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Marco Belpoliti: Lunga vita alla nuova carne
Cindy Scherman: Untitled 261
Cindy Scherman: Untitled 261 
12 Dicembre 2008
 

È una fotografia. Raffigura un corpo. A una prima occhiata, non si capisce se si tratta di un corpo maschile o femminile. La testa, in primo piano, è rovesciata, e la capigliatura, rada, sfuma nell’ombra in basso. Forse è una donna dai capelli corti; ha le braccia ripiegate all’indietro. La parte superiore comprende un seno nudo e un bacino, con il sesso femminile ben distinguibile, un sesso glabro; il corpo è appoggiato su un tessuto di colore rosso pieno di pieghe.

 

S’intitola “Untitled 261” ed è un’opera dell’artista americana Cindy Sherman. E’ realizzata nel 1992 utilizzando manichini di plastica acquistati presso una casa di forniture mediche. Altre fotografie della serie ci fanno capire che l’artista sta esibendo “atti sessuali”. La cosa non è chiara, poiché, pur essendo evidente che si tratta di parti anatomiche montate, c’è qualcosa di strano nei loro gesti. In un’altra immagine la donna indossa un grembiule con un seno nudo disegnato in rilievo, e una testa maschile rovesciata, disposta tra le sue gambe, proprio contro il sesso. È un manichino, ma ha qualcosa di osceno, e al tempo stesso d’innaturale; è un manichino, ma è anche un corpo umano.

Cindy Sherman appartiene a quella serie di artisti che all’inizio degli anni Novanta il critico Jeffrey Deitch ha esposto in una collettiva intitolata Post Human. Il tema centrale è quello delle identità cangianti. Il corpo umano non è più solo il terreno di una operazione artistica, come era accaduto nella Body art degli anni Sessanta: è invece inteso come limite, confine biologico, e al tempo stesso come luogo di una protesta, di una provocazione che ha evidenti significati sociali e politici. In questa arte, che Deitch e altri critici, come Francesca Alfano Miglietti, definiscono postumana, ciò che è in gioco è l’identità: “l’identità è il nuovo campo d’azione dell’arte. Corpi e identità che vogliono somigliarsi, corrispondersi, nelle mutazioni, nei flussi, nelle alterità di scambio e di incontro, di opere e testi”.

A metà degli anni Ottanta Cindy Sherman ha realizzato una serie di lavori intitolati Disasters dove il corpo è rappresentato in parti (piedi, mani, pelle) e ferito, vittima di un disastro già accaduto, come un corpo freddo e persino decomposto. In una intervista, a proposito di Disasters l’artista ha dichiarato: “Non so perché, ma penso alla morte tutti i giorni, forse perché vivo a Manhattan, leggo i giornali e penso possa accadere in qualsiasi momento. È affascinante il fatto di non essere preparati a questo”. Il centro del lavoro della Sherman è l’oscillazione dell’identità femminile, come ha spiegato in modo efficace Rosalind Krauss in Celibi, libro dedicato proprio a questa identità mutante, in cui il femminile non si oppone più al maschile in modo antitetico, ma produce, se così si può dire, una sorta di maschile femminilizzato o di femminile mascolinizzato.

 

 Lo si vede bene in alcune fotografie surrealiste di Man Ray degli anni Trenta (Anatomie e Cappello) esibite da Rosalind Krauss, o nella celebre immagine di Marcel Duchamp travestito da donna (Rose Sélavy, 1921) o, ancora, nelle sconcertanti immagini di una surrealista semisconosciuta, Claude Cahun, che Rosalind Krauss ha riscoperto e mostrato in un saggio di Celibi: un essere umano che oscilla tra il femminile e il maschile, non un androgino, piuttosto uno (o un) Bachelor, identità mutante in cui maschile e femminile si scambiano continuamente di posto, sino a risultare, sul piano della definizione di identità, perfettamente intercambiabili.

La formula Post Human definisce tutto questo. L’oggetto dell’azione di questi artisti, ma anche scrittori e filosofi, è la trasformazione del corpo, la sua disidentificazione, e la trasmigrazione verso altre forme o espressioni in cui il genere e la forma non definiscono più l’essere umano, la sua singolarità e appartenenza.

