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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. VII
Giorgio La Pira
Giorgio La Pira 
30 Dicembre 2008
 

55.

E’ una pasqua, La Pira.

“Cosa la rende contento?”

“Forse sciolgo un altro nodo occupazionale”.

“Quale?”

La Fonderia delle Cure”.

“E come?”

“La requisisco. Mi hanno detto che posso farlo. E la trasformo in cooperativa. I proprietari l’hanno messa in liquidazione”.

“Non è che qualcuno s’opponga?”

“Certo. Ricorda cos’è successo per la Pignone?”

“Mi tolga una curiosità: ha mai ricevuto minacce?”

“Eccome, se le ho ricevute. Fanno parte della vita di un uomo pubblico. Di un sindaco, in particolare?”

“Di che genere?”

“Di tutti i generi. Chi mi vorrebbe sparare. Chi mi vorrebbe picchiare. Chi mi vorrebbe sotterrare. Chi mi vorrebbe rendere invalido per tutta la vita”.

“Mai nessuno che abbia minacciato di rapirla?”

“No, codesta mi manca nella collezione”. Ride.

 

56.

Chiara sfoglia il taccuino per fare mente locale.

Siamo in San Lorenzo, spinti dalla fame.

“Devo dire che indagano. Anche perché sembra siano arrivate pressioni da Roma”.

“Ma, come si è soliti dire, brancolano nel buio”.

“Mi piacerebbe sapere chi è stato il collega che per primo ha usato questa espressione”.

“Perché?”

“Perché è azzeccata. Rende bene l’idea. Comunque, in questo caso, un elemento in più ci sarebbe”.

“Quale elemento?”.

“Un testimone”.

“Bel colpo”.

“Mi dicono, però, che va preso con le molle”.

“Che avrebbe visto?”

La Volpe sarebbe stato scaraventato giù da un’auto”.

“Accidenti”.

“Forse già morto”.

“E non lo prendono sul serio?”

“Non è che non lo prendono sul serio. Vogliono vedere se ottengono riscontri. Un pezzo mi ci scappa. Lo farei anche se avessi meno elementi. Lo farei solo per dispetto al redattore capo, che minimizza”. E poi:”Lo sapevi che alla Volpe non è che piacessero le donne? Era uno dell’altra sponda”.

“Sul serio?”

“Era noto alla polizia. Qualche anno fa, era stato sorpreso alle Cascine.  Questo vuol dire che indagano anche in quell’ambiente”.

“Chi l’avrebbe detto”.

“Pochi sanno”.

“Nella Dc?”

“Nella Dc, un paio. Sembra”.

“E’ una storia complicata”.

“Può darsi”.

“E i parenti?”

“Mi risulta che abbia una sorella ricoverata a San Salvi”.

“Non era messo bene”.

“No. Era, la sua, una vita da emarginato. E, negli ultimi tempi, avrebbe cercato conforto nel vino”.

“Quanti anni aveva?”

“Cinquanta”.

“Non li dimostrava”.

“Chissà se il Mandragola vuole dire qualcosa”.

“L’ho chiamato. Ha avuto stomaco di dirmi che lui lo conosceva appena”.

“Bella faccia tosta”.

“Vacci te, Chiara, dal Mandragola. Vediamo come reagisce”.

“Buona idea”.

“Avverti Bilenchi”.

“Sarà fatto”.

 

57.

Ci sono storie che ci piacciono e storie che non ci piacciono. Questa è una storia che non mi piace, che non mi va giù. E’ complessa, rasenta l’assurdo.

Chiara è andata dal Mandragola. Ha accettato di rispondere alle sue domande. Ha glissato su quel che ha risposto a me, qualche giorno fa, e ha tessuto le lodi di un uomo che, con umiltà, si era messo al servizio della Dc fiorentina. Incredibile, e ingiusta, la sua morte. Ha auspicato piena luce. Non vuole credere all’omicidio, ma all’incidente, protagonista uno sconsiderato.

Al funerale della Volpe non sono in molti.

La Pira c’è.

La Pira l’ha incontrato in diverse riunioni.

La Pira sa che non era suo amico.

“Ma che conta, ora, di fronte alla morte?”, fa serafico.

 

58.

