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Bruna Spagnuolo: Sguardo ai Balcani e al fiume Ibar in Kosovo (1)
15 Gennaio 2009
 

Indice: Prologo/ Il pudore della mostruosità/ Kosovo e Unmik/ Linea locale e internazionale (la Eulex)/ I rovesci-voltafaccia dell’ultima ora/ Pari e dispari-Odds and even della giustizia internazionale/ I punti a favore del coraggio contro-vento/ Riflessione-conclusione

 

 

Prologo/ Il pudore della mostruosità

 

Dicono che, oggi, il pudore (in generale) sia defunto. Ciò, se fosse vero, giustizierebbe soltanto l’immagine del candore che coloriva le gote delle donzelle di antica memoria. La cosa sarebbe grave, comunque, tenendo conto delle dissertazioni possibili sulle varie latitudini-cultura e sulle varie implicazioni delle sovrapposizioni-stratificazioni-indottrinamenti, ma io direi che non sia questo il funerale che deve far paura agli umani.

C’è un altro tipo di pudore che, assassinato, colpisce il genere umano e lo mette knock out: il pudore della mostruosità.

C’era una volta il mostro delle fiabe…; c’erano orchi, lupi mannari e vari altri personaggi spaventosi legati alla vita bucolica, alle forze della natura, alle credenze religiose e alle superstizioni (come il diavolo in carne e ossa, con piedi da ciuco, che appariva nei boschi e spariva ai crocevia e che dava, in sogno coordinate di tesori, reclamando l’anima dell’aspirante ricco)… La credenza popolare relegava le creature mostruose e spaventose nel buio della sera e della notte. I mostri si nascondevano in meandri introvabili, quando il sole splendeva; non osavano farsi vedere da anima viva, nella luce del sole; uscivano soltanto con il favore delle tenebre, per commettere innominabili, orribili mostruosità che la gente osava soltanto mormorare di nascosto o in confessione (facendosi cento volte il segno della croce). I mostri di ieri avevano dei limiti, si arrestavano davanti a simboli, oggetti, luoghi sacri e, spesso, indietreggiavano di fronte alla purezza e all’innocenza; avevano il pudore della loro mostruosità e la vestivano di tenebra. I mostri di oggi hanno sembianze umane che passano inosservate nelle nazioni, nelle regioni, nelle città, nei vicinati, nelle case, nelle famiglie. Sfidano la luce del giorno e i raggi del sole e non arretrano di fronte all’innocenza, anzi la cercano e, se possono, la violano. Non hanno limiti, non temono nulla. Sterminano, con caparbia perseveranza, ciò che resta del pudore che albergava un tempo nella creatura bipede chiamata uomo e, con esso, la sua ultima caratteristica umana. La sfrontatezza della mostruosità offende l’umanità più dell’orrore dei crimini commessi.

I mostri del passato si nascondevano nelle tenebre, perché erano consapevoli della loro essenza immonda. Ciò che trafigge il cuore di questo nostro tempo disorientato è l’ostentazione sfacciata della mostruosità (camuffata da normalità- se non da bandiera).

Il mondo ha sopportato molto (e di più gli s’infliggerà, nei tempi che verranno), ma ce la farà, se l’uomo si ricorderà di non infliggergli il colpo di grazia (che lo atterrerebbe per sempre). La sfrontatezza della mostruosità violenta-sfrenata-ripugnante è il colpo proibito da evitare.

Ci sono troppi figuri affetti da bruttezza interiore endemica. Molti di loro sono singoli mostri (o ronde-plotoni-coorti-eserciti)  orrendi assetati di sangue umano, di entropia, di crimini e di male in generale; molti altri (che sarebbero patetici, se non fossero feroci criminali seriali che si vantano di mostruosità reali) rientrano nella categoria dei potenti.