 

 Orlan, che trasforma il profilo del proprio volto attraverso una serie di operazioni chirurgiche trasmesse in diretta; Franko B. che agisce con abrasioni, tagli, sanguinamenti, in modo cruento sulla sua persona; Pierre et Gilles, una coppia di artisti francesi, che lavora invece, in modo più soft, ma non meno inquietante, sull’identità sessuale; e ancora Stelarc che definisce progressivamente il confine incerto tra uomo e macchina mediante protesi, innesti, interventi meccanici e tecnologici.

 

 Siamo di fronte a quel Kitsch, in forme estreme, descritto da Broch nei suoi interventi? Oppure è accaduto “qualcosa” negli anni Novanta, qualcosa che ci permette di leggere in modo differente il paesaggio culturale e artistico di quel decennio? Nell’introduzione a Post Human Jeffrey Deitch traccia un’analisi rapida e sommaria, e tuttavia efficace, di quello che è accaduto nel decennio precedente e descrive il nuovo paesaggio degli anni Novanta facendo riferimento alla crisi dei concetti e dei valori, crisi che, scrive, “non investe solamente modelli di personalità, ma anche modelli politici e sociali”. La fine del regime comunista sovietico ha determinato “la dissoluzione di uno dei massimi sistemi ideologici assoluti”. Così, nell’orbita capitalista, l’incrinarsi del modello giapponese, il tramonto del reaganismo e del thatcherismo, la chiusura delle grandi fabbriche, la riduzione continua dei posti di lavoro, i prepensionamenti coatti, hanno distrutto l’opinione che“il corporativismo moderno avrebbe compiuto qualunque sforzo per salvaguardare i suoi fedeli adepti”.

 

Deitch usa più volte la parola “crollo” per indicare il paesaggio sociale, in cui trionfano due nuove tecnologie: l’informatica, con la realtà virtuale, e le biotecnologie, con l’ingegneria genetica. “La combinazione di questi due sistemi tecnologicicreerà non solo nuove forme di vita e nuovi canali di comunicazione, ma determinerà nuovi modi di percepire il tempo e lo spazio e condurrà addirittura a nuove strutture di pensiero”. Il tono è dato da una strana mescolanza di apocalisse e utopia, raffigurazione di un paesaggio costellato da rovine e macerie e di un nuovo spazio sociale e individuale determinato invece dalla promessa di una nuova palingenesi. La coppia apocalisse/utopia è il segno sotto cui s’iscrivono le opere artistiche, letterarie e cinematografiche del decennio: in un mondo di rovine, si aggirano i nuovi “uomini” forniti di strabilianti tecnologie che recano con sé qualche aspetto “barbaro”, come se, per sorgere, il “nuovo” avesse bisogno di abbattere l’ “antico” ma soprattutto la rovina fosse la necessaria condizione estetica del post human.

Deitch lo intuisce nel suo testo e parla di modelli ideologici che stanno diventando sempre meno razionali: “Il crollo di molti sistemi ideologici gerarchici dell’era moderna e la loro sostituzione da parte di strutture alternative dialettiche ci allontana dal pensiero gerarchicamente strutturato per indurci a visioni più intuitive, meno strutturate e a un modo di pensare più irrazionale. Un atteggiamento più irrazionale può dunque rappresentare un approccio più adatto ad un mondo che sembra aver perduto ormai la sua fede utopistica nelle soluzioni razionali”.

 

L’utopia di Blade Runner, di cui parla Deitch, ha dunque una base irrazionale, ed è figlia della “critica della ragione” portata avanti, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, dal “pensiero critico” della Scuola di Francoforte, dalla filosofia post-strutturalista di Michel Foucault e Gilles Deleuze. Ma c’è anche un elemento che Deitsch fa derivare dalle esperienze quotidiane e non solo dai sistemi filosofici, e che si compendia nelle opere che espone nella propria mostra. Muta l’idea stessa di Io: “Si avverte la sensazione che ognuno possa facilmente costruire il nuovo cui anela, libero dalle coercizioni del proprio passato e del proprio io”. Reinventare se stessi è un fatto ormai comune. L’arte non anticipa più questo mutamento, ma lo mima, lo mostra direttamente e in forme eclatanti.

