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Gordiano Lupi. Umberto D. (1952) 
Il dramma della solitudine
10 Gennaio 2009
 

Regia: Vittorio De Sica. Soggetto e sceneggiatura: Cesare Zavattini. Fotografia: Aldo Graziati. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Alessandro Cicognini. Scenografia: Virgilio Marchi.

Interpreti: Carlo Battisti, Maria Pia Casilio, Lina Gennari, Ileana Simova, Elena Rea, Memmo Carotenuto, Lamberto Maggiorani, Alberto Albiani Barbieri, Riccardo Ferri, Pasquale Campagnola.

 

Umberto D. è un film emblematico del neorealismo italiano e rappresenta una delle creazioni artistiche meglio riuscite della coppia De Sica - Zavattini. Nonostante tutto non viene compreso dal pubblico e da certa critica benpensante che lo accusa di mostrare soltanto il lato peggiore della nostra realtà. Ladri di biciclette (1948) aveva avuto simile sorte e il giovane sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti invita ancora una volta a lavare in casa propria i panni sporchi. La pellicola è dedicata a Umberto De Sica e forse il nome del protagonista - il pensionato Umberto Domenico Ferrari - è un ulteriore omaggio al padre del regista, anche se la D. puntata significa la spersonalizzazione di un uomo che perde dignità.

La pellicola è frutto del genio di Cesare Zavattini che realizza punto per punto la sua poetica del pedinamento, seguendo Umberto D. nei gesti della vita quotidiana e lasciando che siano le immagini più che i dialoghi a raccontare la storia.

Il film si apre con un corteo di pensionati che protestano per le loro condizioni economiche, la polizia fa sciogliere un’adunata non autorizzata ricorrendo alle camionette ed è a questo punto che il regista presenta il protagonista. Umberto D. esce dal gruppo dei manifestanti e cominciamo a seguirlo nelle vicissitudini quotidiane, seguendo un meccanismo già sperimentato in Ladri di biciclette.

Umberto D. è un pensionato che vive in solitudine, mangia alla mensa dei poveri, ha come compagno il cane Flaik - coprotagonista che riflette la sua solitudine - e non riesce ad arrivare alla fine del mese.

L’attore che interpreta la non facile parte del protagonista è Carlo Battisti, professore di glottologia all’Università di Firenze, autore del Dizionario Etimologico Italiano, scoperto per caso da De Sica e Zavattini, ma anche da Luisa Alessandri, responsabile del casting. Si racconta che il professore si presentò al provino indossando due cravatte da quanto era emozionato. Il neorealismo esige l’utilizzo di attori non professionisti che incarnano meglio la poetica dei registi e possono realizzare espressioni naturali. De Sica preferisce un borghese colto che può fornire maggior intensità alla maschera del povero pensionato. Nelle scene successive veniamo a sapere che Umberto D. ha problemi economici, vende l’orologio e alcuni libri per racimolare denaro, perché la padrona di casa (Lina Gennari) vuole sfrattarlo per morosità e affitta a ore la sua stanza quando lui è fuori. Lina Gennari presta un volto affascinante ma inflessibile per una caratterizzazione di spietata perfidia. Umberto parla molto con Maria (Maria Pia Casilio), la serva di casa, ma i due non si comprendono perché sono di generazioni troppo lontane. Maria Pia Casilio è un’altra attrice non professionista che a differenza di Carlo Battisti resterà nel cinema come caratterista. Viene pagata una sproposito per l’epoca, ben due milioni, che è lei stessa a pretendere senza essere consapevole della richiesta. Vittorio De Sica accetta perché la ritiene un volto importante per la sua storia e una presenza cinematografica interessante. Ricordiamo la Casilio interprete di molti vecchi film di De Sica e Comencini, ma anche del recente La bestia nel cuore (2005) di Cristina Comencini.

Il regista dipinge un quadro di profonda solitudine intorno al protagonista, ricorrendo a un intenso commento musicale, ma anche a spaccati realistici di una Roma popolare, con rumori di fondo che si alternano a brevi dialoghi. La serva è incinta ma non è sposata, cosa che per l’epoca rappresenta una grande vergogna, anche perché il fidanzato è un militare di Firenze che non vuole sposarla. Il pensionato prova a rincuorare la ragazza e a parlare del problema, ma le loro idee sono troppo distanti. Umberto D. ha una tonsillite, si fa ricoverare in ospedale per poter mangiare senza pagare e - su consiglio di un degente - diventa amico di una suora per allungare la permanenza. All’ospedale incontriamo il bravo caratterista Memmo Carotenuto nei panni del vicino di letto che consiglia come restare in ospedale. Maria fa visita a Umberto, porta con sé il cane Flaik, ma non lo fanno salire e il pensionato non può vedere il suo unico affetto. Umberto ha solo quel piccolo compagno, non è un cane speciale, ma un anonimo bastardino che riempie il vuoto delle sue giornate.

