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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. VI
Giorgio La Pira
Giorgio La Pira 
21 Dicembre 2008
 

42.

“Non case ma città”. Qualcuno confonde. Pensa che si sia rimangiato tutto. Lo slogan, invece, sollecita tutti a pensare alla città non come agglomerati di case, disumanizzanti, ma a seni amorevoli, in grado di confortare gli ultimi, di toglierli da condizioni d’inferiorità.

E’ un pomeriggio indolente. Frugo tra gli appunti per tirare su un’idea che m’ispiri un articolo.

Il telefono squilla sul tavolo del redattore capo.

Lo vedo farsi serio. Mi fa cenno di raggiungerlo. Mette una mano sulla cornetta e dice piano: “Ci sono problemi alla Pignone”.

Problemi enormi, scopriamo. Si paventa la chiusura. La Snia Viscosa ha annunciato la chiusura degli stabilimenti. Duemila persone a casa. Come dire duemila famiglie nel dramma. Firenze non può permetterselo.

La Pira scende in campo. Confindustria non vorrebbe. Parla d’ingerenza indebita.

“Ingerenza indebita? Io sono un testimone del vangelo. Ai miei occhi l’autorità appare solo come tutrice dell’oppresso contro il potente”.

Gli operai occupano lo stabilimento.

La Pira dice: “Sono con loro”.

Apriti cielo. L’accusano d’essere un servo sciocco dei comunisti.

Scrive a tutti. All’amico Fanfani, ministro degli Interni, ai politici nazionali, agli uomini di cultura, ai vescovi toscani, agli industriali, a Pio XII. “Non posso tacere. – dice e ripete – Ho il dovere di difendere i deboli”.

Fanfani gli rimprovera d’essersi schierato, d’approvare l’occupazione della fabbrica da parte degli operai. Un sindaco non deve farlo, non deve approvare un atto illegale. Un sindaco deve essere più prudente.

La Pira m’allunga la copia della risposta a Fanfani. “La pubblichi  - dice – E’ giusto che la gente sappia”.

E’ una lettera che butta benzina sul fuoco.

“Figurati se io posso rinunziare alla verità e alla giustizia per servire alla lettera la legge. E poi: quale legge? Guardare senza operare alle iniquità che si nascondono sotto i velami della legge? Leggi che hanno un solo destinatario: il disgraziato, il povero, il debole; per caricare su di lui altri pesi ed altre oppressioni”.

Aggiunge, senza timore, lui democristiano non iscritto: “Dopo dieci anni di regno politico della Dc siamo al punto di dover temere (almeno per me) le stesse iniquità che si temevano al tempo del fascismo. Fra i potenti e i deboli la scelta è pei potenti: fra i pochissimi industriali (una ventina) ed i milioni di lavoratori, la scelta è pei pochissimi industriali; venti uomini ricchi, forse corrotti, comunque corruttori (perché hanno in mano la stampa e se ne servono per fini di una manifesta ingiustizia), comandano al governo, al parlamento, al Paese”. E grida: “Non tradirò mai i poveri, gli indifesi, gli oppressi: non aggiungerò al disprezzo, con cui sono trattati dai potenti, l’oblio o il disinteresse dei cristiani”. E a Fanfani, direttamente a lui, gliela dice dura: “Ogni tanto tu ti ricordi d’essere anche ministro degli Interni: ma allora – proprio allora – io mi sento staccato: riprendo la mia libertà totale, la mia permanente franchigia di uomo che non ha mai chiesto di essere dov’è e mi sento libero, anarchico, a Dio solo soggetto”.

I sindacati sono soddisfatti dell’appoggio di La Pira. Li aiuta.

La Pira mi dice: “Dobbiamo salvare posti di lavoro, ma anche evitare la chiusura ingiusta di un’azienda che va bene, che è florida, uno dei motori trainanti dell’economia fiorentina, che può diventare un fiore all’occhiello addirittura dell’economia italiana”.

Non è carità, quella di La Pira, dicono i sindacati.

Un sindacalista afferma: “La Pira si muove in base a un piano preciso, un piano industriale vero e proprio. Un piano pensato, ragionato. Lo abbiamo studiato con lui. Lui ci dedica ore, ogni giorno”.