Mostri senza redini assaltano, stuprano, uccidono alla luce del sole e anche nei luoghi sacri (indipendentemente dalle longitudini del globo terrestre). Non sentono più il bisogno di vestirsi di tenebre e non abitano più nella patria del buio. Somigliano tutti all’imperatore della fiaba Il vestito nuovo dell’imperatore (di Andersen); sono nudi come vermi e credono di avere addosso tessuti tempestati di rubini e diamanti (provenienti da qualsiasi crimine-razzia ai singoli, alle comunità, al sottosuolo o al ‘pil’ di qualsiasi terra calpestata-schiacciata-violata dall’interno e/o dall’esterno); abitano anime cieche e sorde e mancano del dono di vedere o udire la voce senza mistificazioni del bambino di turno, che possa dire, vedendo ognuno di loro: “Ma è nudo!”. Affiancano, circondano, sfiancano, annientano l’uomo (ormai braccato/ ramingo/ fuggitivo). Le parti si sono invertite, come nel romanzo Planet of the apes di Pierre Boulle (e relativi film); i mostri divengono cacciatori della razza umana e ne fanno ciò che vogliono (senza esimersi neppure dal macellarla come selvaggina).

Ci sono luoghi ove l’orrore si fa urlo congelato nel vento… I boati fatti di eccidi/ genocidi/ gemiti/ rantoli-agonia provengono, di volta in volta, da vari punti cardinali; i nomi dei luoghi si diffondono, si accavallano, si sovrappongono e si estendono, come terrore puro all’intero universo. La gente ascolta e si trincera dietro una scorza difensiva vestita di indifferenza propedeutica alla sopravvivenza, cercando di frapporre un discrimine tra i luoghi degli orrori pregressi-in atto-da venire.

 

 

KOSOVO e UNMIK

 

Alcuni nomi (oramai depennati dalle zone ‘a rischio’ e archiviati tra quelli ‘normali) non fanno più scattare campanelli d’allarme nella mente-psiche di chi ascolta i notiziari. Lontano è il tempo in cui lo scatafascio della federazione jugoslava sovrana ha fatto rizzare i capelli a tutti gli esseri viventi del pianeta, con le notizie terribili che l’hanno caratterizzata (generosamente ‘sfornate’ nelle singole case a tutte le ore). La storia, nota soltanto a pochi, non ha mai avuto importanza; a contare erano i notiziari, le interviste, i racconti delle esperienze raccapriccianti e spaventose.

La storia, però, contiene le cause originarie delle diagnosi che, senza storia, sarebbero come minimo azzardate o del tutto errate.

Quelle terre austere e belle, circondate dai Balcani ignari, sono state da sempre percorse da brividi-poteri-invasioni-incursioni-ribellioni-diatribe-lotte-contrasti-paradossi-uccisioni che hanno segnato lo stesso cielo che le ricopre e hanno forgiato pensieri-andature-espressioni-canti-motivi-idiomi ed espressioni artistiche dei popoli che ivi dimorano.

 I Serbi sono giunti nel territorio che oggi si chiama Kosovo, nel settimo secolo d. C. e sono rimasti staccati dai Serbi del regno serbo fino al 1300, quando vi sono stati inglobati; sin da allora, hanno conosciuto attacchi, morte, devastazione e conquistatori. Gli Ottomani li sconfissero (nella battaglia del Kosovo- la terra dei corvi, da cui deriva il nome Kosovo), nel 1389 e, da allora, non hanno avuto che pochi storici intervalli di pace serena. Il governo ottomano portò in Kosovo Turchi e Albanesi, che si si adattarono così bene all’ambiente da farne la loro patria: alla fine del diciannovesimo secolo, gli Albanesi avevano rimpiazzato i Serbi ed erano diventati il gruppo dominante di quella terra.

La Serbia riconquistò il Kosovo, nel 1912 (Prima Guerra dei Balcani); dopo la seconda guerra mondiale, il governo della Repubblica federale socialista Jugoslava (di Josip Tito) lo risistemò come provincia autonoma della Repubblica Serba. Gli Albanesi kosovari fecero di tutto, per quarant’anni di seguito, per ottenere l’autonomia: nel 1974 il Kosovo ebbe, all’interno della costituzione jugoslava, uno status simile a quello di una repubblica. Ciò fu una grande conquista, ma anche l’inizio della tragedia, perché portò al concepimento del gigantesco senso di nazionalismo albanese che diede origine alle rivolte nazionaliste (anni Ottanta) che sognavano un Kosovo indipendente.