Non riesce a tenerla su, la notizia. Chiara è demoralizzata. “Secondo me, si sono intestarditi e indagano tra gli omosessuali e non prendono in considerazione altro. Se accenni al complotto, quasi si mettono a ridere. Dicono che sono cose americane, che noi si vedono di molti film, che ci piacerebbe vivere in uno di quei film per fare i giornalisti ganzi, invece si vive in Italia e certe storie non ci sono. Ecco che dicono”.

Capisco la sua delusione, la sua rabbia. Sono giorni che ha perso il  sorriso e, questo, non mi garba.

Ma lei non si ferma. “Sembra che abbiano delle direttive. Come per la nostra quasi aggressione. Ogni tanto viene a galla e con un mezzo sorriso mi dicono se non si sia esagerato, io e te. Se non si siano presi degli ubriachi per picchiatori fascisti. Siamo a questo punto. Io, tutti i giorni, devo lavorare con questa gente, fare buon viso a cattiva sorte. Caso mai devo lasciarmi andare a qualche battutaccia, perché a loro garbano le battutacce, specie se dette da una donna”.

Ha gli occhi umidi.

“No, - m’inalbero – così, no”.

“Gli fanno vedere comunisti da tutte le parti”, quasi urla.

“Come noi vediamo democristiani e fascisti da tutte le parti”, dico.

“Ce lo impongono. Noi siamo i cattivi e loro i buoni. Noi siamo quelli che mangiano i bambini. Loro sono i timorati di Dio, quelli che si battono il petto in chiesa”.

“Per noi, loro sono forcaioli e forchettoni, e topi che non devono uscire dalle fogne, dove li abbiamo cacciati”.

Si calma piano piano. “Scusami, ne avevo bisogno”.

Finiamo a fare l’amore sul suo letto, sul nostro letto da tempo, ormai. Non ha voluto cambiare casa. “Non penso che ci riprovino”, mi ha ripetuto più volte, vedendomi preoccupato.

“Sai, - mi dice rivestendosi – quando ho chiesto al Mandragola se sapeva che la Volpe era omosessuale, è diventato di tutti i colori e ha borbottato un no poco convinto”.

 

59.                                                                                      

Chiara è una che non si dà per vinta. Se ha in testa una cosa, va diritta per la sua strada. Qualche volta batte certe capocciate. Ma riparte.

Te lo dico con il cuore: “La Volpe, da morto, mi fa pena. Tutti lo hanno abbandonato. Sono stata a trovare sua sorella. Me l’hanno fatta vedere. Deve essere più govane di lui. Non parla. Rivolta verso il muro, canta una specie di ninna nanna. M’è venuto il magone. Se ci penso, sto male. Quella donna, ora, è completamente sola. E’ una stanza, un numero”.

Pausa pranzo in San Lorenzo, tutti e due davanti a una trippa alla fiorentina.

Chiara mangia controvoglia. “Quelle persone, le teniamo lì perché non vogliamo vederle in giro. Disturbano”.

“Al mio paese, ci sono tutte donne. Le chiamano le tranquille. Circolano liberamente. La gente gli vuole bene”.

“Ma sono lontane dalle loro case, dal loro ambiente, dal disturbo. Sono inserite in una struttura pubblica. Sono, pensala come vuoi, delle recluse, colpevoli di non essere nate come gli altri, con tutte le rotelle a posto”.

“Se continui così, dico a Bilenchi di farti seguire La Pira”.

“Non metterla sulla battuta. E’ una cosa seria”.

“Scusami, hai ragione. E, visto che senti il problema, perché non proponi un servizio?”

“Ci ho pensato. Lo farò nei prossimi giorni. Ora continuo a dedicarmi alla Volpe, pover’uomo”.

Beve mezzo bicchiere di rosso. Poi fa: “Mio padre mì ha scritto una lunga lettera”.

“Di che tipo?”

“Del tipo che lui ha fiducia in me, crede in me, vede – con orgoglio – che mi muovo bene nel lavoro, ma non gli va giù che tu e io si viva insieme, come marito e moglie, senza esserlo. E quello che gli fa più specie è che noi due, al matrimonio, non ci pensiamo proprio. Vorrebbe avere un nipote. Anzi, più d’uno”.

“Hai intenzione di rispondergli?”