La Pira non si ferma. A Pio XII si rivolge in termini chiari. Nell’ultima lettera – ne ha scritte quattro nel giro di pochi giorni, tema sempre la Pignone – afferma: “Questo episodio drammatico – di dimensioni così vaste – è un sintomo grave dell’intiera situazione italiana: è la dimostrazione più chiara dell’attuale condizione di radicale inferiorità giuridica, politica e umana, nella quale sono posti tutti i lavoratori italiani: è un sintomo della strutturale incapacità dello Stato a difendere i deboli: ed è un indice sicuro dell’evoluzione politica italiana nei prossimi mesi ed anni: l’immensa moltitudine dei lavoratori e delle proprie famiglie, vista l’incapacità strutturale di questo Stato, si volge – sbagliando – verso esperienze politiche diverse nelle quali soltanto, ormai, spera di trovare un pane ed una comprensione”.

 

43.

La stanchezza (non voglio perdere un colpo di quel che sta avvenendo) mi fa saltare addosso una febbriciattola, che – soprattutto nel pomeriggio – mi fiacca.

Chiara è preoccupata. Non è d’accordo che io dorma a casa mia. Qualcuno ha detto che non sta bene vivere insieme, e io non voglio che abbia problemi.

Girano già certi veleni. La nostra storia non è ben vista. Non riesco a capire perché. Forse vorrebbero vederci sposati. Ma, noi, non ci pensiamo proprio.

“E’ tutta invidia”, è solita dire Chiara, con un’alzata di spalle e uno dei soliti sorrisi disarmanti. “Te dormi a casa mia, caschi il mondo”. Vuole tenermi d’occhio. Vuole controllare la febbre in piena notte. Vuole prepararmi la camomilla. Vuole rifilarmi pasticche misteriose.

“Sai, - le dico una notte che il sonno non vuole proprio venire – La Pira m’ha confessato che si è innamorato di San Tommaso, che si sente sempre più apostolo laico. Consacrato. Eppoi, passando a un altro argomento, d’improvviso, come fa lui: che lo Stato deve essere per la persona e non la persona per lo Stato”.

“Ti ha conquistato. Ammettilo”.

“E’ disarmante. E m’inquieta spesso”.

“M’incuriosisce il suo rapporto con la Mazzei”.

“Qualcuno li chiama Chiara e Francesco”.

“E’ bello l’accostamento”.

 

44.

“Una mattina, La Pira dice, assaporando il sole che penetra nell’ufficio: “Deve saperla, questa cosa. Io non sono stato sempre credente. A vent’anni, per Pasqua, mi sembra che fosse il 1924, alla messa, dov’ero andato per non dispiacere i miei genitori, è successo qualcosa in me che non so spiegare, che mi ha portato a pensare a Dio in modo diverso, a quanto fosse bello consacrarsi a lui, fare apostolato nel mondo”.

E un secondo dopo: “Sa, qualche volta mi sento stanco. Ma basta che mi fermi un momento, per rivolgermi a Dio, che sono pronto a ripartire. Come farei, sennò? Alla Pignone s’è unita la vertenza della Galileo e della Fonderia delle Cure. Quanti posti di lavoro in pericolo”.

“Gli industriali sostengono che lei, aggrappandosi al vangelo, vorrebbe risolvere problemi che sono enormi, che superano le competenze di un sindaco”.

“Parlo, grido, il cuore gonfio dal dolore, perché mi trovo di fronte a cecità, a tanta ingiustizia. Sono in trincea, in prima linea. Mi si dica come posso non esserci. Tocco con mano, ogni giorno, la realtà: un fiume di malessere, che sgorga dalla disoccupazione, dalla miseria. E cresce. E le dighe sono fragili”.

 

45.

Il medico mi dice che dovrei riposarmi, che non sarebbe male facessi alcuni accertamenti. La febbriciattola non m’abbandona.

“Gli accertamenti – dico – posso farli. Ma di mettermi a riposo non se ne parla. E’ un momento particolare, delicato, per Firenze. Non posso chiamarmi fuori”.

“Capisco. Però corri il rischio di farti del male, molto male. Chiara s’è raccomandata”.

Gli esami non evidenziano niente d’eccezionale. Sono solo molto stanco e ho bisogno di mangiare in modo più regolare. Vanno banditi i panini alle ore più strane.

 

46.

Il messaggio alla radio di Pio XII sembra avere un altro obiettivo più che il Natale. Sembra avere come obiettivo La Pira. Con le sue idee così spiazzanti, che confondono i buoni cattolici. Anche don Luigi Sturzo non è stato tenero con lui. Gli ha dato del comunista. Non è una novità. E può lasciarlo perdere. Il papa, no. Al papa deve rispondere.

 

47.

