Venerdì , 15 Novembre 2024
VIGNETTA della SETTIMANA
Esercente l'attività editoriale
Realizzazione ed housing
BLOG
MACROLIBRARSI.IT
RICERCA
SU TUTTO IL SITO
TellusFolio > Critica della cultura > I Care... communication
 
Share on Facebook Share on Twitter Share on Linkedin Delicious
Bruna Spagnuolo: Banchettano gli sciacalli sulle spoglie dei vinti (2)
Quadro etnico 1950
Quadro etnico 1950 
17 Dicembre 2008
 

Il Congo e i virus vecchi e nuovi

dei cataclismi sociali (e non solo)

 

La Repubblica Democratica del Congo ha un’estensione notevole, che potrebbe coprire un quarto di tutta l’Europa. È una terra baciata da una fortuna immensa, che si è trasformata in una disgrazia immane. Possiede salomoniche ricchezze naturali (oro, diamanti, uranio, cobalto, rame, … coltan, legno pregiato e gomma arabica) che si sono trasformate in croce pesante e insanguinata… di colonizzazione-sfruttamento, dittatura e invasioni terrificanti. La gente di questo paese disgraziato e terrorizzato è passata letteralmente dalla padella nella brace, a ripetizione, e, dalle fiamme brucianti della brace insostenibile ha dovuto ricredersi sulla ‘padella’ dura e terribile, ma, comunque… dalle agonie meno trapassanti… Questo è il paradosso più abnorme che l’umanità possa subire e la fetta di umanità contenuta entro i confini congolesi ha subito tutte le sfumature dei paradossi più indicibili che l’universo conosca. Non c’è delitto peggiore della dignità annullata e dei diritti mancati; non c’è assurdità più grande della prevaricazione sistematica tanto atroce ed efferata da dettare leggi proprie di ‘gradazioni’ della degradazione estrema e del genocidio. Lo sanno bene coloro che hanno visto i loro cari letteralmente ‘abbattuti’, i bambini che hanno assistito all’eliminazione dei propri genitori e a cose come ‘l’assemblaggio’ di fosse comuni rigurgitanti di corpi aggrovigliati… e tutti coloro che sono scampati ai massacri, sia pure per qualche tempo, e che, per quel tempo sono stati grati di essere ancora vivi (sentendosi, nel contempo, annichiliti come creature respiranti e in colpa per il respiro dei loro cari che non avrebbero più udito). La situazione di questo popolo è sempre stata tragica, ma la cosa che colpisce allo sterno, come un colpo proibito, è il ‘diagramma’ della tragicità che si evolve in salita, fino al punto della dissonanza assoluta e del non ritorno. E vien fatta di domandarsi come sia possibile che bipedi respiranti possano giungere a tanto e… ancora pretendere (nel senso inglese del termine) di appartenere alla categoria umana (o anche solo degli esseri viventi).

La colonizzazione ha sfruttato quella terra e ha lasciato non pochi segni della sua ‘interferenza’ dannosa nella storia etnica del luogo e nel processo naturale e giusto del suo sviluppo. I colonizzatori hanno lasciato storture pregresse su cui si è innestata la dittatura di Sese Seko Mobuto, la ‘brace’ dopo la ‘padella’, ma per la popolazione Congolese non doveva esserci fine al peggio…, poiché quella ‘brace’ sarebbe diventata ‘padella’, quando, a partire dagli anni ’90, sarebbero iniziate le invasioni degli eserciti di paesi confinanti e di bande di mercenari, scatenando la guerra civile e fomentando gli scontri etnici fratricidi (e gl’inenarrabili orrori che si sarebbero consumati nelle province di confine).

