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Francesco Pullia. Il sangue, Gaza, l’esilio della parola
08 Gennaio 2009
 

Ci sono molte cose che non ci convincono dell’ultima insanguinata vicenda che ancora una volta si sta consumando in territorio mediorientale. La prima e più importante è l’infamia precostituita, preconcetta e, proprio per questo ancora più riprovevole, che si sta gettando nei confronti dello stato israeliano.

Più scorrono le immagini, più aumenta in noi un lutto che scava dentro profonde, dilaceranti, ferite. La distruzione in corso è totale e pretende di annientare ogni possibilità di uscire dal vicolo cieco della morte. Più la spirale dell’odio innescata da Hamas si avvita su se stessa, più si avvertono la drammaticità e il senso di una parola esiliata di cui la spiritualità ebraica è la massima depositaria.

Se è vero che Israele, come ha sostenuto Abraham Joshua Heschel nel 1967 in un emblematico libro scritto subito dopo la guerra dei sei giorni, è “eco d’eternità”, non bisogna dimenticare che, come non hanno mai smesso instancabilmente, ossessivamente, di ricordarci due straordinari ispirati come Edmond Jabès e André Neher, è anche la terra in cui annuncio e profezia hanno scelto, per manifestarsi, la via difficilissima, tortuosa, della sparizione nomadica.

Un sentiero che paradossalmente si biforca per ritrovarsi, nel corso della storia, tremendamente identico nel suo nucleo originario. Tremendamente, proprio così. Non sempre ciò che è tremendo desta in noi sgomento, terrore. Esso ingenera altresì in noi la consapevolezza del nostro limite dinanzi al numinoso e dell’insufficienza del verbo al cospetto della misteriosa maestà del divino.

Il segreto del giudaismo chassidico sta proprio nell’acquisita conoscenza che non è l’uomo a cercare Dio ma, anzi, accade il contrario. Solo che quando Dio si mette in cerca dell’uomo non può non farlo senza scuoterlo, senza sradicarne convincimenti, senza interrogarlo, fornendo non risposte ma domande destinate a restare ulteriormente insolute.

Dio stesso scova l’uomo e in lui si umilia. Di qui la biforcazione cui accennavamo sopra. Da un lato un percorso che conduce allo splendore della visione ultima, in cui Dio si dà ritraendosi, dall’altro la china dell’abissale disfacimento, del dolore sempre più straziante, devastante, con l’incandescente sabbia di un deserto da attraversare a piedi nudi e le urla lancinanti, ben prima di Auschwitz e Dachau, mischiate ai corpi inceneriti dall’olocausto.

Cosa c’entra tutto questo con le piaghe che si stanno assommando in questi giorni, in queste ore? C’entra, eccome.

A cosa stiamo assistendo, infatti, se non al dramma della peregrinazione di una parola che, innanzi al sangue (e ogni sangue, appartenga all’essere umano o ad un altro senziente, è sempre innocente), rischia di svuotarsi?

Stamani Adriano Sofri, in un commento pubblicato dalla Repubblica, si soffermava sui bambini, sull’opportunità o meno di ostentare mediaticamente corpicini smembrati dalla toccante maledizione delle granate mentre, dal canto suo, Bernard Henry-Lévy sul Corriere della Sera incardinava i terroristi di Hamas, così demoniacamente e spregiudicatamente dostoevskijani, alle loro responsabilità.

Sì, certo. Entrambi hanno espresso opinioni più che condivisibili.

Il nodo della questione sta, però, oltre e va ricondotto alla pretesa da parte dell’odio e delle bombe di occupare subdolamente lo spazio di una parola esiliata. Noi non possiamo permettere che ciò avvenga. Lo dobbiamo non solo ad una terra ma all’intero pianeta. Per questo, da nonviolenti, non dovremo lasciare nulla d’intentato per non assoggettarci al dominio della morte.

 

Francesco Pullia

(da Notizie radicali, 7 gennaio 2009)


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