 

 Robert Gober usa frammenti del corpo per creare una “realtà paurosamente fantastica fatta di arti che fluttuano liberamente separati l’uno dall’altro e di stati emotivi incongrui”; nel medesimo modo lavora Georg Lappas usando immagini, mentre Mike Kelley fonde insieme uomini e animali, Charles Ray uomini e manichini, e Paul McCarthy uomini e macchine: perversione, artificiosità, innocenza, bestialità, confusione, sono i sostantivi che definiscono meglio le opere esposte in Post Human.

 

La chiusa del testo di presentazione della mostra contiene una interessante osservazione: “Ciò che sappiamo è che presto i progressi tecnologici ci costringeranno a sviluppare un nuovo codice etico. Avremo bisogno di costruire una nuova struttura morale che indicherà ad ogni individuo come comportarsi di fronte alle scelte enormemente importanti che dovrà operare in termini di alienzazione genetica e di ampliamento computerizzato delle facoltà cerebrali. Dovremo prendere decisioni non solo riguardo a che cosa sembra bene, ma su cosa è bene e su cosa è male rispetto alla ristrutturazione della mente e del corpo”.

 

Davvero dal Post Human sorgerà una nuova etica? E poi, è davvero ancora necessaria l’etica? Quale sarà il rapporto tra etica ed estetica?

 

 

Tra il 1994 e il 2002 l’artista americano Mattew Barney ha realizzato cinque lungometraggi. Li ha intitolati Cremaster, dal nome di un piccolo muscolo, il cremasterio, associato alle gonadi, che presiede alla definizione dell’identità sessuale: uomo, donna. I film sono stati proiettati come opera al Museo d’Arte Moderna di Parigi nel 2003. Il primo portato a termine dall’artista, Cremaster 2, racconta la biografia di Gary Gilmor, un detenuto americano giustiziato per omicidio nel 1977. Gilmor era convinto di essere predestinato a vivere come un fuco. Nel film i suoi genitori sono dei mutanti, una specie di insetti dalla vita sottilissima e muniti di ali. Tutta l’ambientazione rimanda al mondo delle api: tavole, sedie, arredi delle stanze ripetono ossessivamente il motivo esagonale dell’arnia, la cera invade le scenografie e modella gli oggetti.

 

Cremaster 3, il secondo lungometraggio girato, ha per protagonisti una donna-ghepardo. In Cremaster 4, il più famoso e citato nelle recensioni e negli scritti dedicati a Barney, compare un satiro dall’aspetto vagamente snob e dandy, e vi domina il motivo dell’ibridazione tra il mondo umano e quello dei caproni. Questo dell’ibrido è un tema già presente in altre opere dell’artista americano. In una video-installazione del 1993, intitolata Drawing Restraint 7, due satiri lottano sui sedili posteriori di un’automobile, mentre un terzo cerca di afferrare la propria coda.

Barney è, insieme ad altri artisti contemporanei, il testimone di una decisa propensione al teriomorfismo, ovvero a una fusione tra uomo e animale, tra l’animale e gli dèi. Nel passato la parola indicava infatti la forma animale assunta dalle divinità greche, indiane, persiane persino azteche , mentre negli anni Novanta si parla con sempre maggior insistenza di un teriomorfismo umano. L’artista americano “delinea l’uomo e la sua cultura come entità eterodeterminate, ovvero soggette alla contaminazione e all’interazione con fattori esterni”. Nel catalogo della mostra parigina, in cui Barney ha esposto i suoi Cremaster, Nacy Spector sottolinea come per l’artista vi sia “una membrana impermeabile tra il mondo animale e il mondo umano”. Questa è una delle caratteristiche principali del post human, ma cosa significa esattamente sul piano dei significati questa ibridazione tra uomo e animale?

 

Lo scenario su cui si aprono gli anni Novanta nella cultura europea, ma anche americana, è quello di una definitiva messa in crisi dell’antropocentrismo. Vi contribuisce la dissoluzione dell’Urss, il crollo dei regimi socialisti e comunisti dell’Est, come si è detto, e la fine delle ideologie rivoluzionare e utopiche dei movimenti studenteschi. L’umanesimo, nella versione socialista e utopista, era stato infatti il substrato delle principali ideologie politiche. Negli anni Settanta il movimento punk, per quanto fenomeno elitario, confinato all’interno del mondo giovanile e musicale, aveva aperto la strada a una serie di idee e comportamenti pratici che confluiscono successivamente nel post human, in particolare l’idea della propria diversità esperita anche in modo doloroso ed estraniante attraverso le pratiche del piercing, del tatuaggio, della manipolazione e trasformazione dell’aspetto fisico. È la barbarizzazione della forma-uomo, come la definiscono gli stessi teorici del movimento, che usano sovente l’espressione “nuovi primitivi”.