Chiara – sono quasi le tre di notte – sta infilando la chiave nella toppa del portone, alla luce fioca di un lampione, quando li vedo. Sono tre. Non capisco subito le loro intenzioni. Le capisco quando m’accorgo dei manganelli.

“Entra. Entra”, urlo. Chiara s’impaurisce, s’impappina. Alla fine riesce ad aprire. Le dò una spinta per farla entrare e mandarla lontana. Poi mi volto e ce la fo a evitare una manganellata alla testa. La seconda, però, mi fiacca il braccio sinistro.

Con un balzo sono nell’andito e li sorprendo. Con un calcio chiudo il portone prima che possano superare la soglia. Uno urla: “Sporchi comunisti”.

Il braccio mi duole. Chiara è caduta e ha battuto il ginocchio sinistro.

“Ma chi sono?”, chiede con il fiato grosso, impaurita.

“Non lo so. Ci hanno chiamati sporchi comunisti”.

“E’ terribile. Volevano farci male”.

“Penso proprio di sì. Volevano noi. Sapevano l’indirizzo, il tuo indirizzo. Significa che ci hanno pedinati”

“Perché?” Chiara trema mentre sale le scale.

“Il clima di questi giorni non è dei migliori. La posta in gioco è alta. E qualcuno mesta nel torbido”.

“Sporgiamo denuncia?”

“Domani ci pensiamo. Domani ne parliamo con Bilenchi. Comunque, una cosa è certa: devi cambiare casa”.

“Ma io faccio cronaca nera. Che c’entro con le storie di oggi, storie politiche?”

“Lavori al Nuovo Corriere. Basta questo”.

Chiara disinfetta lo sbuccio imprecando. “Non sopporto il bruciore”.

Io mi massaggio il braccio, che sta diventando nero pece.

E’ una notte d’inquietudine.

Chiara, a un certo punto, s’alza e va in cucina a leggere un libro.

Io rimango a letto, sveglio, la mente in movimento. In attesa dell’alba.

 

48.

Bilenchi non ha tentennamenti. Denuncia il fatto a carabinieri e polizia e ordina un bel pezzo da mettere in prima. Titolo: aggressione fascista a due cronisti del Nuovo Corriere.

La Pira telefona per esternare la sua solidarietà. “Un atto inqualificabile”

Solidarietà arriva un po’ da tutti. Non mancano i colleghi della concorrenza.

“Le battaglie politiche non si vincono con le intimidazioni e le aggressioni”, dice un veterano.

Un altro, con più coraggio, parla d’attentato alla libertà di stampa.

 

49.

Don Sturzo, sul Giornale d’Italia, torna a bacchettare La Pira. Afferma: “Sostiene la lotta di classe”. E poi: “Certi cattolici dovrebbero finirla con il vagheggiare una specie di marxismo spurio, buttando via come ciarpame l’insegnamento cattolico-sociale della coesistenza e cooperazione tra le classi e invocando un socialismo nel quale i cattolici perderebbero la oro personalità e la loro efficienza”.

Accuse pesanti.

Gli risponderà a tempo debito, a don Sturzo.

L’hanno toccato di più le parole pronunciate da Pio XII. Più che un messaggio di Natale gli è sembrato un atto d’accusa nei suoi confronti. Ha parlato di banditore carismatico e ha invocato una politica ferma, anticomunista, senza attardarsi in iniziative sociali.

“Non posso tacere”, m’avverte La Pira. Lo chiama beatissimo padre, lo ringrazia per il paterno richiamo, ma aggiunge parole di fermezza. Parte dalle ingiurie che i cosiddetti giornali indipendenti gli hanno rovesciato e gli rovesciano addosso. Fa nomi e cognomi: Tempo, Giornale d’Italia, Corriere della Sera, Popolo di Roma, Resto del Carlino, Candido, Oggi, La Nazione: tutti mossi da potentissimi organismi economici, finanziari e industriali. “Ma cosa ho fatto? Un accusato, un ingiuriato, ha ben diritto di dire le proprie ragioni. E’ un diritto sacro agli imputati. Ma nel mio caso, no. Quante iniquità hanno visto i miei occhi in questi mesi, quanta menzogna”.

E ancora: “Libertà. Beatissimo padre, quale iniquità si nasconde, viene velata, sotto questo nome così impegnativo e così sacro? Libertà anche di affamare senza ragione? Anche di opprimere senza motivo? Anche di violare la giustizia, la legge?”.