“Gli risponderò senz’altro. Non chiedermi cosa. Di certo, non cercherò di spiegargli il senso della nostra relazione: una relazione irregolare che nasce da due solitudini, da due ferite”.

 

60.

Don Sturzo non molla la presa. La Pira sempre La Pira.

La Pira, questa volta, non sorride. Don Sturzo è uno degli ispiratori della Dc, dopo essere stato il padre del Partito popolare, e non vorrebbe infierire. Ma non gliela fa a stare zitto.

“Caro amico, non è che uno sia disposto a porgere sempre l’altra guancia. Ritengo d’avere diritto a difendermi”, mi dice. La giornata è limpida. “M piacerebbe starmene a contemplare il cielo, ma come si fa?, dico. Eppoi sono sempre qui, incatenato dalla passione per la politica, che poi per me è apostolato. Un mio parente, nei giorni scorsi, è venuto a trovarmi e mi ha chiesto: come fai a resistere? Perché non lasci tutto e ti limiti a insegnare? Gli ho risposto sorridendo e allargando le braccia. Che dirgli? Una cosa mi è venuta in mente. Quel che lei mi disse quando seppe delle mie dimissioni: e il suo amore per Firenze?”.

La Pira scrive a don Sturzo: “Bisognerebbe che lei facesse l’esperienza – ma quella vera – che tocca fare al sindaco di una città di quattrocentomila abitanti, avente la seguente cartella clinica: diecimila disoccupati, una grande azienda da quattro mesi crollata (Richard Ginori con novecentocinquanta licenziamenti), non parliamo per fortuna della Pignone, altre aziende con licenziamenti in atto (Manetti e Roberts) o con tentazioni di licenziamenti (non faccio nomi per non turbare)”.

E ancora: “Intervento statalista? Lo chiami come vuole: le etichette contano poco. Intervenire si deve. Intervenire è la norma unica di tutta la morale cristiana e umana: scendere da cavallo, prendersi cura del ferito – anche se nemico – e, se necessario, pagarne anche le spese. E allora  cosa si aspetta – senza, per questo, statalizzarla – a dare ordine, regola e finalità a tutta l’economia italiana, orientandola verso quella stabilità che costituisce il traguardo ormai raggiunto da tutte le economie sane? Cosa si aspetta a creare gli strumenti adatti per un’economia capace di affrontare la congiuntura e di operare il pieno impiego?”

E ad Angelo Costa, presidente della Confindustria, non le manda a dire dietro: “L’economia, con tutte le sue strutture tecniche e finanziarie, è un mezzo e non un fine: il fine è assicurare agli uomini – valore della persona – un lavoro, una dignità, un pane”.

Inoltre: “Lei lo sa, tutto si ricapitola in Cristo: anche l’economia. Anzi, tanto più l’economia, che è inserita – attraverso la domanda del pane quotidiano – è  nell’intimità stessa della paternità divina”.

Non posso non riflettere su queste affermazioni. La costruzione del discorso è quella che è, ma la sostanza emerge. Rifletto costantemente. Consapevole di farmi male. Ma come posso altrimenti?

Bilenchi mi chiede che ne penso. A lui lo dico, come lo dico, lo ripeto fino all’ossessione, che Firenze ha un grande sindaco. Sì, grande. Perché è diverso. Perché non è il politico nel senso che noi siamo abituati a intendere, a vedere, a sentire. Per carità, ce ne sono di bravi altrove, nella sinistra. Basta prendere Fabiani. Ma non hanno quel quid che li fa stare sopra gli altri. E lo sanno, tutti. Ed è per questo che La Pira è costantemente nel mirino dei suoi amici più che degli altri.

 

61.

Scartabellando tra le mie cose – ogni tanto cerco di fare pulizia, di mettere un po’ d’ordine, cruccio di mia madre – trovo le lettere del cardinale Elia Dalla Costa, che avevo promesso di dare alla Volpe. Sono copie, che un amico storico mi ha passato, ora è un po’ di tempo. Non le ho mai considerate più di tanto sotto il profilo giornalistico. Nel rileggerle, mi rendo conto che sono documenti terribili, capaci di cancellare tutto il bene che si dice del cardinale. La Mazzei lo considera un santo. Mi dico che quelle non sono parto d’un santo. Quando uno invita i cattolici a non frequentare gli ebrei, a starne alla larga, e partecipa, in qualche maniera, alla difesa della razza, portata avanti da Hitler e scimmiottata da Mussolini, ecco io dico che quella persona non può essere considerata santa. E che bisognerebbe tirarle fuori, le lettere, non limitarsi a considerarle documenti buoni per un archivio storico e per studiosi.