 

L’idea dell’ibrido inscenata da Mattew Barney nei suoi video, diventa consueta; allo stesso modo l’altra forma di ibridazione, quella con le macchine, che va sotto il nome di cyborg, diventa un tema sempre più presente nella letteratura e nell’arte (Crash di J. G. Ballard esce in Inghilterra nel 1973). Nel 1980 Bruce Berthke utilizza per la prima volta in un suo racconto il termine cyberpunk. Entrambi i fenomeni, il punk e il cyborg, aprono la strada a quella che Roberto Marchesini ha definito “una performatività ibrida”. Ma cosa significa esattamente? Quali sono gli aspetti dell’umanesimo, che ha innervato sino agli anni Settanta la cultura europea, ad andare in crisi? Occorre anche interrogarsi sulle ragioni per cui il lavoro di artisti come Cindy Sherman e Mattew Barney non venga più classificato come Kitsch, e sul perché la stessa definizione appaia di colpo obsoleta. Siamo forse oltre il Romanticismo, al di là della dialettica Cristo/Anticristo descritta da Herman Broch negli anni Cinquanta?

 

Il primo aspetto dell’umanesimo tradizionale, che sembra cadere, è la visione dell’uomo inteso come universo isolato, soggetto autoriferito e totalmente impermeabile alla contaminazione esterna. Roberto Marchesini ha tracciato il profilo di questo nuovo paradigma che anch’egli definisce post human, modificando tuttavia il significato del termine rispetto a Ditsch. L’uomo, scrive, non è più considerato come essere completo, compiuto, puro, perfetto; subentra un’immagine plurale dell’uomo, frutto ibrido dell’evoluzione, mescolato con gli animali e con quelli che sono stati i suoi stessi strumenti, primo fra tutti la macchina. Il progetto post-umanistico, sostiene Marchesini, tiene conto di questi due aspetti che hanno contribuito in modo essenziale a formare l’uomo nel corso dell’evoluzione: l’alterità animale, che egli denomina “teriosfera”; e l’alterità tecnologica, la “tecnosfera”, “nuova carne dell’uomo in grado di modificare profondamente la performità della nostra specie”.

 

Francesca Alfano Miglietti ha riassunto bene questa tendenza: “Bisognerebbe avere la possibilità di modificare il proprio corpo a seconda delle moltitudini di identità che la mente produce”. I teorici del nuovo paradigma umano sono Giles Deleuze e Félix Guattari che in un’opera edita all’inizio degli anni Ottanta, Mille piani, hanno teorizzato, sulla scorta di Artaud, l’idea di un “corpo senza organi”, la ricombinazione dell’identità individuale e l’ibridazione dell’Io. A partire dall’inizio degli anni Novanta, il tema dell’identità si impone come centrale, non solo in sede filosofica, ma anche nella lettura degli avvenimenti sociali e politici. L’identità diviene una vera e propria ossessione di fronte all’esplodere della globalizzazione, la quale produce, quale effetto immediato, il sorgere di identità locali. Come ha scritto con efficacia l’antropologo Francesco Remotti, l’identità si costruisce attraverso un processo arbitrario, ed è l’estrapolazione dal gran numero delle possibilità di una forma determinata.

 

Ciò che colpisce osservando i video di Barney, le fotografie di Cindy Sherman, le operazioni dolorose di Orlan, le estensioni tecnologiche di Stelarc (il terzo braccio meccanico), è l’emergere di forme “mostruose”, che respingono ma anche attraggono, di fronte a cui, come sostenevano gli antichi, non si può non provare un senso di religioso stupore. In queste opere si delinea l’immagine di un corpo, ha scritto Alfano Miglietti, “che sconfina in altro da sé, una ibridazione tra umano, animale, vegetale, mitologia, fantascienza, rituali, iniziazioni, un corpo come con-fusione di mondi, animale/vegetale; di generi femminile/maschile; di elementi, organico/inorganico”.