La Pignone. Un caso limite. Unico. S’è impegnato non poco. Ha trovato otto miliardi e centoventi milioni di commesse. Ha telegrafato. Ha pregato. Ha scongiurato. S’è raccomandato a tutti: ministri, industriali italiani e stranieri, politici.

Dice: “Come posso stare a capo di una città ove viene abbattuto l’intero sistema industriale? La marea dei licenziati e delle rispettive famiglie viene da me, a Palazzo Vecchio. Da un sindaco di parte governativa. Sindaco democristiano, credono. Viene da me e mi chiede lavoro e assistenza. E io che potrei fare? Cosa dire? Mi rifugio nella congiuntura economica? Beatissimo padre, quanta dolorosa menzogna sotto queste parole raffinate”.

Sottolinea: “Io conosco le reali possibilità di lavoro delle aziende. Conosco il tessuto d’immoralità e di nequizia che si nasconde spesso sotto le parole che sembrano così pudiche. Sepolcri imbiancati?”

“Gli ho scritto – mi dice un’ora dopo aver finito la lettera – che una cosa è certa: agendo con sdegno, come ho agito, ho impedito milleduecento licenziamenti alla Galileo, ora – grazie a Dio – in piena ripresa produttiva. Ho fermato mille licenziamenti in un’altra ditta, che sembrava cosa fata. E – notizia dell’ultim’ora – pare proprio che sia riuscito a risolvere la crisi della Pignone, facendo riassorbire gran parte delle maestranze e aprendo prospettive d’occupazione per un avvenire diverso”.

“Può essere più preciso?”

“No. In questo momento, no. Non vorrei compromettere tutto. Tra qualche giorno ne parliamo. Spero pochi”. Dice che gli ha scritto dell’altro, al papa. “Io non ho mai voluto essere sindaco. Né, in precedenza, deputato e ministro. Non ho mire politiche di nessun tipo. Non sono iscritto a partiti. Quando hanno voluto che io fossi sindaco, gliel’ho detto chiaramente: non posso vedere né gente senza lavoro né gente senza casa. M’hanno promesso mari e monti. Poi m’hanno abbandonato. E sono cominciati i licenziamenti. E allora gliel’ho detto, quasi urlato: mandatemi via. Accettate le mie dimissioni, che ho dato da due mesi”.

“Non è possibile”, sbotto.

“E’ vero. - dice tranquillo – Io non posso assistere impassibile all’ingiustizia così sfacciata. E’ meglio per tutti che io me ne vada”.

“No”, dico a voce alta, alterata.

“Sono professore ordinario di diritto romano. Ho, per grazie del Signore, il gusto del silenzio, della solitudine, della preghiera. Amo la meditazione e lo studio. Amo la scuola e provo gioia a stare con i giovani”.

“Sindaco… professore…”

“Io non posso avallare, mai, l’iniquità. Non conosco la tecnica del complesso politico e diplomatico. Ho parlato chiaro ai fascisti. Ho parlato chiaro ai comunisti. Parlo chiaro anche ai proprietari che non sono consapevoli delle gravi responsabilità connesse con i talenti che Dio gli affida. Non posso assistere impotente alle ingiustizie che si commettono sotto l’apparenza della legge. Un uomo così fatto non può stare nel sistema politico attuale. E’ bene che ne esca, che rientri nel suo silenzio, nel suo studio,  nella sua scuola”.

“Ha scritto tutte queste cose al papa?”

“Sì”.

“E il suo amore per Firenze? Che ne è di quell’amore che ha messo in primo piano in più d’un’occasione? E’ stato lei a dire: mia dolce e misurata Firenze”.

“Sì. Ma è veramente così? La dolcissima madre del cielo m’assista”.

 

50.

Bilenchi fa capannello nella sua stanza. “Non è possibile. Non può mettersi da parte, ora. Ora Firenze ha bisogno di lui. Ha risolto due vertenze, ma c’è sempre in essere la più grossa: quella della Pignone. E non può lasciarla in sospeso, se è vero che c’è una strada aperta”. Si ferma. Tossisce. “Da due mesi c’è questo macigno su Firenze e quei figli di cane…”

 

51.

Natale. E’ il nostro anniversario. Chiara, però, non si sente di dire un’altra volta di no ai suoi. Sono d’accordo. Ne approfitto per farmi vedere dai miei, che è un po’ che non hanno notizie di me: quasi mi dànno per disperso.

“Stiamo insieme a Santo Stefano”.