De Sica e Zavattini realizzano un notevole affresco d’epoca e soprattutto raccontano la tristezza di un uomo che teme di finire i suoi giorni in un dormitorio pubblico. La pellicola vive uno dei momenti più intensi quando Umberto esce dall’ospedale e vede la sua camera semidistrutta, perché la padrona vuole farne una stanza unica dove vivere con il nuovo compagno. Non solo. La padrona ha fatto uscire di casa il cane che si è perso. Umberto vaga disperato per le strade di Roma in un crescendo drammatico, raggiunge il canile e infine ritrova il suo Flaik che abbraccia tra le lacrime.

De Sica e Zavattini non ci dicono molto su Umberto D., non raccontano il suo passato, sappiamo soltanto che è stato per trent’anni funzionario al ministero dei lavori pubblici e che non ce la fa a sopravvivere con la sua pensione. Agli autori non interessa altro che pedinare il protagonista e raccontare uno spaccato di vita, una parte di dramma, con crudo realismo, senza indulgere in sentimentalismi e ricordi lontani.

Umberto prova a farsi aiutare da vecchi colleghi, ma nessuno lo ascolta, tenta di chiedere la carità, ma la sua dignità non glielo consente. La scena di Flaik al Panteon, con il cappello del padrone in bocca che si regge sulle gambe e chiede l’elemosina, mentre Umberto è nascosto tra le colonne è emblematica. L’incontro con un vecchio conoscente provoca la drammatica interruzione della messa in scena con il maldestro tentativo di non far capire ciò che l’altro ha intuito.

Umberto medita il suicidio: “Sono stanco, stanco di tutto”. Carezza il suo cane, prende la valigia e decide di andarsene. Non manca un intenso dialogo con la serva e la paterna raccomandazione di liberarsi del fidanzato fiorentino. “Ho trovato. Me ne vado. E tu torna al tuo paese, Lascia andare quello di Firenze”. Inizia la parte più drammatica del film e De Sica ci mostra un tram che si ferma, il protagonista che sale e la città al risveglio osservata dai suoi occhi tristi. Umberto vorrebbe affidare il cane a qualcuno, ma nessuno è disposto a tenerlo senza una contropartita e soprattutto non gli assicurano di trattarlo bene. Neppure una bambina affezionata al cane, che spesso incontrava al parco, lo può tenere perché l’istitutrice non se ne vuole occupare. Umberto decide di morire insieme al cane. De Sica immortala la sua espressione intensa in un drammatico primissimo piano mentre si avvicina al passaggio a livello, oltrepassa la sbarra e sta per farsi travolgere dal treno in corsa. Il cane salva Umberto D. perché scappa via e il padrone lo rincorre desistendo dall’insano proposito. Le ultime immagini in campo lungo rappresentano la speranza: il pensionato corre insieme al cane mentre passa un gruppo di bambini.

De Sica e Zavattini raccontano la vita dei pensionati italiani degli anni Cinquanta che non riescono ad arrivare alla fine del mese e il film risulta - purtroppo - ancora molto attuale. In ogni caso, Umberto D. è più un film sulla solitudine umana e sulla incomunicabilità che un film sociale. La pellicola racconta il dramma del dopo guerra, ma anche la vecchiaia e la difficoltà di sopravvivere in solitudine, avendo solo un cane per amico e tanta gente che non ti comprende. Umberto D. è una tragedia kafkiana dell’incomprensione, sulla falsariga di Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette. Non esistono affetti nel mondo descritto da Zavattini e De Sica, non c’è traccia di simpatia e di comprensione umana, ma regnano sovrani cinismo ed egoismo.

Gli autori vincono al fida di dire quello che non si poteva dire e fanno innervosire i politici democristiani che vorrebbero lavori edificanti e poco critici nei confronti del sistema. Giulio Andreotti scrive su Libertà: «Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale». In epoca successiva lo stesso Andreotti ha confessato che il film gli era piaciuto, ma che come sottosegretario allo spettacolo aveva il dovere di scrivere certe cose.

Umberto D. rappresenta l’essenza del neorealismo, racconta per immagini uno spaccato di vita, un dramma personale, fotogramma dopo fotogramma, filmando la sua vita in luoghi reali. Il finale al passaggio a livello con il treno in corsa è la cosa più bella e riesce a dare persino un segnale di speranza.

De Sica gira Umberto D. subito dopo Miracolo a Milano (1951) e prima del fallimentare Mamma mia che impressione! (1951), attribuito a Roberto Savarese, con protagonista Alberto Sordi (già doppiatore in Ladri di biciclette) nel ruolo radiofonico del boy scout insieme ai compagnucci della parrocchietta. Umberto D. dimostra tutta l’abilità di de Sica nel far recitare persino un cane, come in Ladri di biciclette e Miracolo a Milano aveva dimostrato che si potevano fare grandi cose con i bambini.

 

Gordiano Lupi


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