannominato la Volpe, che mi passava informazioni sui democristiani. Lo faceva per suo tornaconto, ma a me serviva per fare articoli e interviste. E’ così che ho conosciuto La Pira e, se si vuole, mi sono fatto un nome nel giornalismo fiorentino. Che ora è sbiadito, perché i miei compagni m’hanno scaricato alla chiusura del Nuovo Corriere. E, se sono qui, lo devo a La Pira”.

 

118.

Scandalo al ristorante Rugantino di Roma. Nel corso di una festa, organizzata da un miliardario americano – Peter Haward -, la ballerina turca Nana Kaish Nur fa uno spogliarello e rimane con solo lo slip. Intervento della polizia. Accuse d’oscenità. Ristorante chiuso. La polizia prende nome e cognome dei presenti. Che sono nobili, attori, attrici, industriali, ricconi. Nana denunciata e l’americano, organizzatore della festa, invitato – più che invitato, costretto – a lasciare l’Italia.

 

119.

Penso di comprarmi una 500. La Fiat ha deciso di diminuirne il prezzo. Da quattrocentosessantacinquemila l’ha portata a trecentonovantacinquemila lire. Avrei voluto la 600 di Chiara, ma l’ha presa Alina. S’è addossata il debito.

 

120.

Il Gattopardo, romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ha vinto il Premi Strega.

“Sei un ciuco se non lo leggi”, mi dice Barbara.

“Sono sempre più impaziente. Non so se ho la costanza di reggere un romanzo”, dico.

“Una pagina per giorno”, dice Barbara. Che poi la vedo uscire senza dirmi niente e tornare con il libro. “E’ il mio regalo di buon quel che vuoi te”. Rido. “O un semplice invito alla lettura a un collega recalcitrante”.

E’ fatta così, Barbara.

Usciamo di redazione che è tardi.

“Non mi va di mangiare”, dico.

“Non mangeresti mai – dice – E non so se è una bella cosa”.

“Da piccolo andavo avanti a caffè e latte con una, massimo due fette di pane abbrustolito. La sera. Il giorno, a desinare, era un pianto. Ne inventavano di tutte. Non c’era verso. Due cannelloni, o due fili di spaghetti, o una minestrina con acqua e semesanto. Ero magro”.

“Al contrario di me. E si vede il risultato. Sono sempre stata in carne”.

“Carne messa bene”, dico.

“Accidenti che complimento. Mai avuto”.

Camminiamo per le strade non tutte illuminate.

A un certo punto, Barbara mi prende una mano. Sorride. Poi guarda avanti.

Non la ritiro.

 

121.

Alle due stiamo sempre camminando.

“Siamo nella mia strada”, dice a un certo punto.

Sono molto lontano da casa mia. Lei abita oltre la piazza della vasca, fuori delle mura. “Non sei obbligato a salire”, dice. E sfiora le sue labbra con le mie, il petto che preme.

“La tentazione è forte”, dico. Ed è vero. Ma sono combattuto.

“Capisco il tuo stato d’animo”, dice.

“Sei un bel diavolo tentatore”, dico.

Lei è sull’uscio. La spingo dentro. “Da che parte è l’interruttore della luce?”, chiedo.

 

122.

E’ rannicchiata addosso a me, nuda, il respiro regolare. Due ore d’amore intenso ci hanno sfiancati.

Non mi sono risparmiato. Ho tirato fuori tutto quello che avevo dentro. Anche la rabbia. Mi sono accorto, a un certo punto, che stavo andando oltre, e mi sono calmato.

“L’hai fatto con furore –  ha detto alla fine – Non pensavo che fossi capace di tanto”.

“Scusami, non volevo essere violento”.

“E’ andata bene. Non devi scusarti. Sono stata bene. Davvero”, ha detto accarezzandomi il corpo.

 

123.

Chiama La Pira. Inaspettatamente. “Vado nell’Unione Sovietica. Ho un vecchio invito del sindaco di Mosca. Voglio visitare, se me lo consentono, i luoghi della Russia cristiana. Viene con me?”

“Mi piacerebbe, professore, ma gli impegni di lavoro me lo impediscono. E’ una redazione, questa, ridotta all’osso, e ci sarebbero non pochi problemi a sostituirmi per alcuni giorni. Sarà per un’altra volta”. Ho risposto a malincuore, la nostalgia di Firenze - spina nell’anima.

 

124.

Riusciamo, Barbara e io, a ritagliarci il tempo necessario per andare a vedere due film, che tutti osannano: Il Generale della Rovere di Roberto Rossellini e La Grande Guerra di Mario Monicelli.

Confesso che mi piace più il secondo del primo. Colpa di De Sica, che non riesco ad apprezzare come attore.

Barbara mi regala un altro libro. E’ Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini. Lo giudico d’impeto. Lo dico a Barbara, che mi guarda male: “E’ scritto più per far colpo che per raccontare una verità”

Anche il Nobel per la letteratura, attribuito a Salvatore Quasimodo, ci fa discutere. Io sostengo che Quasimodo è sopravvalutato.