La notizia della voglia di La Pira di mettersi da parte ha fatto un bel botto. La destra ci marcia. Cerca di dargli la spallata giusta. I giornali – i soliti – cercano di dare una mano. Ma la Dc fiorentina si mostra unita. Emerge, da una riunione lunga e sofferta della segreteria, una constatazione che non ammette tentennamenti: “Abbiamo bisogno di lui”.

 

52.

“Lo sa, amico carissimo, ho trovato la soluzione giusta per la Pignone. L’ho trovata grazie a un uomo straordinario”.

Chi è?”

“Enrico Mattei. Non il giornalista della Nazione, quello che fa i pastoni illeggibili. Sembra che l’abbia inventato lui, il pastone. No, non si tratta di lui, ma del presidente dell’Eni. Avremo una soluzione pacifica – ride – per un’azienda diventata un gigante producendo armi e che ha tentato, dopo la guerra, di riconvertirsi producendo telai tessili. Enrico Mattei è un  amico, una figura di primo piano, oggi, in Italia. La Pignone, il Nuovo Pignone, avrà altre produzioni. Produrrà tubi. Garantirà l’occupazione. C’è di che far festa”.

 

53.

Firenze tira un sospiro di sollievo. Non i conservatori di Confindustria. I giornali, a loro legati, criticano la conclusione della vertenza.

I liberali cominciano a scalpitare. Aspettano il pretesto per smarcarsi dalla Giunta. E il pretesto arriva. Banale. E’ la concessione, consueta dal 1947, del parco delle Cascine per la festa dell’Unità organizzata dal Pci.

“Amico mio, abbia pazienza qualche giorno. Ho deciso di parlare in consiglio comunale”. In consiglio comunale, La Pira si presenta agguerrito. Non ha alcuna intenzione di farsi condizionare dai liberali. Sembrano lontani i giorni della voglia di dimissioni.

“Rivendico i dodicimila milioni da me trovati, procurati e investiti in opere pubbliche. Rivendico la difesa, decisa, del sistema industriale della città. Confermo l’azione in favore degli sfrattati. In una comunità non bestiale, ma umana, è possibile lasciare senza soluzione un problema così drammatico per la sua improrogabilità e urgenza? Qui sono in gioco i diritti-doveri del sindaco. E, a questo proposito, io ve lo dichiaro con fermezza fraterna. Voi avete nei miei confronti un solo diritto: quello di negarmi la fiducia. Ma non avete il diritto di dirmi: signor sindaco, non s’interessi delle creature senza lavoro (licenziati o disoccupati), senza casa (sfrattati), senza assistenza (vecchi, malati, bambini). E’ il mio dovere fondamentale questo. Dovere che non ammette discriminazioni”.

Da Roma, però, arriva l’ordine di non sfiancare il quadripartito. La Pira non può rimangiarsi la parola con il Pci. Ci pensa il governo: che la festa dell’Unità si faccia da un’altra parte. La Pira incassa.

 

54.

“Li ha chetati ancora una volta”. Gongolo nel parlarne con Bilenchi. “E dire che voleva dimettersi”.

Squilla il telefono. Bilenchi alza la cornetta.

“Sì?”. Ascolta. Poi: “E’ qui”. Mi porge l’apparecchio. “E’ Chiara. Mi sa che ha una storia”.

“Ciao, Chiara. Dimmi”.

“Nel mio giro, ho trovato all’ospedale la Volpe”.

“Che ha fatto?”

“L’hanno trovato stamani, quasi all’alba, due spazzini. In Lungarno Corsini. E’ ridotto male”.

“In che senso?”

“O è stato investito, e il conducente non s’è fermato, o l’hanno picchiato di santa ragione”.

“La polizia che dice?”

“Nulla, per il momento”.

“I medici?”

“Che è messo male”.

“Che c’è da fare?”

“Lui, sia pure a fatica, s’è fatto intendere. Vuole parlare con te. Soltanto con te. E ti consiglio di venire subito”.

“Va bene”.

Bilenchi mi guarda. “Che c’è?”

“Chiara ha trovato la Volpe all’ospedale. In pessimo stato. Vuole parlare con me”.

“Che gli è successo?”

“O è stato investito o picchiato senza riguardi”.

“Vai subito e fammi sapere”.

La Volpe è in fin di vita. Un medico mi sussurra che stanno facendo tutto il possibile. Aggiunge: “Per di più era ubriaco”.

“Ubriaco?”

“Sì, non ci sono dubbi”. “Poi: “Pochi minuti”.

Chiara rimane fuori.

