Si chiamava Natale, ma tutti lo chiamavano affettuosamente Lino.
Non avendo più i genitori, era il figlio di tutti. Nel paesino appollaiato sui monti erano rimasti in pochi e tutti anziani.
Il paesino si chiamava Rimafacile e fin dal tempo dei tempi vi si parlava in rima. Chiunque sostasse in quel paesino, sia pure per un giorno solo, parlava in rima senza nemmeno farci caso: veniva naturale.
Per le viuzze di Rimafacile girava qualche gallina, un bue e un somarello, due cani e tre gatti. Una volta a settimana un piccolo gregge veniva a pascolare sotto gli olivi, sorvegliato a distanza da un pastorello.
Lino faceva il garzone alla Locanda dell’Arcangelo, al servizio di Severino e della moglie Zena.
Alla locanda si fermava la gente diretta al Montano dell’Orco per la frangitura delle olive, i pellegrini che andavano in visita all’eremo dei monaci cioccolatieri, i mercanti di bestiame che si recavano alla fiera di san Peppello.
Un giorno che pioveva, arrivò alla locanda un giovane aitante e ben vestito e chiese se poteva fermarsi per la notte e forse anche per la notte seguente.
Non aveva altri bagagli che un baule di cuoio e legno rinforzato da borchie dorate.
Severino e Zena si prodigarono per mettere l’ospite a proprio agio, speranzosi che si trattenesse più a lungo di quanto previsto.
– Lino, non far mancare nulla al signore, trattalo con ogni onore, – raccomandarono al loro garzone prima di ritirarsi per la notte.
Lino dormì su un pagliericcio, steso dinanzi alla stanza occupata dal forestiero. Dormì con un occhio solo, pronto ad intervenire al più piccolo cenno di chiamata.
La notte passò tranquilla, la mattina splendeva il sole; il giovane ospite si alzò fresco e riposato, fece un’abbondante colazione e chiese ad Lino:
– Come passare un giorno lieto in un paesino così quieto?
– Ti porto, mio signore, al ruscello del cantore.
Andarono. Ascoltarono la voce delle acque canterelle e dei pioppi fruscianti, ma poi il giovane sbadigliando disse:
– Il fiume scorre beato, ma io mi sono annoiato.
– Ti porto, signor mio, alla tana del coniglio.
Andarono. Ma il coniglio aveva tanta paura che non si fece vedere né sentire, e dopo un po’ il giovane disse:
– Il coniglio sta rintanato, e io mi sono stufato.
– Ti porto, signor bello, alla grotta del coltello.
Andarono. Dalla volta della grotta pendeva una stalattite che pareva un lunga lama affilata pronta a infilzarsi sui visitatori. Disse subito il giovane:
– Questa grotta non mi piace, me ne vado in santa pace.
– Ti porto, buon signore, alla sponda del dolore.
Andarono. S’inerpicarono lungo un pendio accidentato fino a raggiungere un piccolo parapetto di roccia, che li divideva da un burrone. Il giovane guardò di sotto, si sentì in pericolo e disse:
– Questa sponda non protegge, il burrone è fuorilegge.
– Ti porto immantinente al covo del serpente.
Andarono. Discesero lungo un dirupo che portava alla gola di un fossato e si appostarono presso un folto canneto brulicante di vita acquatica. Il giovane lottando con insetti, roditori e alghe disse:
– Il serpente non s’è visto, e io son tutto pesto.
– Ti porto, sacripante, alla valle dell’Infante.
Andarono. Nella valle trovarono un albero cavo, dove dormiva un bambino tutto nudo, con una coroncina in testa a sette punte. Il giovane restò a fissarlo a lungo senza parlare. Il bambino si destò e subito scese dal suo rifugio. S’incamminò sulle sue gambette esili e Lino e il giovane gli tennero dietro.
Il bambino arrivò dove pascolava il piccolo gregge, e bevve il latte che il pastorello gli porse dentro una ciotola di legno. Poi disse canticchiando:
– Mi chiamo Fortunello e son fratello dell’agnello.
Il pastorello tirò fuori il suo zufolo e si mise a suonare, e l’Infante si mise a girargli intorno facendo dei grossi capitomboli. Ma si rialzava subito rimbalzando come una palla di gomma e riprendeva il suo girotondo.
Il giovane si era seduto e guardava rapito la scena. Lino guardava il giovane e lo vedeva molto interessato.
Il pastorello continuava a soffiare aria nel suo piccolo strumento, l’Infante a girare.