Nacquero lì le prime epopee dei Serbi kosovari, che qualcuno dei leader nazionalisti serbi seppe usare, per salire al potere, come Slobodan Milosevic. I Serbi, per i quali il Kosovo era ‘la’ terra (quella in cui erano sepolti gli antenati), videro Milosevic come padre-protezione, ma per gli Albanesi (che ormai, anche, vantavano antenati sepolti in Kosovo) Milosevic divenne ‘il’ tiranno da abbattere, quando (1989) rifece la costituzione e tolse al Kosovo qualsiasi possibilità di autonomia.

I leader kosovari albanesi dichiararono l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, con un referendum (1991). Non si è mai sentito, da che mondo è mondo, che uno Stato accetti passivamente di farsi ‘asportare’ una larga parte viva del ‘corpo’ senza colpo ferire e Milosevic, ovviamente, non fece eccezione: mise in atto misure repressive contro gli Albanesi). Il neonato governo del Kosovo (con sovranità fantasma non riconosciuta dalla madre Serbia né dalle potenze mondiali), con a capo Ibrahim Rugova, cercò di ingraziarsi l’opinione mondiale e di ottenerne riconoscimento e aiuto, opponendo a Milosevic una resistenza passiva. Delusi, gli Albanesi si rivoltarono contro Rugova (1995), fondarono l’Armata di Liberazione Kosovara e lanciarono la controffensiva. Milosevic rispose autorizzando una campagna insurrezionale (1998). Non so se la cosa gli sfuggì di mano o se egli avesse in mente l’orrore che avrebbe scatenato, ma è urbi et orbi noto che la cosa si trasformò in pulizia etnica e in massacri abominevoli, dando origine a una delle pagine più vergognose e terrificanti della storia. Intere comunità di Albanesi vennero ‘stanate’ dalle case, in cui avevano vissuto per generazioni e generazioni, ed espulse dalla Serbia. La parte peggiore dell’animo umano, che (come ovunque in tempi di pace) dormiva come fuoco sotto la cenere, si risvegliò, con tutto il potenziale buio di cui era capace, e si scatenò, in quei luoghi, come furia degl’inferi. La feccia umana che, in certe pseudoguerre, può sfoggiare tutta la sua capacità di bruttura, trovò in quel tempo e in quelle circostanze humus favorevole e s’ingegnò per stupire persino il diavolo in esecrabilità e dissacrazione dei valori umani. Militari, polizia e paramilitari serbi si macchiarono di crimini così efferati che le parole stesse si rifiutano di contenerli. Criminali con il grado di ‘ufficiali’ nelle varie unità militari, diedero sfogo agl’istinti più oscuri e vergognosi che la razza umana possa concepire (e che la classificano parecchi gradini più in basso di quella animale). Ci furono casi di stupri (contro donne di ogni età e di ogni estrazione- anche contro suore) e di violenze inenarrabili (e ci fu qualcuno che si addestrò sui maiali, per imparare a sgozzare con ‘scioltezza’ e velocità il maggior numero di esseri umani/ e ci fu chi organizzò vere e proprie partite in cui si scommetteva sulle capriole e sul percorso delle teste mozzate e fatte cadere da piccole alture). I morti non si contarono. Gli anziani difficilmente giunsero lontano dalle loro case e quelli che lo fecero morirono idealmente, lasciando tra i muri amati le loro identità, i loro ricordi, la loro voglia di vivere. La tragedia umana che ne nacque fu epica.

La comunità internazionale, che non aveva fatto ingerenza nelle faccende di politica ‘interna’, si mobilitò, ‘alla fine’, di fronte all’orrore divenuto ormai di proporzioni incontenibili. I tentativi di soluzione pacifica della vertenza non furono accettati da Milosevic: gli accordi di Rambouillé, che avrebbero dovuto condurre alla pace, portarono, invece, al bombardamento della Serbia da parte della NATO (marzo 1999) e al ritiro forzato della Serbia dal Kosovo (giugno 1999).