Ciò che accade nei giorni nostri in Congo viene definito ‘Guerra Mondiale Africana’, a causa del numero grande di Stati e di eserciti che coinvolge e della violenza cruenta che implica. Gli accordi di pace firmati nel 1999 sono stati cancellati (e orribilmente ‘giustiziati’) subito dopo, culminando in conflitti-horror che, entro il 2002, hanno fatto 3.3 milioni di morti e 3 milioni di sfollati. I bambini, il 50% della popolazione congolese, hanno pagato il maggior tributo alla follia omicida dei ‘formicai’ umani infettati da una furia omicida distruttiva senza precedenti (e Dio voglia che sia senza seguito…). I bambini e i civili che sono morti trucidati gridano, dalle posizioni più assurde dei loro corpi straziati, il loro why al cielo, ma quelli che sono morti di stenti, di fame, di malattie e di assenza (d’acqua e di mano amica)… gridano un perché talmente assordante che il silenzio ne esplode-implode a ripetizione (come fuochi d’artificio autorigeneranti e insieme autodistruggenti). Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha risposto all’emergenza con una forza multinazionale di pace, a Bunia e, dal 2003, con l’invio di 10.800 caschi blu (Missione dell’ONU per il Congo- Monuc), in Ituri, nel Nord e nel Sud Kivu. Era abbastanza? Serviva a qualcosa? La risposta è no: no, perché i meravigliosi caschi blu sono ippogrifi cui sono state tagliate le ali e cui è stato impedito di librarsi, per i salvataggi da effettuare con fulmineità ed efficacia; no, perché i caschi blu, con i carri armati bianchi, sono dei simboli armati lasciati, in realtà, disarmati e alla mercé della violenza di ogni gruppo di straccioni sanguinari che voglia lordarsi di sangue e di esso nutrirsi; no, perché i caschi blu non devono interferire nelle ‘cose’ interne e devono lasciare che agnelli sacrificali (donne-bambini-vecchi compresi) innocenti e indifesi vengano trucidati tranquillamente; no, perché le truppe ONU sono soltanto un deterrente che tale non è, dal momento che devono starsene a guardare e tenersi in disparte, mentre mostri veri, o parodie patetiche di essi, si battono il petto, imitando gli scimmioni, e si scatenano nello smembramento osceno dei ‘nemici’ (cioè di creature umane indifese e innocenti), ignorando che nel confronto sono meno idrocefali gli scimmioni (com'è avvenuto in Rwanda, nel ‘94).

 

La presenza della Monuc ha, in qualche modo, tenuto calma la zona, fino al 2004 (fino a quando, forse, non è stato chiaro che ‘gli Stranieri’ armati non avrebbero usato le ‘armi’); poi la violenza è esplosa di nuovo e non ha mai smesso di seminare orrore e terrore. C’è l’ONU a Kiwandja, eppure, a poche centinaia di metri dai suoi quartieri generali, le strade, le case, i cortili sono stati e sono invasi dai morti. Giovani uomini fermati nel gesto di vivere giacciono accanto a donne trucidate; bambini innocenti dormono il sonno eterno e imputridiscono accanto a vecchi assassinati. Lo ‘spettacolo’ è terrificante. I giornalisti s’intrufolano ove possono e contano, guardano, riferiscono (al mondo) dei genocidi continui perpetrati da più parti (vedi il Cndp -Congresso nazionale per la difesa del popolo- comandato da un prete tutsi con il grado di generale, che, per riconquistare i quartieri ostili, elimina anche gli Hutu congolesi civili che trova sulla sua strada). Mai Mai e Cndp, uccidono, violentano, trucidano, a poca distanza dall’ONU (Monuc). Tutti sono fuggiti, ONG incluse; coloro che si fidavano di loro non rivedranno le loro facce, perché moriranno, o non si fideranno mai più delle presenze dei giorni buoni pronte ad abbandonare ‘gli amici’ nei giorni cattivi. Pochi coraggiosi volontari (i Medici Senza Frontiere sono tra loro) restano tra la gente, assistendo malati e partorienti, senza alcuna garanzia per le loro vite coraggiose. A loro my heart goes e… a quelli dei caschi blu di ogni grado e nazionalità che, armi in pugno, trincerati nei loro compound protetti, sentendosi fuori luogo-frustrati-delusi e disperati di non poter uscire, accorrere-soccorrere-salvare-aiutare-fronteggiare ambasce e pericoli insieme ai più poveri-diseredati-indifesi e abbandonati, facciano ‘deroghe’ agli ordini ricevuti e divengano soccorso preventivo per le vite che ancora possono essere salvate.

