«Di solito si dice di questa o quella persona che non ha ancora trovato se stessa. Ma l'io non è qualcosa che uno trova, è qualcosa che uno si crea».
Thomas Szasz, nato a Budapest, si era trasferito con la famiglia negli USA, per sfuggire alla persecuzione nazista. È laureato in fisica e medicina, specializzato in psichiatria e ha compiuto un training psicanalitico al Chicago Institute for Psychoanalysis. Ha quindi intrapreso l’attività di docenza presso la Syracuse University (N.Y.). Della sua vasta bibliografia sono stati pubblicati in Italia numerosi testi, tra i quali: Legge, libertà e psichiatria, Giuffrè, I manipolatori della pazzia, Feltrinelli, La schiavitù psichiatrica, Il Saggiatore.
Ne Il mito della malattia mentale espone la sua tesi di fondo, che contesta i fondamenti epistemologici del concetto di malattia mentale. Szasz analizza la struttura ideologica della psichiatria e ne mette a nudo le contraddizioni. «Se le malattie mentali sono malattie del sistema nervoso centrale, significa che sono malattie del cervello, e la loro diagnosi e il loro trattamento sono di competenza di neurologi, non già di psichiatri; se invece sono definizioni di condotta riprovevole, si tratta di comportamenti la cui analisi e il cui controllo non pertengono propriamente alla sfera della medicina». Il nucleo della sua critica concettuale consiste nella distinzione tra l’uso letterale e l’uso metaforico della lingua: le malattie sono lesioni anatomiche o fisiologiche dimostrabili, il termine malattia mentale è invece una metafora medica, che viene adoperata per designare ciò che è questione di maniere, di morale, di politica e di giustizia. «Rappresentanti della psichiatria ufficiale hanno proclamato che negavo “i trattamenti salvavita ai pazienti psichiatrici”, affermazione che deformava, senza affrontarlo apertamente, il mio asserto che i comportamenti riprovevoli non sono malattia».
«Per conservare l’integrità, ci sono solo due cose da fare: ascoltare e parlare. Niente altro. Niente farmaci, niente uso della forza, niente persuasione». La psichiatria invece si serve di episodi particolarmente drammatici per giustificare il proprio modo di agire: il serial killer che uccide per motivi apparentemente assurdi, il criminale che commette un’azione nefanda o un delitto particolarmente efferato, che non si vogliono attribuire alle infinite eventualità di cui sono capaci gli umani. In realtà il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.), viene eseguito quasi sempre per motivi banali: scenate di gelosia più o meno incoerenti, conflitti irrisolti che sfociano nell’aggressione verbale, un evento traumatico, un momento particolarmente complicato della propria vita a cui non si viene a capo, o l’incapacità momentanea di affrontare le proprie responsabilità, etc.
Non è possibile fare qui una sintesi compiuta dell’opera di Szasz, i cui testi sono reperibili tramite il Sistema bibliotecario della Provincia di Sondrio; sono tuttavia chiarificatrici le seguenti considerazioni: «La condotta personale segue sempre delle regole; è sempre strategica e ha sempre senso. Modelli di rapporti interpersonali e sociali possono essere interpretati e analizzati come se fossero giochi, in cui il comportamento dei partecipanti al gioco è governato da regole esplicite e tacite». Lo stesso Freud, ammetteva che l’isteria non è una malattia ma un idioma o un linguaggio, non una malattia ma una drammatizzazione o un gioco. Il paziente esprime un messaggio mediante segni del corpo, non verbali; un tipo di linguaggio, cioè, in cui la comunicazione è effettuata per mezzo di immagini (o segni iconici), anziché mediante parole (o segni convenzionali).
«Nella maggioranza dei tipi di psicoterapia volontaria, il terapeuta tenta di far luce sulle non esplicite regole di gioco secondo le quali il cliente si comporta; e tenta di aiutarlo a indagare sugli obbiettivi e sui valori dei giochi della vita così come li conduce».
Thomas Szasz punta i riflettori su un aspetto basilare della psichiatria: è un concetto moderno considerare una persona alla stregua di un automa, vale a dire una persona “allucinata” alla quale “voci” ordinano di commettere un’azione strana, sconveniente o criminale. Accettare ad esempio l’affermazione di un presunto “schizofrenico” che dice di aver ucciso qualcuno perché gliel’ha ordinato la voce di dio, non prova la validità di questa spiegazione. Szasz ritiene che un individuo del genere commette un omicidio (o un’altra azione inaccettabile) perché è ciò che desidera fare, ma rinnega la sua intenzione, cioè anziché riconoscere il proprio movente, definisce se stesso uno schiavo impotente che obbedisce a ordini. Le cosiddette “voci” udite da persone definite schizofreniche sono le stesse che ognuno di noi produce nel suo dialogo interiore. Voci che però queste persone disconoscono come proprie. Ciò trova sostegno negli studi di neuroimaging funzionale (Functional Neuroimaging). Infatti, se queste “voci” fossero un fenomeno di allucinazione dovrebbero accompagnarsi ad una attività dell’area di Wernicke, zona del cervello destinata all’attività uditiva; mentre invece risulta attivata solo l’area di Broca, zona del cervello destinata alla formulazione del linguaggio.
È fasulla l’analogia tra una persona che “ode le voci” e un computer programmato per giocare a scacchi eseguendo i comandi. Le persone che obbediscono alle “voci”, non sono vittime di irrefrenabili impulsi. Conservano il libero arbitrio, ma razionalizzano la propria azione attribuendola ad un’autorità superiore e incontrollabile.
Erveda Sansi
(da 'l Gazetin, luglio-agosto 2008)