L’ONU (vedi Security Council Resolution 1244 del 1999) stabilì in Kosovo l’amministrazione transitoria della UNMIK (UN Interim Administration Mission in Kosovo), in attesa degli sviluppi dello status del Kosovo. Tale risoluzione proteggeva l’integrità territoriale della Serbia e affidava il governo del Kosovo all’UNMIK che giunse a delineare (2001) un programma di autogoverno provvisorio chiamato PISG (Provisional Institutions of Sel-Government), al quale cedette, gradualmente, le responsabilità. Il progetto di determinare lo status futuro del Kosovo prese forma nel 2005; nei due anni successivi gli sforzi tesi a dare autonomia e indipendenza al Kosovo fallirono su questioni come rispetto dei diritti delle minoranze/decentralizzazione/eredità religiosa, ecc. (la volontà serba di concedere maggiore autonomia e la richiesta degli Albanesi della completa indipendenza del Kosovo parevano semplicemente collocati su livelli paralleli destinati a non incontrarsi mai). L’Assemblea del Kosovo, però, aveva in mente un progetto ambizioso e lo palesò dichiarando (2008) la completa indipendenza dalla Serbia.

 

Si potrebbe concludere questa storia con… e visserto felici e contenti…, se fosse una favola. Il luogo che conobbe tanti orrori ‘fatto non fu a viver’ felice e in pace, purtroppo/ non soltanto non è stato destinato a un finale così elegiaco… ma è stato destinato a nutrire la terra ancora del sangue di agnelli sacrificali che non hanno avuto santi protettori (né rifugi sicuri-mani amiche-orecchie in ascolto-passi pronti ad accorrere-aiuti salvanti), perché l’animo umano, ubriacato dalle divisioni, dagli odi, dai rancori, dagl’interessi di parte e dalle nefandezze politiche, è capace di cose che farebbero arrossire i demoni più subdoli e malati di bruttura. La pianta della speranza, benvenuta e attesa ovunque, in certi luoghi pare mettersi a dimora sempre contro vento. Dio voglia che essa alligni, radichi, ramifichi e prosperi nelle intercapedini contorte che dividono, alterano, separano, avvelenano le relazioni tra i vari Stati della ex Jugoslavia e tra le loro genti (di qualunque provenienza/etnia/’storia’).  

L’orrore, che aveva eletto a casa quei luoghi, ha legittimato l’intervento internazionale. L’indipendenza del Kosovo, lungi dal rendere le cose più semplici, delinea un orizzonte fatto di problemi che paiono destinati a viaggiare su linee dai pochi punti di contatto (se non addirittura parallele): quella locale e quella internazionale.

 

 

Linea locale e internazionale (La Eulex)

 

I centoventimila Serbi, che non hanno abbandonato le loro case e che sono rimasti in Kosovo, rappresentano la sfida più importante per la diplomazia internazionale (che dovrà inventarsi miracoli astonishing, sfidando/vincendo le leggi geometriche, per stupire il mondo con l’esibizione di un punto d’incontro tra le due rette parallele), poiché quei Serbi (che si dice abbiano “scelto di rimanere nella provincia a netta maggioranza albanese”) sono a casa loro, nelle loro terre, tra gli spiriti dei loro antenati, su zolle che amano e che respirano all’unisono con loro. Essi amano la terra in cui vivono (esattamente come gli Albanesi con cui condividono il Kosovo settentrionale, il confine serbo, la città di Mitrovica, il fiume Ibar). Il legame che unisce gli uomini alla terra è forte come il più forte degli amori concepibili e non è barattabile con nulla e con nessuno. I Serbi e gli Albanesi ne sono la testimonianza innegabile: piuttosto che tagliare il cordone ombelicale con la ‘roba’ di verghiana memoria e con tutto ciò che essa contiene (i monasteri ortodossi nei quali le leggiadre ghirlande di fiori d’arancio sono passate sulle loro teste, nel giorno del loro matrimonio, e nei quali i loro genitori si sono scambiati gli anelli legati al nastro di bianco raso; i contorni di tutto ciò che è ‘focolare’, i muri delle case avite, i paesaggi amati, il gorgoglio delle acque, il fischio del vento, le voci della natura e delle tradizioni) sono pronti a mettere in gioco la stessa vita e si apprestano a fare della loro città la nuova Berlino (del muro- che il mondo tende a dimenticare). Tutto ciò motiva sufficientemente i clan vari, che si sentono legittimati a far nascere e sostenere gruppi armati e ad addestrare  forze paramilitari.