Certo, mi rendo conto – ed è questo il motivo che mi ha sempre bloccato – che se lo fa un giornale filocomunista, l’accusa prima è di bassa speculazione politica di gente che va a cercar fango anche là dove fango non c’è. E la verità rimane orfana. Si perde nel magma politico. Viene stritolata.

Leggo qua e là nella lettera pastorale del 1938: “E’ necessario ricordare i non pochi acattolici che abbiamo nella città e in qualche altro centro della diocesi e da cui dobbiamo tenere lontani i nostri figli spirituali, perché, anche prescindendo dal pericolo di perversioni, è fuori di dubbio che i frequenti contatti con quanti non professano la nostra fede, sono generalmente dannosi alla coscienza cristiana. Vedete adunque, o sacerdoti, che i fedeli non leggano la stampa degli acattolici che si diffonde con tanta intensità; che i nostri fanciulli non frequentino compagni di altra fede; che le giovinette non si mettano a servizio di acattolici e che nessuno assista alle adunanze, alla conferenze, ai funerali di chi non professa la nostra religione. E’ troppo facile che si ingeneri nelle anime dei fedeli la convinzione che ogni religione è buona e ugualmente accetta a Dio”.

E in un’altra lettera del febbraio 1939: “La Chiesa in ogni tempo ha giudicata la convivenza con gli ebrei pericolosa alla fede e alla tranquillità del popolo cristiano… La Chiesa non ha mutato per nulla la sua disciplina riguardo agli ebrei e raccomanda di non mettersi a servizio di famiglie ebree; di non ammettere in casa domestici ebrei; di non affidare i propri figli per l’educazione a maestri ebrei, però tutto questo non in vista della loro stirpe, ma della loro fede che non è la nostra fede”.

Dalla Costa scrive subito dopo: “La Chiesa vietando i contatti dei suoi figli con gli ebrei, li ha sempre benevolmente accolti”. Ma se si convertono, se sono “sinceramente bramosi di convertirsi alla vera fede di Cristo”.

Però, di fronte alle richieste di battesimo di quel tempo di persecuzioni, “La Chiesa è inflessibile: mantiene la sua disciplina riguardo al battesimo degli infedeli e dei figli degli infedeli”. C’è da rispettare il codice del diritto canonico.

Decido di farle vedere a Bilenchi. Accetta di esaminarle attentamente.

“Certo, - dice alla fine di una lettura lenta e meditata – fanno impressione. Ma dopo l’8 settembre del 1943, Dalla Costa – come gli altri vescovi toscani – mise su una rete di soccorso”.

“Sì, l’ho letto da qualche parte. Ma questi documenti fino a quella data cosa provocarono?”

“Non penso che…”.

“E ancora: chi ci dice che quella rete fu immaginata più per carità nei confronti dei singoli che non verso una comunità colpita in maniera così ingiusta, terribile?”

“Claudio, per favore, non andiamo oltre il segno. Va bene, d’accordo, Dalla Costa non è un santo. Ma di qui a metterlo sulla graticola, in pasto all’opinione pubblica, il passo è duro”.

“E ti chiami fuori?”

“Di questo passo non si finisce più. S’alimenta il fiume di veleno, che è già in piena”.

“Sai, avevo pensato di darne una copia alla Volpe, che non sapeva, che era completamente all’oscuro e si rifiutava di crederci. Poi me ne sono dimenticato. Le ho ritrovate ieri sera, per caso, sistemando alcune cose”.

“Dovresti darle alla Mazzei, che va dicendo, convinta, che è un santo, come don Facibeni e La Pira”.

“La ritieni una fanatica?”

“No, per carità. Direi piuttosto un’ingenua”.

“Che La Pira porta in palmo di mano”.

“Ce n’è, di gente, che La Pira porta in palmo di mano.  Nicola Pistelli, per esempio”.