 

Un summit della regione dei Grandi Laghi si è tenuto a Nairobi. C’era anche Ban ki-moon a quel vertice di emergenza, e… intanto Laurent Nkunda (appoggiato dal comando politico-militare ruandese) guida il Cndp, assediando il Kivu (e sostenendo di non aver ammazzato civili, ma solo militari-ribelli-nemici). Per molti, Nkunda è un rinnegato. Molti altri sostengono che egli sia un grande eroe animato da vero valore militare, poiché con solo 10.000 uomini, ha saputo fronteggiare e mettere in fuga le varie migliaia di nemici (peraltro vilmente fuggiti). Altri ancora sostengono che, dovendosi battere con gli stessi Hutu sanguinari che hanno abbattuto la sua gente a colpi di bastoni chiodati e machete, egli debba sparare su tutto ciò che si muova. Per i Tutsi è sicuramente il solo baluardo contro la furia degli Hutu. Lascio ai Posteri questa ‘sentenza’ che, al punto in cui il Congo è, non ha importanza.

Ciò che ha, invece, importanza è: a cosa servono i ‘vertici’ vari, se la gente continua a non avere salvezze-rifugi-difesa...? Il responsabile Onu delle operazioni per il mantenimento della pace, Alain Le Roy, il 5 Novembre ha annunciato che i caschi blu hanno “istruzione” di “sparare” per proteggere la città di Goma, nell'est della Repubblica democratica del Congo. Questa buona notizia (che arriva troppo tardi) attenua la milionesima parte della delusione che provo per questo ONU così ammanettato dalla ‘pace’ (per la quale è nato e si è sparso per il mondo) da assistere impotente ai genocidi più sanguinosi del mondo, senza intervenire. È vero che immaginare i bianchi carri armati dell’ONU insanguinati fa venire i brividi, ma è anche vero che tutti i morti che lastricano le strade e che, difesi dalle armi dell’ONU, potrebbero essere vivi suscitano brividi ancora peggiori.

 

 

TUTSI E HUTU

 

Tutsi (il cui nome deriva da una regione del Burundi, chiamata bututsi) e Hutu erano stati da sempre parte di un’unica popolazione e avevano vissuto in pace, mescolandosi e formando gruppi familiari promiscui, senza avvertire o evidenziare differenze sostanziali e senza risentire di divisioni varie, se non quelle delle caste pacificamente assortite, fino a quando il dominio coloniale non trovò il modo di scavare ‘trincee’ simboliche. La colonizzazione dei popoli da parte di altri popoli è stata una piaga invasiva che ancora non ha finito di sfogare le sue fistole purulente e che si è ripercossa su Tutsi e Hutu in modo terrificante. I Tedeschi e i Belgi colonizzarono le terre di queste genti, ma furono i Belgi, per quel che ne so io, a giocare con i fenomeni dei clan (proprio non conoscendoli e sottovalutandoli a tutta ignoranza) e con quelli delle caste di cui i clan erano parti vitali. È stato quello il periodo responsabile degli squilibri-convivenza tra Tutsi e Hutu. È stato quello l’inizio ‘dell’uso’ di quel popolo a vantaggio dell’invasore. I colonizzatori, hanno trovato comodo dare importanza e potere all’aristocrazia tutsi, a svantaggio dell’etnia hutu, e accentuare caratteristiche somatiche e attitudini della minoranza (Watussa) tutsi, che aveva convissuto, prima della colonizzazione, in pace con i ‘Pigmei’ hutu’ e che avrebbe continuato a farlo per sempre, se nessuno avesse intralciato il corso normale della vita serena delle classi sociali bene assortite e affiatate anche con quella Twa (di percentuale minima e di statura ‘normale’ e praticamente ignorata dalla colonizzazione insieme alle infinite varietà-cultura tribali). Le caratteristiche somatiche di quelle che i colonizzatori scambiarono per etnie, in realtà, non riportavano differenze rilevanti e non rappresentavano fonte di discrimine nello scorrere pacifico della vita di ogni giorno, fino a quando gl’invasori occidentali non hanno cominciato a stabilire vere e proprie consuetudini di differenze ‘etniche’ (costruite praticamente a tavolino e trasformate persino in documenti scritti che identificavano e definivano gli esseri viventi di quella terra) e a mettere a dimora veri e propri semi di gelosie e di ingiustizie (mine vaganti che sarebbero esplose a ripetizione, nei tempi successivi).