I Serbi accerchiati dagli Albanesi (di antica stirpe fiera che pensa di lavare “l’onore” punendo offese antiche e nuove con omicidi e sangue), vivono i loro giorni (e, soprattutto, le loro notti) nell’attesa delle tragedie e dei drammi più estremi. Coloro che si sono recati nei campi, a mietere il loro raccolto, e che vi sono stati scannati e mutilati (insieme a figli e fratelli), tornando al villaggio (come quarti di bue trainati da carri ignari), con l’orrore senza limiti hanno ferito il silenzio attonito e, con il mutismo delle loro menti silenziate hanno insegnato ai parenti e agli amici che cosa provino gli agnelli che temono ogni ciclo solare come quello del loro altare sacrificale.

Le minoranze hanno vita difficile sul pianeta terra; le minoranze di certi luoghi hanno memorie terrificanti da tramandare…

La situazione non è cruciale soltanto per le minoranze serbe: le minoranze albanesi fuori dal Kosovo, in territorio serbo (vedi la valle del Presevo), collegate (per etnia) agli Albanesi kosovari e alle minoranze albanesi in Macedonia, non sono ‘messe meglio’. Etnicamente esse sono collegate anche agli Albanesi del Nord dell’Albania, favorevoli al nuovo Stato-Kosovo.

 

L’antico gioco della politica internazionale (che non smetterà mai di richiamare la danza intimidatoria degli abitanti delle foreste di tutti i tempi), in Kosovo, celebra la sua ennesima festa.

La Russia appoggia la Serbia (e ciò rientra in una strategia di antica memoria: influenza sull’area dell’ ex Jugoslavia e pollice sospeso -ostentato alle potenze mondiali- come minaccia di riconoscimento- sulle indipendenze autoproclamate- nelle enclavi dell’ex Unione Sovietica, in Abkhazia e Ossezia del Sud).

Gli U.S.A. appoggiano il Kosovo. Gran Bretagna, Austria, Svizzera e Germania fanno altrettanto (e danno ospitalità a vere e proprie comunità di Kosovari). Italia, Francia e Gran Bretagna sono favorevoli al riconoscimento del neonato Kosovo. Spagna e Grecia, che ne temono l’effetto trainante sulle proprie debolezze indipendentiste, sono contrarie (ne temono gli effetti rebound, perché molti sono i fermenti-indipendenza che, nel mondo, sono pronti a inalberare il Kosovo come bandiera delle proprie rivendicazioni).

Il premier Hashim Thaci, parlando alla riunione straordinaria del Parlamento di Pristina, aveva detto del Kosovo: «…è uno Stato orgoglioso, indipendente e libero» e il presidente del Parlamento, Jakup Kuasniqi aveva detto: «Il Kosovo è uno Stato sovrano, indipendente e democratico». Il mondo, lì per lì, non ha preso del tutto sul serio le loro parole, forse, ma essi, insieme al presidente Sejdiu, hanno firmato la dichiarazione di indipendenza, scelto i simboli del loro nuovo Stato e hanno proseguito, imperterriti, verso la meta (sordi alle parole del presidente serbo Boris Tadic: “Belgrado ha reagito e reagirà con tutti i mezzi pacifici, diplomatici e legali per annullare quanto messo in atto dalle istituzioni del Kosovo” e del premier serbo Kostunica: “Nasce illegalmente uno Stato fantoccio. Il Kosovo è un falso Stato”).