“E’ giovane, di grande qualità. E’ il padre della rivista San Marco”.

“Non solo. E’ uno che sta scombussolando la Dc, che s’è messo in prima fila ad appoggiare La Pira anche contro il parere di Fanfani. Non è vero che Fanfani ha gradito la candidatura. Hanno addossato i no fiorentini  a certi personaggi. E’ stato la Volpe a metter su zizzania. Per fargli le scarpe, a La Pira”.

“Per conto di chi agiva?”

“Difficile dirlo. Non certo per conto di Renato Branzi, che andava dicendo che, se volevano portare uno di loro, un democristiano, a Palazzo Vecchio, dovevano affidarsi al siciliano La Pira”.

“E allora chi? Il Mandragola?”

“Non poteva agire da solo. Anche perché c’è lì, a dimostrarci il contrario, la sua fine”.

“Credi al complotto?”

“Cerco di dirmi che non è possibile, poi però mi trovo di fronte a una morte violenta. La sensazione – purtroppo soltanto sensazione – che sia stata un’esecuzione. E non certo avvenuta nell’ambiente degli omosessuali. Mi rifiuto di credere a una storia di questo genere”.

“Non ti togli dalla mente quei mozziconi di frasi”.

“Non riesco. Mi ci provo, ma non ce la faccio”. Mi rendo conto che abbiamo deviato dal problema Dalla Costa. La lingua batte dove il dente duole.

Bilenchi prende le copie delle lettere di Dalla Costa e me le porge. “Pensiamoci su ancora un po’. Sono documenti che non scadono”.

Mormoro: “Va bene”. Sono poco convinto. Ma il direttore è lui ed è persona retta.

 

62.

Nicola Pistelli è l’uomo nuovo della Dc. Uno che ha scritto sulla rivista San Marco che la Dc ha dominato nel dopoguerra non su una precisa teoria economica, ma su una generica impostazione etico-sociale.

Una Dc satolla di piccoli-borghesi fino al gozzo, in nome dell’interclassismo.

E’ uno, Pistelli, che ha avuto il coraggio d’affermare: “Tra me e un cattolico monarchico, fascista, liberale, di comune non c’è che il battesimo, quello stesso battesimo che mi accomuna alla maggior parte dei comunisti. Quanto al resto mi sento più lontano dal pietismo ipocrita e insensibile di una classe che va a messa la domenica e sorride, assente, sulla fame dei propri dipendenti operai e contadini che dall’ateismo incosciente e storicamente spiegabile di qualche indurito uomo in tuta”.

Cerco La Pira per parlare di Pistelli.

Non lo trovo.

“Quando posso incontrarlo?”, chiedo.

“Non lo sappiamo”, è la risposta.

“Non lo sapete? Ma dov’è andato?”. Il silenzio. Strano. Mai successo. “Potete dirgli che ho bisogno di parlargli?”

“Sì, se riusciamo a contattarlo”.

“Come sarebbe?”

“No. Volevo dire che glielo diciamo quando lo sentiamo. E lo sentiamo presto”.

“Ma dov’è?”

Nessuna risposta. “Buongiorno”.

Rimango di stucco. Cerco un telefono e chiamo Bilenchi. Gli racconto la telefonata. E concludo: “C’è qualcosa che non mi quadra”.

“Dio, come sei diventato”.

“Colpa mia se la gente fa cose strane?”

“Che pensi?”

“Non so”.

“Sta male?”

“No. Non è una questione di salute. Deve essere un’altra cosa”.

“Politica? Una riunione politica o un incontro, da qualche parte, con qualche gruppo d’operai con il posto in bilico”

“No, m’avrebbe informato”

“Ci sta che, questa volta, la questione sia da trattare lontano da occhi e orecchi indiscreti”.

Non riesco a convincermi. Cerco Chiara. La trovo alla sua scrivania.

“Che hai?, mi chiede corrugando la fronte. S’è accorta che sono preoccupato.

“Senti, hai fatto il giro?”

“Non completo”.

“Cosa ti manca?”

”Il più e il meglio: carabinieri e polizia. Perché me lo chiedi?”

“Li senti per telefono?”

“No, vado tacco tacco. Dioneguardi, con Bilenchi, fare il giro per telefono. Piove, nevichi, tiri vento e il solo spacchi le pietre, devo farlo tacco tacco”.