 

I coloni scambiarono le caste per etnie e ne stravolsero la natura con dolosa interferenza, ma erano talmente egocentrici da credersi potenti come dèi e da pensare di potersi ‘scegliere’ come interlocutori degl’Indigeni (i Tutsi) presumibilmente derivanti da razze superiori (e perché, per compiacere il loro ego tanto gigantesco quanto ottuso, non pensare che i Tutsi fossero addirittura i superstiti della miracolosa Atlantide?). Sembra incredibile, ma questo è proprio ciò che accadde: i coloni si ersero a ‘padroni’ plenipotenziari di quelle genti e imposero gli altissimi Tutsi agli Hutu, convinti di creare, in tal modo, una gerarchia di ‘razze’ diverse che avrebbe funzionato per sempre (negli orizzonti angusti delle menti dei colonizzatori, come poteva non funzionare? La razza ‘superiore’ messa a capo della razza ‘inferiore’ era il solo ‘modello’ che consocessero). E hanno innescato un disastro che avrebbe dato i frutti terribili che ancora ‘fioriscono’ di orrori e che avrebbero causato genocidi come quello del Luglio 1994, in Rwanda, nel quale, per 100 giorni di seguito, i gruppi paramilitari hutu Interahamwe e Impuzamugambi si ‘onorarono’ di ‘abbattere’ con lo ‘stoico sfinimento’ di convinti taglialegna ‘dignitosi’, con bastoni chiodati e machete, un numero di persone (tutti Watussi tutsi, con una piccola percentuale di politici Hutu moderati) ‘non inferiore’ a 800.000 e ‘non superiore’ a 1.071.000 (l’orrore degli orrori alligna, ramifica, radica e prospera, da prima della storia, in numeri come questi, sempre ipotizzati per eccesso e, infine, ‘approssimati’ per ‘difetto’ nell’ordine di centinaia di migliaia di vite umane che valgono come polvere di zanzare di palude di fronte alla tracotanza del male che s’incarna e si rigenera nella feccia dalle sembianze umane).

 

Classificando la gente in base a supposte caratteristiche fisiche (e di status sociale) e dividendola in Tutsi e Hutu, i Coloni insegnarono la discriminazione sistematica alle etnie ingenue, che non si erano mai considerate ‘superiori’ o ‘inferiori’ le une alle altre. Il problema era stato soltanto di casta, poiché il re, l'umwami, era appartenuto al clan tutsi degli Abaganwa. Ciò, senza interventi alteranti, avrebbe fatto parte delle consuetudini di vita-dati di fatto (come la notte, il giorno e le stagioni).

Quegli ‘interventi’, però, ci furono e seminarono, in altre parole, il razzismo più bieco e perfido, affidando ai più ricchi e duttili Tutsi (che presupponevano più vicini alla razza caucasica e, perciò, ‘superiori’ per maggiore ‘vicinanza’ alla razza del colore ‘giusto’- quella bianca)  tutti gl’incarichi di prestigio e rendendoli invisi agli Hutu oltre ogni immaginabile misura. Chi ha sentito le notizie al telegiornale, negli anni recenti, ha captato soltanto i termini ‘Tutsi e Hutu’ ricorrenti, ma poi ha confuso una notizia con l’altra, perché i luoghi non parevano mai gli stessi…

La verità è che ‘il Bianco’ ha causato al mondo molti mali e che quello causato alla terra d’Africa trova il suo apogeo negli eccidi (perpetrati ai danni di un numero infinito di persone) dovuti a rivalità etniche e stermini di massa che hanno avuto il loro ‘epicentro’ in Rwanda, e che si sono allargati al Congo, a ovest, all’Uganda, a nord, al Burundi, a sud e alla Tanzania, a est.