 

Si trasforma la stessa definizione di mostro che si colloca in una cornice di “extraterritorialità”. Il mostro è un essere incompiuto, informe, carente. E tuttavia in questo messo in scena dall’arte post human, si avverte la presenza di un destino comune, di una lingua comune con l’uomo stesso: “sentiamo il farsi umano – non l’essere umano come vorrebbero i fissisti – ha radici comuni con quel processo di esplosione di tessuti, quella perdita di rispondenza locale delle strutture organiche, quel catalogo di organi inutilizzati e sotto utilizzati o iperutilizati e pronti a essere cooptati ad altre funzioni. L’umanità è lì: nell’insufficienza quanto nella ridondanza, nell’eccesso quanto nella carenza” (Marchesini).

 

La teorica del Manifesto cyborg, Donna Haraway, scrive nel 1991 che il corpo mutante ha superato la pretesa della purezza originaria su cui si è fissata molta della teologia cristiana, ma anche il pensiero filosofico rinascimentale, matrice dell’umanesimo occidentale. Le coppie degli opposti – organico/inorganico, maschio/femmina, animale/uomo, biologico/meccanico – per la Haraway non hanno più senso. La strada è quella dell’uscita dall’antropocentrismo e dal labirinto dei dualismi “con i quali abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi e i nostri strumenti”.

Con questa chiave, suggeriscono questi autori, vanno interpretati fenomeni sociali come il tatuaggio, il piercing estremo, la chirurgia estetica, ambiti che attengono al “teriomorfismo”, ma anche l’uso delle tecnologie informatiche del “macchinicomorfismo” la riscrittura del corpo. La stessa Body art, che è ritenuta l’antesignana delle pratiche artistiche dei decenni successivi, viene interpretata da Marchesini e da Alfano Miglietti come il prolungamento dell’umanesimo al di là di se stesso, come il tentativo “di porre in modo problematico lo spazio privato e l’identità, pur nell’annichilimento e nell’estasi dell’alienazione”. Il corpo martoriato di Orlan e Stelarc, invaso e contaminato, ha abbandonato questa pretesa tardo umanista, e mantiene una visione aperta, persino incerta, dell’identità individuale, fisica e psichica.

 

Se si osservano le opere di artisti come Andres Serrano o Nan Golding – lavorano entrambi con la fotografia – ci si rende conto che negli anni Ottanta e Novanta il corpo umano è diventato una sorta di mappa, una carta topografica su cui leggere le forme di “sensibilità pulsionale” e il destino di ibridazione degli esseri umani.Nan Goldin è emblematica di questo. I corpi dei suoi amici, degli amanti, uomini e donne, dei tossicodipendenti, dei malati di Aids, dei transessuali, il suo stesso corpo di donna, esposto allo sguardo dell’obiettivo fotografico – forma di oggettivazione ma anche di soggettività del guardare – appaiono simili ad un paesaggio in cui anche gli strati profondi, le stratificazioni geologiche, si manifestano sulla superficie.

L’artista si mostra in una celebre fotografia, Nan after being battered (1982) tumefatta, con un occhio nero, il viso gonfio, ma anche con gli orecchini, il rossetto sulle labbra e i capelli ben acconciati. È stata picchiata e ne reca le tracce evidenti. Esibisce questa sua condizione di “verità”, ne fa un’opera. Il suo è un diario: dei suoi incontri, delle sue sconfitte, delle sue amicizie, degli amori, delle sofferenze, delle gioie improvvise. Il corpo è il supporto, la superficie su cui s’incidono gli avvenimenti.

 

Come Nan Goldin ha affermato in diverse interviste, l’idea di perdita domina lo spazio delle sue immagini: il tempo che sfugge, il corpo che si deperisce, che scompare. I corpi nudi che l’artista fotografa sono quasi sempre tristi, patetici, oltre che doloranti. La sessualità è sempre avvolta da una fitta rete di sentimenti in cui quello della perdita dell’oggetto d’amore è preponderante. Non c’è quasi mai desiderio o passione, ma sempre e solo cenere, è il “resto” di una passione trascorsa. Il sesso, afferma Nan Goldin, “è un modo di rompere tra te e l’altro, la maniera più diretta di comunicare”.