I Kosovari, immemori di tutto, tranne del loro neonato orgoglio nazionale, hanno gridato: “Kosovo! Kosovo!”.

Gli Albanesi di Albania sono accorsi numerosi, a festeggiare e a portare messaggi augurali (unendosi alla folla, con aquile nere sulle rosse bandiere, con bandiere americane e anche europee).

Thaci, rimarcando chiaramente il distacco definitivo e completo dalla Serbia (“l’influenza di Belgrado sul Kosovo è definitivamente tramontata”), si era impegnato, di fronte al mondo, a difendere la minoranza serba e aveva assicurato: “Tutti i preparativi sono stati ultimati, ogni passo delle istituzioni sarà coordinato con i partner internazionali”.

Il messaggio di Bush (da Dar Es Salaam), per la Serbia, era stato forte e chiaro: “Siamo rincuorati dal fatto che il governo abbia chiaramente proclamato la sua volontà e il suo desiderio di sostenere i diritti dei serbi in Kosovo./…/ Crediamo inoltre che sia nell’interesse della Serbia essere allineata con l’Europa e che il popolo serbo sappia che ha un amico nell’America /…/Gli Stati Uniti continueranno a lavorare con i loro alleati per prevenire future violenze”.

La Russia aveva affermato che avrebbe appoggiato, con convinzione, le giuste istanze della Serbia (di restaurare la sovranità sul Kosovo) e aveva chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La UE, facendo eco alle parole di Bush, aveva ammonito: “La comunità internazionale non tollererà alcuna azione violenta in Kosovo”. Jens Mester, portavoce del Consiglio Ue, aveva rivolto parole sentite di raccomandazione sia alla maggioranza albanese che alla minoranza serba dei Kosovari (“Ci appelliamo a tutte le parti in Kosovo e nella regione allargata a rimanere calmi e a non reagire a qualsiasi provocazione”).

La prima costituzione della storia del Kosovo, a dispetto di tutto e alla faccia delle disapprovazioni, è nata ed è entrata in vigore ormai formalmente. Fa ancora discutere, a mesi dalla proclamazione unilaterale dell'indipendenza, ma 41 nuove leggi (rese necessarie dalla nuova Carta) sono state siglate. Fatmir Sejdiu, Presidente della Repubblica del Kosovo, ha dichiarato che questa costituzione metterà il Kosovo in grado di dimostrare capacità di democrazia e di rispetto delle norme di diritto internazionale. L’opinione mondiale non ha letto subito, ‘tra le righe’, che popolo e governo kosovari non si pronunciavano a favore della nuova missione europea, ma così era (tanto è vero che Sejdiu e il suo governo hanno salutato come una vittoria politica il ritardo da parte di Ban Ki-moon, segretario generale dell’ONU, nel presentare un piano di riconfigurazione del ruolo dell'Unmik e di creare spazio per l’architettura organizzativa della nuova missione Eulex della UE). Il presidente Sejdiu (a riprova di ciò) ha annunciato al mondo che il Kosovo aprirà nove ambasciate all’estero: le prime missioni diplomatiche del nuovo Stato (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Austria, Svizzera, Albania, Italia).

L’entrata in vigore della costituzione kosovara ha indotto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a riunirsi e a discutere della Missione delle nazioni Unite in Kosovo (cioè del destino dell’Unmik). Il presidente del Kosovo, Fatmir Sejdiu, e quello della Serbia, Boris Tadic, si sono recati a New York e hanno partecipato al dibattito dei quindici membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Il Kosovo, ormai calato a tutto tondo nella parte di Stato indipendente, lavora notte e giorno all’allestimento globale della sua ‘veste’ nazionale e internazionale.