 

Ecco una piccola sintesi-cronologia: Rwanda e Burundi formavano, allora, la colonia tedesca chiamata Ruanda-Urundi. Gli Hutu avevano accumulato odio e rancore sufficienti a rivoltarsi, nel 1959, con tutta la ferocia delle tradizioni tribali, contro la monarchia tutsi. La prima conseguenza fu il referendum del 1961 e la seconda fu l’indipendenza (1962). Quella fu l’indipendenza più insanguinata della storia, perché causò uno sterminio senza precedenti di Tutsi (centomila è la cifra approssimata sicuramente per difetto) e la loro fuga in Uganda e Burundi. Credo che proprio quell’emigrazione abbia innescato in Burundi, nel 1966, i colpi di stato a catena, alimentati dalle due etnie ‘famose’ e finiti con la salita al potere dell’aristocrazia Tutsi. Gli Hutu tentarono un colpo di stato (1972) e provocarono lo sterminio, da parte del governo, di almeno 200.000 Hutu. Il generale Hutu Juvenal Habyarimana, in Rwanda fece un colpo di stato (1973) e instaurò un regime dittatoriale (1975).

Il Burundi, dopo essere stato nuovamente insanguinato da decine di migliaia di morti (1988), ebbe un governo parlamentare a maggioranza Hutu, ma aveva fatto i conti senza l’oste, perché l’esercito, che era in mani Tutsi, diede il via a una sanguinosa guerra civile, che portò una marea senza fine di profughi (almeno un milione) nei paesi confinanti. Il Rwanda aveva l’85% della popolazione di etnia hutu, che rappresentava ormai il potere dal 1959, ma i Tutsi non avrebbero mai deposto le loro insegne guerriere. Questo irriducibile coraggio sarebbe valso ai Tutsi l’ammirazione incondizionata di molta gente, nel mondo.

 

Nacque e si organizzò in Uganda il Fronte Patriottico Ruandese (RPF), formato da esiliati Tutsi. Il presidente ruandese Habyarimana firmò, nel 1993, l’accordo di Arusha, con il quale concedeva all’RPF un ruolo politico e militare importante in Rwanda. Quella sua apertura alla democrazia e il cambio di tendenza che avrebbe impresso alla politica feroce che aveva contraddistinto tutto il passato di quella nazione, costò al presidente la vita. L’aereo presidenziale fu colpito da un missile terra-aria (1994); insieme al presidente ruandese morirono alcuni esponenti del governo e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira. Era il 16 Aprile. Si sospettò che a fare l’attentato fossero stati alcuni membri estremisti del partito presidenziale, contrari all’accordo di Arusha, o lo stesso RPF, che non si fidava e temeva che i patti non sarebbero stati rispettati. Molti sospettarono che a tramare l’uccisione del presidente fosse stata la stessa moglie, che, in quell’occasione, non era salita in aereo. Ciò che accadde il giorno dopo, il 7 Aprile, dà corpo, a mio avviso, alla prima ipotesi: a Kigali, le Forze Armate Ruandesi (FAR) cominciarono a macellare sistematicamente i Tutsi ancora presenti nella popolazione, la guardia presidenziale democratica e moderata, i miliziani del Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo sviluppo e i giovani hutu di belle speranze e di idee equilibrate. L’episodio più condannabile e vergognoso di quella mattanza (il cui boato informe innalza al cielo ancora urla raccapriccianti-gemiti-rantoli-lamenti-preghiere-sciabordio di sangue) fu la voce di una sottospecie di mostro-ominide di nome Kantano che, dalla radio chiamata RTLM, dava il segnale di inizio della mattanza, invitando a seviziare, macellare e mutilare nei modi più orrendi esseri umani della sua stessa razza, che parlavano la sua stessa lingua, mangiavano i suoi stessi cibi, professavano la sua stessa religione (e che la sua voce orribile e stridula definiva ripetutamente “scarafaggi”, nella sua sanguinaria ubriacatura di abominevole creatura informe dei verminai abissali). Le vittime macellate, con pianificata follia, furono un milione. I macellai, incoraggiati e organizzati, si mettevano al ‘lavoro’ e si ‘sfinivano’ letteralmente, abbattendo a mano, con bastoni chiodati (importati – indovinate da dove?-  dalla Cina!) e con i machete che, dopo tanto ‘impiego’, non erano più tanto affilati… L’orrore più enorme fu, forse, quello dell’Istituto Tecnico di Gikongoro, dove furono lucidamente macellate 27.000 persone (tra cui i giovani, i cervelli e i vivai del futuro di quella terra) al ritmo di ottomila al giorno, che vennero ammassate nelle fosse comuni preventivamente preparate. Si racconta che il sangue fosse così tanto da debordare e da intridere il terreno circostante…