 

Le fotografie di Serrano raccolte in The Morgue (1992), sono invece l’opposto. Serrano ha fotografato i cadaveri di un obitorio, defunti per morte violenta. Ne ha ricavato delle immagini in cui il corpo non è mi reso nella sua interezza, ma solo mediante dettagli: la bocca, un piede, le mani, ecc. Le fotografie di Serrano ricordano la pittura del Seicento, i particolari di opere di pittori manieristi e barocchi. Rat Poison Suicide II (1992), ad esempio, raffigura un piede dal colorito spento, livido, attraversato da un taglio esangue; il piede è appoggiato su un telo bianco e s’intravede una cerniera, unico oggetto “contemporaneo” in quella che appare come una Deposizione, o meglio la parte finale di una tela su cui campeggia un Cristo morto.

 E’ questa un’immagine di grande intensità, elegante, “classica”, che esprime il senso di una estraneità: la messa a distanza della morte stessa, la sua trasformazione in oggetto estetico. Le fotografie di Nan Goldin, invece, esprimono la fluidità del tempo, il suo incessante scorrimento. I suoi colori esemplificano il suo modo di pensare e ritrarre i corpi: il colore è pastoso, vitale, le ombre assumono un valore significativo; inoltre, le fotografie spesso sono mostrate attraverso una sequenza di diapositive e non esponendo la foto-quadro, come fa Serrano che si pensa più come un “pittore”.

 

Negli artisti degli anni Novanta il corpo si presenta dunque sotto differenti aspetti: “vestito” abbandonato su una sedia; “periferica” che viene utilizzata per compiere determinate esperienze del mondo (sesso, nutrimento, dolore, godimento, ecc.), “maschera” che definisce, di momento in momento, l’identità che possediamo. La mappa è dunque variabile, ma l’effetto è sempre il medesimo: il corpo è trasformato da “interprete” a “contenitore”. È quello che i teorici della cybercultura definiscono il “remapping sensocognitivo” reso possibile dalla trasformazione antropologica prodotta dalle tecnologie informatiche.

 

Marchesini ha classificato in tre categorie i diversi teorici del movimento postumano, coloro che prendono le distanze dall’idea umanistica del corpo come limite invalicabile, integrità assoluta: i transumanisti, come Moravec, More, Chislenko, per cui “il corpo va smontato e riprogrammato per facilitarne la sostituzione con altri sostrati tecnologici”; gli iperumanisti, come Lévy, de Kerckove, Stelarc, per i quali “il corpo va rafforzato attraverso l’innesto di nuove potenzialità percettive e operative e grazie a una riconfigurazione che lo renda maggiormente controllabile; e i postumanisti, come Haraway, Kelly, Deitch, secondo cui invece “il corpo va reso accessibile, immerso cioè in una temperie postfordista che considera superata ogni pretesa di possesso sul corpo in nome della libera coniugazione del corpo del mondo”.

 

 C’è un “oggetto” su cui l’arte degli anni Novanta insiste continuamente: la pelle. Questa ostinazione, che tende a diventare una vera e propria ossessione, non è neutrale. La pelle è infatti la superficie stessa del corpo, ciò che lo avvolge. La pelle è un’interfaccia tra esterno e interno, un punto di confine e di passaggio. Funziona come una barriera, ma anche come un involucro e un contenitore. Attraverso la pelle, ci ricorda lo psicoanalista Didier Anzieu, il nostro corpo comunica con il mondo, e al tempo stesso difende il corpo-interno dalle intrusioni. Confine protettivo, ci separa e insieme ci unisce al mondo. La pelle lavora per mantenere in uno stato di equilibrio il corpo interno: fornisce le informazioni per regolare la temperatura, secerne fluidi per mantenersi lubrificata, assorbe sostanze esterne come l’acqua, forma una barriera contro aggressioni tossiche. E’ un prezioso meccanismo di feedback. Lo stesso sistema immunitario ha nella pelle la zona di verifica di se stesso. Betti Marenko ha riassunto le riflessioni e le conclusioni a cui il movimento posthuman, che utilizza il corpo come luogo di trasformazioni radicali, è arrivato alla fine degli anni Novanta.