Vjosa Dobruna (colei alla quale fu assegnato, nel 2000, in Italia, il premio Alexander Langer, per la la difesa dei diritti universali e la convivenza fra i popoli) è al vertice del Consiglio di Amministrazione della radio e televisione del Kosovo (formato da nove membri e da tre rappresentanti indicati dall’Unmik) ed è vista, dall’amministrazione internazionale, come garante contro le ‘élite oltranziste’ (responsabili di usare radio e televisione per fomentare disordini e violenze). Dobruna ritiene che la partenza dell’Unmik (visto negli ultimi tempi dai Kosovari come parte dei loro problemi) non sia destinata a suscitare rimpianto nella sua terra; che la missione Onu abbia peccato di incapacità di individuare ed affrontare le situazioni, di inefficienza e di spreco di risorse; che la popolazione non si fidi della giustizia locale e neppure di quella dell’Unmik; che il Kosovo si aspetti molto dalla missione europea.

Non vorrei essere nei panni della Eulex (che dovrà coniugare le aspettative dei Kosovari con quelle con quelle dell’Europa che, da molto tempo, non si fida più dei ‘Balcani’). L’Eulex avrà l’arduo compito di ‘insegnare’ ai paesi europei ad avere fiducia nei paesi balcanici. Speriamo che detti paesi si ricordino (da ora e per sempre) di ‘disfare’ le trame dell’instabilità e delle stragi e di sostituirle con le vie diritte della convivenza civile tra ‘vicini’ e confini interni ed esterni. Mi domando se la UE abbia considerato bene la portata dell’impegno che si sta assumendo (e abbia approntato bilance dalla giusta portata, per la misurazione di forze-mezzi atte a sostenere la ciclopica impresa…).

Avevo immaginato che i tira e molla internazionali (tra Russia e Serbia/ tra USA ed Europa) avrebbero prolungato il mandato ONU in quell’area (nell’ambito della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, che aveva posto fine all’intervento militare Nato). La svolta decisiva è arrivata da Ban Ki-moon (e dalla sua decisione di riconfigurare la presenza dell'ONU e di evitare inutili sovrapposizioni, dopo aver preso atto della decisione UE di assistere il Kosovo –in seguito alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Il numero previsto di Europei destinati ad aiutare le autorità locali (nell’amministrazione della giustizia, nel controllo delle frontiere e nelle ispezioni doganali) si aggira attorno ai 2000 (a cui circa 80 Americani dovrebbero essere affiancati, sotto il vessillo europeo/ ciò è un precedente assolutamente inedito e sbalorditivo, data la ‘recalcitranza’ di Washington a ‘cedere’ i propri uomini ad altri comandi). Si prevede che la Eulex sia composta (per più della metà) di agenti di polizia destinati a dare manforte ai colleghi albanesi contro gl’inestirpabili traffici illeciti che affossano l’economia locale (vedi il traffico della benzina).

Sembra che l’UNMIK debba lasciare i Balcani senza il plauso dell’ opinione pubblica kosovara (che, pochi anni prima, ne aveva invocato la presenza come scudo contro la repressione di Milosevic). Le situazioni cambiano e si evolvono e la storia si ripete: i nuovi arrivati hanno sempre buon gioco nella pratica vecchia come il mondo dello scaricabarile. I politici kosovari (freschi di bucato) hanno imparato bene tale lezione e tentano di trasformare l’Unmik, concettualmente, in una comoda banca di riciclaggio di tutti i mali e di tutte le colpe del disastroso passato proprio e della propria terra. “L’Unmik rappresenta il passato e la Eulex il futuro” - ha detto l’inviato speciale dell’Unione Europea per il Kosovo (Pieter Feith).

Le discordie-liti tra Serbi/Croati/Bosniaci sono ‘rovi’ tuttora vivi/tuttora scomodi e troppo pesanti per le traballanti spalle dello Stato locale (che li affibbia all’Onu), in Bosnia Erzegovina (dove il plenipotenziario del palazzo di vetro è ancora costretto a sostituirsi al governo in caso di paralisi istituzionale). Dio salvi la Eulex e le dia un destino diverso…

L’UNMIK, intanto, ha ancora gatte da pelare (tipo la riapertura, nel Nord di Mitrovica, del tribunale, che non funzionava più da Marzo, quando era stato occupato per protesta contro l’indipendenza del Kosovo)

 

Bruna Spagnuolo

 

...Fine prima parte


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