E così sabato un cartello di organizzazioni si ritroverà ad Assisi per chiedere la fine dell’esplosione di violenza nella striscia di Gaza. Si tratta senz’altro di un’intenzione encomiabile che, però, considerati i proponenti e quanto contenuto nel documento annunciante la manifestazione, non può che risultare velleitaria o quanto meno imprecisa, se non addirittura inconcludente. Peggio. Se fine a se stesso, il pacifismo, come non ci stanchiamo mai di ribadire, finisce per offrire involontariamente sostegno ai disegni distruttivi di guerrafondai e terroristi. È, infatti, giusto e auspicabile rivendicare a chiare note la cessazione di un conflitto. È, tuttavia, biasimevole farlo senza concepire alternative, prospettive, progetti capaci di tradursi in realtà. Ciò risulta maggiormente grave quando sono in gioco non tanto principi o convincimenti ma vite, esistenze. Criticare genericamente i razzi di Hamas senza prenderne inequivocabilmente politicamente le distanze, anzi, giustificandone quasi le motivazioni come risposta al presunto imperialismo espansionistico israeliano è pericolosamente equivoco e fuorviante così come perorare, sbandierandola come soluzione unica e inevitabile, la creazione di due stati, entrambi, tra l’altro, fondati esclusivamente su connotati identitari tra loro antitetici e in rotta di collisione. Non è difficile immaginare, nella sciagurata ipotesi che si attuasse tale proposito, la configurazione di uno stato palestinese del cui regime violatore di diritti umani i primi a farne le spese sarebbe proprio il popolo palestinese, uno stato allevato e coccolato da limitrofi governi fondamentalisti e sciovinisti con lo scopo dell’eliminazione fisica, prima ancora che geopolitica, di Israele.
Il sostrato ideologico della manifestazione di sabato è lo stesso che da sessant’anni in modo conformista e unilaterale accomuna la sinistra più o meno oltranzista alla destra più o meno estrema.
Non è male ricordare, a questo proposito, un episodio completamente e volutamente ignorato. All’indomani della guerra dei sei giorni, e precisamente il 12 giugno 1967, Lucio Lombardo Radice, intellettuale tra i più organici del Pci di allora, invitò espressamente Aldo Capitini a sottoscrivere un appello stigmatizzante le scelte strategiche israeliane. Capitini, da rigoroso nonviolento qual era, rifiutò di apporre la propria firma giudicando il documento che gli era stato sottoposto moralmente e politicamente inaccettabile. Israele, sosteneva in sostanza il filosofo perugino della compresenza, della società aperta, del potere di tutti, ha diritto ad esistere e va risolutamente respinto l’accerchiamento, finalizzato all’annientamento, cui è sottoposto. L’errore semmai imputabile agli israeliani sta nell’avere perseguito la strada della sovranità nazionale e non quella federativa.
Chiunque può verificare lo scambio epistolare tra Lombardo Radice e Capitini contenuto nell’apposito Fondo intitolato al pensatore umbro e depositato all’Archivio centrale dello Stato di Perugia, busta 1092. Fu analizzato dettagliatamente da Gabriella Mecucci in uno studio apparso sette anni fa in un’importante rivista di studi storici.
L’ineccepibile posizione di Capitini la dice lunga sulla differenza abissale tra le ragioni (e le azioni) dei nonviolenti e quelle dei pacifisti giustamente tacciati di unilateralismo. Si tratta di un divario nient’affatto preconcetto ma contenutistico che puntualmente si ripete con drammatica cadenza ogniqualvolta la storia esiga risposte urgenti. L’atteggiamento capitiniano si ritrova, con straordinaria concordanza, nella proposta, sempre più di cogente attualità, avanzata da lungo tempo dai radicali di accogliere Israele, insieme alla Turchia, nell’Unione Europea, di inserirla cioè all’interno di un progetto, tanto vasto e ambizioso quanto inderogabile, federalista, transnazionale, di estensione e rafforzamento della democrazia, del diritto, delle libertà civili e individuali. È un dato di fatto che la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani lo condivida con una convinzione rimasta, purtroppo, ancora inascoltata dalla propria, inadeguata, classe dirigente.
Se ciò avvenisse sarebbe un vantaggio per tutti, israeliani e palestinesi, nella direzione di una concreta, quindi non fittizia, costruzione di pace.
Non basta chiedere pace. Occorre, invece, rivendicare democrazia, ora e subito. Altro che “due popoli, due stati”! È necessario fornire una via d’uscita e salvezza dall’illegalità, dai fondamentalismi assassini. È questa l’alternativa strutturale auspicata con maniacale insistenza da Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni a partire dagli anni Quaranta con il “Manifesto di Ventotene” la cui eco si ritrova nel “Manifesto dalla sinagoga di Firenze” del 2006 e nel satyagraha mondiale lanciato da Marco Pannella. Questa concretezza ideale, questa fecondità progettuale non si ritrova affatto nei propositi dell’adunanza di sabato ad Assisi. Ce ne dispiace profondamente perché corrisponde, a nostro avviso, ad una fuga dall’assunzione di responsabilità. Spetta, infatti, a noi evitare che il Mediterraneo si trasformi da luogo di propulsione di civiltà in tomba dell’umanità.
Francesco Pullia
(da Notizie radicali, 12 gennaio 2009)