Nel conflitto arabo-israeliano un ruolo centrale lo riveste il dibattito pubblico e ciò fa dell'asimmetria informativa e dei format interpretativi di redazioni e gruppi editoriali, un handicap determinante nella faticosa marcia verso una sua risoluzione pacifica.
Ci ricorda Gad Lerner su Repubblica e sul suo blog che il bene si costruisce piano piano, ma è allo stesso modo che l'odio si radica, poiché è la goccia continua che scava. L’odio fra arabi e israeliani non nasce da singole ondate di “piombo fuso”, ma da un sistema di soprusi che ogni giorno rende ancor più difficile vivere con dignità in Palestina. In Israele esiste certo un’élite di intellettuali coraggiosamente mobilitata per il dialogo, così come un'ampia fetta della sua popolazione è per motivi etnici vicina alla causa palestinese; ma se la prima, in quanto élite, ha più visibilità verso i ceti colti dei paesi stranieri che sul popolo, la seconda, complice il lancio di razzi a corta gittata verso le terre di confine da essa abitate, accetta oggi stremata anche una soluzione violenta, purché immediata.
Si tratta di un dramma che dovrebbe esserci familiare, poiché riflette, ingigantendole, le dinamiche di molte periferie nostrane, dove alla già bassa qualità di vita si sommano le difficoltà di diversità mal gestite. Dietro alla crisi arabo-israeliana non si cela la spartizione di risorse naturali strategiche, bensì un gioco prettamente politico, da ambo le parti. Chi tira le fila del gioco è convinto che la regolazione del bene pubblico avvenga solo grazie ai semi della paura, della diffidenza, non calcolando che da essi germoglierà odio.
È forse questa l’anima sociale, una coscienza pubblica dominata dall'immaginarsi vittime per sopravvivere ai sensi di colpa? Se lo è, allora solo un umile auto-analisi collettiva, un’introspezione sociale che ci faccia riscoprire anche carnefici, potrà salvarci da uno scontro inevitabile. Bisogna allora coltivare la volontà di aprirci, di connetterci alle e fra le diversità. L’uso della parola connessione non è un caso, poiché anche dalle nuove tecnologie e dall'uso variegato che soprattutto le giovani generazioni sapranno farne, potrà liberarsi un sussulto di rinnovamento sociale. Ciò fa della lotta al divario digitale una missione essenziale, unita ad una campagna di educazione ed istruzione rivolta alle componenti “diverse” delle nostre comunità, spesso le più deprivate.
Israele non blocchi gli aiuti, non ostacoli il ruolo del terzo settore internazionale in Palestina. Quest'ultimo a sua volta limiti, se rinunciarvi non può, la propria missione identitaria, innescando dinamiche di progresso laiche da manifesti ideologici e confessioni religiose. La natura violenta di Hamas, al pari di ogni rete di relazioni sociali negative riconducibile al noto concetto di mafia, potrà essere battuta solo promuovendo la curiosità e l'autonomia innanzitutto intellettuale (emotiva e cognitiva) di singolo individuo che ne rimanga oggi avviluppato. Non sarà, né è, una logica speculare di propaganda e lotta armata ad avere la meglio.
Marco Lombardi