Il Fronte Patriottico Ruandese (RPF) tentò il colpo di stato in Rwanda e salì al potere, dando un’inversione di marcia al genocidio che si ritorse contro gli Hutu. La guerra civile divenne un oceano di sangue. I profughi Hutu si rifugiarono in Congo, dove i Tutsi, nel 1996, li trucidarono a migliaia. La Tanzania fu accusata di dare rifugio nei suoi campi-profughi, ai ribelli Hutu.

Le acque tanzaniane si fecero veicolo di trasporto per i corpi senza vita che scendevano a valle e galleggiavano come stracci nel bellissimo Lago Vittoria. Il buonissimo pesce tilapia, che vive in quelle acque, prosperò più che mai, ingrassato dai cadaveri numerosi; nel ‘97/’98, guardando il lago, mi sentivo ancora invadere dallo sgomento e non potevo indurmi a mangiare il pesce più squisito e prelibato dei ristoranti di Mwanza. Non posso ancora tornare a quel luogo con la mente, senza sentirmi invadere da un innominabile malessere generale, al pensiero del lago, dei pesci e dei ‘visitatori’ galleggianti (senza vita, senza volto, senza funerali, senza nome, senza ‘lacrimata o illacrimata’ sepoltura).

L’altalena impressionante delle vendette-rivendicazioni e dei genocidi tra Tutsi e Hutu è divenuta architettura di un odio storicizzato senza fine (e senza scampo), che oggi è esploso di nuovo come un vulcano che non abbia mai smesso di covare la sua micidiale forza di propulsione devastante.

E pensare che gli Hutu erano degli agricoltori pacifici e meravigliosi e che i Tutsi erano allevatori, mettevano il bestiame al primo posto nella vita, ne facevano oggetto di cure e di attenzione e vi tessevano attorno tutte le manifestazioni familiari e sociali della loro vita da singoli individui (Umututsi) e della loro vita collettiva (abatutsi). Non conoscevano distinzioni etniche, in origine, e sono giunti a ‘qualificarsi’ oggi come Tutsi o Hutu, per un ‘vizio di forma’ lasciato loro in ‘dono’ come una pediculosi inestirpabile e letale.

 

Bruna Spagnuolo

 

Fine seconda parte


Articoli correlati

 
 
 
Commenti
Lascia un commentoLeggi i commenti [ 3 commenti ]
 
Indietro      Home Page
STRUMENTI
Versione stampabile
Gli articoli più letti
Invia questo articolo
INTERVENTI dei LETTORI
Un'area interamente dedicata agli interventi dei lettori
SONDAGGIO
TURCHIA NELL'UNIONE EUROPEA?

 70.7%
NO
 29.3%

  vota
  presentazione
  altri sondaggi
RICERCA nel SITO



Agende e Calendari

Archeologia e Storia

Attualità e temi sociali

Bambini e adolescenti

Bioarchitettura

CD / Musica

Cospirazionismo e misteri

Cucina e alimentazione

Discipline orientali

Esoterismo

Fate, Gnomi, Elfi, Folletti

I nostri Amici Animali

Letture

Maestri spirituali

Massaggi e Trattamenti

Migliorare se stessi

Paranormale

Patologie & Malattie

PNL

Psicologia

Religione

Rimedi Naturali

Scienza

Sessualità

Spiritualità

UFO

Vacanze Alternative

TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
Sede legale: Via Fontana, 11 - 23017 MORBEGNO - Tel. +39 0342 610861 - C.F./P.IVA 01022920142 - REA SO-77208 privacy policy