M’avvicino al letto. Il volto della Volpe è un ammasso informe. Gli tocco una mano. Lui sposta la testa di poco. Schiude le labbra. Mi arriva un gorgoglio. Avvicino un orecchio alla sua bocca. Capisco: “Vogliono… fargli del male”.

“A chi?”

“A la…

“A La Pira?”.

Riesce, con uno sforzo enorme, a dire di sì.

“Chi?”

“I suoi…”.

“Cosa vogliono fare?”

“Ra…”. Non riesce a dire altro.

Il medico rientra nella stanza di corsa. Mi fa segno d’uscire. Arriva un altro medico e, cinque secondi dopo, due infermieri.

Rimango fuori con Chiara. In attesa. Dura poco. Il primo medico, quello che m’ha accolto, ci raggiunge e, sconsolato, scuote la testa. “Era ridotto proprio male. Non poteva farcela”.

Mi dispiace. Mi dispiace veramente. M’accorgo di non sapere neanche il suo vero nome. L’ho sempre chiamato la Volpe.

“Che ti ha detto”. Chiara mi guarda curiosa, fuori dell’ospedale.

“Se ho capito bene, qualcuno vorrebbe fare del male a La Pira”.

“Perché, finora, cosa gli hanno fatto?”

“Dovrebbe essere qualcosa di diverso. Se mi ha chiamato, deve essere qualcosa di diverso. Quando gli ho chiesto cosa vogliono fare, m’ha detto soltanto ra”.

“Ra?”

“Sì, ra. Cosa potrebbe essere? Mi viene in mente solo rapina”.

“Rapina? O non piuttosto rapimento?”

“Assurdo. Come si può. Non ci credo. Può darsi che volesse dire qualcos’altro”.

“Se ti ha detto ra, ed è riferito a qualcosa di male, non c’è che rapimento. Perché rapina non fa al caso”.

“Rapire La Pira? Ma perché? Mai sentita una cosa del genere. Per un politico. So di un rapimento, il primo in Italia, avvenuto nel Volterrano”.

“Russo e Cucchiara, i banditi siciliani, se non ricordo male”.

“Non ricordi male. Una storia strampalata, finita con l’arresto dei due”.

“Rapimento per soldi. Ma per La Pira?”

“Per toglierlo di circolazione, visto che diversamente non ci riescono”.

“Folle. Semplicemente folle, se vero”.

“Con un di più”.

“Quale?”

La Volpe è morto perché qualcuno l’ha voluto eliminare. E una persona s’elimina quando non ci si fida di lei o sa troppe cose compromettenti”..

“Stai scrivendo un romanzo”.

“Mi capita qualche volta”.

Al giornale, ci chiudiamo con Bilenchi, che poco dopo chiama il redattore capo, il capocronista e il responsabile degli interni.

“Sei sicuro d’avere sentito bene?”

“Sì”.

“Sicuro?”

“Che devo dirvi?”

“Certo, non è molto”.

“Non è molto, ma sufficiente a far intendere che qualcuno sta complottando contro La Pira”. Chiara ne è convinta. Anch’io ne sono convinto. Tutti e due, comunque, siamo per andare con i piedi di piombo. “Un complotto – insiste Chiara – che prevede il rapimento”.

“Non è cosa da liquidare su due piedi”.

“Non diciamo niente a polizia e carabinieri?”

“Stiamo attenti a non ricoprirci di ridicolo. E’ facile in questioni come questa”. Il redattore capo è scettico.

“Nessuno vuol fare brutte figure. – dice Bilenchi – Ma non possiamo neanche prenderla in coglionella”.

“Sarebbe a dire?”. Il redattore capo sta sulle sue.

“Sarebbe a dire – fa Bilenchi – che Chiara scrive sulla morte della Volpe tirando fuori tutti i lati misteriosi. Senza sposare tesi. Claudio racconta la Volpe. Il politico, senza trascurare la sua posizione nei confronti di La Pira”.

“Era una mezza calzetta, che cercava di mettersi in evidenza e non riusciva a fare altro che il tirapiedi di qualcuno. Di quello che lo pagava di più”.

“E chi ti dice che quel qualcuno non faccia parte del complotto?”. Replico, cerco di replicare, al redattore capo, innervosito.

Interviene Bilenchi. “Procediamo come ho detto e vediamo cosa succede. In più, domani, Claudio, ti presenti a La Pira e lo sondi. Cerca di capire se ha ricevuto minacce o qualcosa del genere”.

  

Riccardo Cardellicchio

  

 

Fine sesta puntata


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