La mattinata passò rapidamente. Lino disse al giovane:
– Ti attende alla locanda una zuppa alla pavese e per finire quella inglese.
– Non ho fame, giuraddio, ma soltanto un gran desio.
A queste parole l’Infante smise di saltellare e trotterellando si accostò al giovane.
Anche il pastorello smise di suonare e Lino addirittura di respirare.
Non si sentiva volare una mosca, nemmeno un belato si alzava dal gregge.
Disse Fortunello:
– Son l’Infante portoghese, senza casa né paese.
Rispose il giovane:
– Sono il principe reale, senza sudditi e reame.
Lino e il pastorello non dissero nulla. Cosa potevano dire, poveretti, al cospetto di tanta grazia?
Disse ancora Fortunello:
– Senza il pastorello io non sarei vissuto, è lui che mi ha salvato è lui che mi ha nutrito.
Rispose il principe reale:
– Senza Lino qui non sarei arrivato, è lui che mi ha guidato è lui che mi ha aiutato.
Dopo questo scambio di complimenti sinceri, si trovarono tutti e quattro uniti in un abbraccio.
Il pastorello tirò fuori uno spicchio di pagnotta e uno di cacio, riempì di latte la ciotola del piccolo e tutti mangiarono in letizia.
Lino pensava alla locanda e ai suoi padroni e disse al giovane:
– Mio principe reale, è ora di rientrare.
– Sicuro, mio scudiero, vi seguo su al maniero. Ma come abbandonare l’Infante e il suo badante?
– Portiamoli con noi, da Zena e Severino, che sono brava gente e non rifiutan niente.
Disse il pastorello:
– Io resto col mio gregge e non c’è problema, vi affido Fortunello senza alcuna tema.
Andarono, Lino, il principe reale e l’Infante e presto arrivarono alla Locanda dell’Arcangelo.
Trovarono tutti in subbuglio per il ritardo, non solo Zena e Severino ma anche tutti gli abitanti di Rimafacile, che era un paesino unito e compatto.
Anche le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti erano tutti presenti.
Lino dette le sue spiegazioni in rima baciata, ma non tutti volevano credere al suo racconto.
Una voce disse:
– Lino Lino, che mi prendi per cretino?
Un’altra voce disse:
– Infante portoghese e principe reale, mai si videro in paese!
Intervennero Zena e Severino:
– Lino è come un figlio nostro, noi crediamo a quel che dice e se mente si smentisce.
Rispose Lino:
– Non mi posso sconfessare, io non posso ritrattare. Lo vedete pure voi, che non son venuto solo: qui al mio fianco li vedete, Fortunello e il nobiluomo.
La gente guardò, ma al fianco di Lino non vide nessuno.
Il giovane e il bambino sembravano spariti nel nulla.
Lino si girò attorno, costernato.
Le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti si allontanarono sdegnati.
Zena e Severino si guardavano imbarazzati, senza sapere che pensare e che dire.
– Signori, qui è la prova che son regnante, al pari dell’Infante.
Tutti si volsero a quelle parole.
E rimasero sbigottiti.
Sulla porta della locanda, riccamente vestito con un abito di broccato intessuto di fili d’oro e d’argento, con un cappello piumato e la spada con l’elsa tempestata di gemme, stava il principe reale. E sulle sue spalle, coperto da un candido vello, la coroncina a sette punte ben ritta sulla testa e un piccolo scettro in mano, stava l’Infante.
Diceva la gente:
– Oh, oh, oh che mai si vede, oh, oh, oh non ci si crede!
A quelle esclamazioni di meraviglia anche le galline, il somarello, i cani e i gatti tornarono e s’intrufolarono tra la folla.
Si udì la vocina dell’Infante:
– Io son figlio del monarca dell’impero Schiendidrago; mi han tradito i miei fratelli ambiziosi del potere, io non voglio ritornare in quel regno del terrore.
Parlò il principe reale:
– Io son principe di sangue dello Stato Agrigentino; la mia corte rinnegata mi ha buttato per la strada, vado esule vagando ma non torno in quel serparo.
Diceva la gente:
– Oh, oh, oh che mai si ode, oh, oh, oh che brutta ode!
S’intromise Severino:
– Beh, sapete un po’ che c’è? Rimafacile è un paese senza glorie né pretese. Ma cortese è la sua gente, ospitale e transigente; a un buon sangue nobiliare si potrebbe anche mischiare…
Aggiunse Zena:
– Ha ragione il mio consorte: qui la vita va a rilento, ci vorrebbe un cambiamento.