 

125.

Barbara è premurosa. Vuole che la smetta di rovinarmi il fegato mangiando al ristorante. C’è lei, che un piatto di pasta, a qualsiasi ora, è capace di farmelo.

E’ una brava donna. Non pretende niente da me. Sa quanto sono combattuto. Comunque, devo ammettere che non sto male con lei. Non riesco a litigarci. Neanche sul lavoro.

E’ lei che porta la notizia della morte di Fausto Coppi. L’ha ammazzato la malaria.

“Ma come si può morire di malaria, oggi?”

“Un fisico debilitato, probabilmente”.

“O chi l’ha visitato le prime volte non ha capito. Certo è che sarà stato anche il Campionissimo, ma nella vita privata non è che gli siano andate bene, le cose”.

“Sai, io ero un grande sostenitore di Bartali”.

“Per Bartali erano i democristiani, i conservatori”.

“Ma figuriamoci. E’ una delle tante leggende nate su di loro, sulla loro rivalità”.

 

126.

All’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, non va giù il dialogo tra cattolici e socialisti. Sostiene che socialismo e cattolicesimo sono incompatibili.

Cerco conforto in Barbara. “Io, questo problema, non me lo pongo. Ho un atteggiamento tutto mio nei confronti della politica. Sono cattolica e non voto Dc. Lo dico a te. Pronta a negarlo di fronte a chiunque. E te?”

“Navigo a vista. Ero convinto d’essere un bel comunista, quando sulla mia strada s’è messo di traverso un certo La Pira. M’ha fatto capire alcune cose. M’ha fatto capire che il bene non sta tutto da una parte e il male tutto dall’altra. Da allora mi sto ponendo un mucchio d’interrogativi. Ho una sola certezza: quando sono in cabina, voto a sinistra. Anch’io lo dico a te. Anche se tutti sanno al Giornale del Mattino da dove vengo”.

“Il Vaticano sta facendo pressioni politiche”.

 

127.

C’è la storia del centrosinistra a tenere banco.

Giovanni Leone è stato incaricato dal presidente Gronchi di sondare se esiste la possibilità di formare un governo di centrosinistra.

Leone sonda senza successo. Gronchi si rivolge ad Attilio Piccioni, il vecchio uomo politico scosso, qualche anno fa, dalla vicenda passata alle cronache come il caso Montesi, per il coinvolgimento di suo figlio, musicista apprezzato.

Piccioni ringrazia, ma preferisce rimanere in disparte. Non è più il suo tempo.

Allora Gronchi prova con Segni. Mantiene l’obiettivo di formare un governo che abbia almeno l’astensione dei socialisti. Deve vedersela, però, con i democristiani restii, che arrivano a minacciare di dare vita a un altro partito cattolico.

Segni rinuncia.

E’ la volta di Fernando Tambroni. Riesce a dare vita a un monocolore. Si presenta in Parlamento e ottiene, oltre ai voti della Dc, anche quelli del Msi e di quattro ex monarchici.

Ci sono le dimissioni di ministri e sottosegretari appartenenti alla sinistra Dc.

Anche la direzione nazionale della Dc sostiene che Tambroni è andato oltre e deve dimettersi. Ma Tambroni non si dimette. Ottiene la fiducia anche al Senato con i voti determinanti dei missini.

Che storia è questa? Sono arrabbiato. Barbara evita di fare commenti. Parlo con Firenze e m’arriva una valanga di preoccupazioni. Gli italiani non tollerano il ritorno dei fascisti al governo.

Barbara mi regala un disco di Fred Buscagliene, morto in febbraio in un incidente stradale a Roma. E’  Che bambola.

L’Italia s’infiamma.

Tambroni vuole dimettersi. Si dimette. Gronchi respinge le dimissioni. Dov’è finito l’uomo del Partito Popolare, l’esponente della sinistra democristiana?

A Genova, non vogliono il congresso del Msi. E’ una provocazione, dicono. Addirittura, vorrebbero farlo presiedere da Carlo Emanuele Basile, prefetto di Genova al tempo della Repubblica di Salò. E’ responsabile di torture ai partigiani.

Mentre da Palermo arriva la notizia di trenta persone ferite dalla Celere, durante lo sciopero indetto dai sindacati, a Genova si svolge una grande manifestazione antifascista. Parla Sandro Pertini. La Costituzione – dice – vieta la riorganizzazione del partito fascista.

Ci sono manifestazioni locali e noi le seguiamo.

“Brutta aria”, dice Barbara. Concordo.

Il Msi rinuncia a tenere il congresso a Genova. Però le manifestazioni non finiscono.

Mi chiama Bianchi. “La Pira ti vuole a Firenze. Non posso dirgli di no”.

  

Riccardo Cardellicchio

 

 

 

 

Fine nona parte

 


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