Lo so. Anche a me chiede di fare altrettanto. Stamani non sono andato di persona, ho telefonato e il gioco è stato facile per chi mi ha risposto. Mi dò del coglione quando m’accorgo d’avere sbagliato.

Bilenchi non mi ha detto niente, ma so che, prima o poi, me lo farà rilevare. Pesare, no. Non è da lui.

Chiedo a Chiara: “Posso accompagnarti?”

Chiara sbotta: “Perché non parli limpido? Che bolle in pentola?”

“Me lo devi dire te”.

“Io?”

“Devi fare alcune domande con prudenza”.

“Su che o chi?”

“Su La Pira”.

“Su La Pira?”

“Se è successo niente a La Pira”.

“E cosa dovrebbe essergli successo?”

“Non lo so”.

“Claudio, che hai oggi?”

“Ho che non riesco a trovare La Pira. Non è nel suo ufficio e non sanno, meglio: no vogliono, dirmi dov’è”.

“Sarà impegnato in qualcosa di delicato. Non è che sia tenuto a informarti su tutto, anche se sei diventato suo amico”.

“La pensi come Bilenchi. Invece, io ho la sensazione…”.

“Tu sapessi quante sensazioni ho durante il giorno…”.

“Prendimi sul serio e non avere la memoria corta. C’è lì, irrisolto, il caso della Volpe”.

“L’ho presente costantemente. E’ in cima ai miei pensieri”.

“Sembra di no, se dimentichi quel che m’ha detto in punto di morte”.

“Non lo dimentico. Ritengo, però, che se La Pira fosse stato rapito, una notizia del genere ci sarebbe arrivata subito. A me sembra che esageri”.

“Posso venire con te?”

“Puoi venire”, fa Chiara, seria.

 

63.

Tutto nella norma, da carabinieri e polizia. Le solite cose, stamani. Due suicidi – stanno aumentando a Firenze? -, un tentato furto, un incidente con un ferito grave nella zona del Ponte alla Vittoria, e una lite tra coniugi, in via Ghibellina, finita all’ospedale: feriti marito e moglie.

 

64.

Mi presento, il giorno dopo, alla segreteria di La Pira, in Palazzo Vecchio.

“Il sindaco non c’è”.

“Quando posso trovarlo?”

“Forse domani”.

“Ma dov’è?”

“Ha impegni”.

“Di che tipo?”

“Non siamo autorizzati a dare informazioni in questo senso”.

“Non è che nascondete qualcosa?”.

“Ma che le viene in mente?”

 

65.

Vorrei avere altri pensieri. Ma come fo? Anche il terzo giorno non trovo La Pira. E non mi soddisfano le risposte che ottengo.

“Direttore, che devo pensare?”

“Per l’amor del cielo, mantieniti calmo”.

“Sono calmo”

“Non mi sembra”.

“Annuso qualcosa di strano”.

“Ti sei messo a fare il segugio?”

“Sono curioso. Lo sai che sono curioso, che non mi accontento delle apparenze. Nonostante questo, quanto pensi che metta insieme, di verità, in capo a una giornata? A sprofondare, il dieci per cento. Il resto rimane sommerso, impenetrabile. E questo mi disturba. Se mi salta in testa, la notte, non ci dormo. Mi logoro”.

“Non credo che La Pira ami il sotterfugio”.

“Neanch’io”.

“E allora?”

“Temo che sia costretto”.

“Costretto? Non riesco a capire”. Bilenchi quasi si diverte. Io, no.  E lui:“Non dirmi che pensi a quel poco che t’ha farfugliato la Volpe in punto di morte. Quel ra. Che, per me, può significare tutto e nulla, e per te, invece, ha un solo significato: rapimento. Ma non pensi che, se La Pira fosse stato rapito, a quest’ora lo saprebbe il mondo?”

“Chi ti dice che, essendo una notizia clamorosa, non la tengano segreta per non creare chissà quale sconquasso nell’opinione pubblica?

“Ne hai parlato con Chiara?”

“La martirizzo”.

”Che sostiene?”

“Ha un po’ di dubbi”.

“Non ti fidi di lei?”

                                                                                   Riccardo Cardellicchio

  

 

Fine settima puntata

 


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