Disse il popolo:
– Vivaddio, qui si parla di futuro; siam ridotti a pochi e niente, ci si spegne, ci si arrende. Ci vorrebbe veramente una rotta di corrente.
Intervenne Natale detto Lino:
– Io sono Natalino e prendo la parola: prima di cicalare, si è chiesto a lor signori se vogliono restare?
Tutti risposero:
– Giusto, giusto, sacro e santo: a chi spetta l’incombenza di chiedere un’udienza?
Intanto si era fatta notte. Tutti avevano fame e nessuno aveva voglia di lasciare la pubblica assemblea.
Zena e Severino si dettero uno sguardo, chiamarono Lino e partirono alla carica.
In men che non si dica, una tavolata di qualche centinaio di posti era imbandita nel salone della Locanda dell’Arcangelo.
Al posto d’onore, ai due estremi della tavola, sedeva il principe reale e su un seggiolone di legno imbottito l’Infante.
Cosicché, tra una portata e l’altra, tra una coppa e l’altra di vin di bosco, la conversazione prese vita e si svolse nella maniera più aperta e piacevole.
Il principe reale e l’Infante si dissero ben lieti di restare a Rimafacile, quali illustri rappresentanti della sia pur minima cittadinanza.
La cittadinanza a sua volta disse di sentirsi onorata per tanta insigne appartenenza.
Ma, c’era un ma. A tirarlo fuori fu Zena, sostenuta da Severino:
– In questo paese c’è un giovane solo, non c’è fanciulla da maritare.
– Come pensare a un avvenire senza un bimbo da accudire?
La situazione, così concisamente descritta, apparve in tutta la sua gravità.
La popolazione di Rimafacile si sarebbe estinta in breve, se non si fosse trovato il modo di ricominciare il ciclo della vita.
A quel punto qualcuno bussò alla porta della Locanda:
– Toc, toc, si può entrare? Siam venuti a festeggiare.
Rispose Severino:
– Entra pure, chi tu sia, benvenuto a casa mia.
Entrarono due bei giovani, bruno lui e bionda lei:
– Corre voce nei paraggi che si cercan dame e paggi. Siam venuti qui d’urgenza per portar nostra presenza.
Tutti i convitati guardarono i nuovi arrivati, chiedendosi come mai avessero appreso così in fretta la novità; poi tentennarono il capo: come al solito le galline, il bue e il somarello, i cani e i gatti avevano sparso in giro, chiocciando, muggendo, ragliando, abbaiando e miagolando i fatti di casa loro.
Altri giovani arrivarono dai paesi vicini, richiamati dal bando dato a voce d’animale, e per ultimi anche il pastorello con la sua pastorella; tutti volevano trasferirsi nel paese di Rimafacile, dove risiedevano ben due principi reali.
La gente di passaggio diretta al Montano dell’Orco, all’eremo dei Monaci Cioccolatai e alla Fiera di Peppello si fermava come al solito alla Locanda dell’Arcangelo per fare sosta, ma poi non ripartiva.
Per farla breve, Rimafacile rifiorì e in capo a un anno il numero dei suoi abitanti si era raddoppiato, contando anche i numerosi bambini nati uno dopo l’altro in primavera.
Il principe reale e l’Infante dimoravano in un’ala della locanda, ma si stava costruendo per loro un maniero con quattro torri, che avrebbe accolto anche la loro corte.
Un giorno arrivò a Rimafacile una famiglia di saltimbanchi, madre padre e quattro figli, fra cui una bambina e una fanciulla; erano diretti alla fiera, ma non proseguirono e si sistemarono col loro carrozzone vicino alla locanda.
Il principe reale vide la fanciulla e se ne innamorò.
L’Infante vide la bambina giocare con un cerchio e subito corse a giocare con lei.
Zena e Severino, cui nulla sfuggiva, dissero:
– La fanciulla è molto bella, non da meno è sua sorella.
– Ecco i principi reali, bene e meglio sistemati.
In quel momento videro Lino arrivare con un canestrello di fragole boscherecce, rosso in viso e contento come non l’avevano mai visto prima; una fanciulla gli volteggiava intorno con leggiadria, dicendogli:
– Natale Natalino, i tuoi frutti son speciali, mai fragole di bosco io ne mangiai di uguali.
Zena e Severino si guardarono e dissero bisbigliando:
– Anche lui avrà trovato la donzella da impalmar?
– Moglie mia non ci affanniamo, se son rose fioriranno.
E tante rose fiorirono infatti nel paese di Rimafacile, il piccolo regno dell’uguaglianza e della fecondità.
Maria Lanciotti