L’autrice cerca di definire cosa sia esattamente la pelle e perché rivesta un ruolo così privilegiato. È il luogo dove appaiono con più evidenza le esperienze compiute dagli individui, raccoglie e mostra le tracce visibili: rughe, marchi, cicatrici, calli, tatuaggi, perforazioni, iscrizioni, cicatrici, vuoti, volumi, curve increspature, “che incarnano i residui del passaggio del mondo attraverso il corpo”. Sulla superficie che ci avvolge e ci contiene si manifestano i segni dei sintomi psichici, dall’isteria alla santità, dei sentimenti e delle emozioni, dal pallore al rossore. E’ uno specchio che ci mette a nudo, anche quando la ricopriamo di vestiti o abiti. La pelle ci rivela agli altri oltre che a noi stessi. Così da rendere “superficiale” ciò che normalmente riteniamo “profondo”: pensieri, emozioni, sentimenti.

 

Freud ha attirato l’attenzione sul fatto che l’Io è innanzitutto una entità corporea: “non soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie” (L’Io e l’Es). La psicoanalisi contemporanea ha assegnato al visivo una prevalenza su tutti gli altri sensi. In particolare, per Jacques Lacan l’identità del soggetto si costituisce nella visione. In realtà, il tatto, o meglio, il senso della pelle, perché esteso a tutto il corpo e non limitato solo alle mani, è l’unico senso autoriflessivo: si conosce tramite se stesso.

 

Le aperture situate sulla superficie del corpo sono oggetto delle nuove pratiche artistiche: le labbra, la vagina, l’ano e la punta del pene. Zone erogene, e dunque zone interdette, aperture orifiziali su cui gravano divieti morali e linguistici, attirano l’attenzione degli artisti. Dal punto di vista topologico, gli organi sessuali femminile e maschile, come si comprende dalle esibizioni di Orlan e Stelarc, sono vere e proprie tasche, rovesciate o verso l’interno o verso l’esterno del corpo.

Didier Anzieu, a metà degli anni Ornata, ha creato la formula Io-Pelle per descrivere la struttura psichica dell’uomo che è diventata indispensabile per interpretare sia le forme artistiche sia le pratiche individuali. Secondo Anzieu, che segue le indicazioni della biologia, la corteccia celebrale, attraverso cui pensiamo, percepiamo e facciamo esperienza del mondo, deriva dallo sviluppo della struttura dell’embrione. Nella sua progressiva espansione, essa forma non solo la corteccia cerebrale, ma anche l’epidermide e l’apparato genitale, entrambe intese come configurazioni di superficie. Le successive invaginazioni producono i diversi organi del corpo, secondo uno sviluppo di superfici. Lo psicoanalista francese ritiene che la formazione del soggetto psichico sia inscindibile da quella del soggetto corporeo. L’idea che sorregge questa visione è quella di un superamento della scissione tra soggetto e oggetto, tra le cartesiane res cogitans (la mente) e res extensa (il corpo), propria anche del posthuman.

 

La pelle è il luogo dove vengono a trovarsi in contatto apparato psichico e apparato fisico, anzi, dove non sono proprio più distinguibili. L’Io-Pelle è “la busta tattile del sé (pelle-sacco), barriera protettiva per la psiche (pelle-schermo) e superficie di iscrizioni capace di attivare comunicazione (pelle-setaccio)”. Per quanto le teorie di Anzieu possano apparire a una prima impressione astruse, in realtà aiutano a spiegare quello che è accaduto alla pelle di giovani e adolescenti.

 

Perché a partire dagli anni Novanta i tatuaggi sono così diffusi? Perché molti giovani desiderano conficcarsi nella pelle delle orecchie, del sopracciglio, dell’ombelico e persino della lingua o degli organi genitali pezzi di metallo coronati da sferette ornamentali imitando i cantanti punk o le pratiche artistiche estreme? Perché la pelle è parte dell’identità psichica degli individui, perché l’azione di iscrizione, taglio o attraversamento diventa un’azione sulla struttura stessa dell’Io. Non solo il corpo degli artisti estremi è manipolato e lacerato, scrive Francesca Alfano Miglietti, ma anche quello di adolescenti perfettamente normali, o di trentenni inserite nel contesto sociale e lavorativo, è trafitto. La ragione, ci fa capire Anzieu, sta nell’impellente bisogno di ridefinire se stessi.

 

 L’automutilazione è diventata dopo il crollo delle ideologie del XX secolo la forma attraverso cui gli individui ridisegnano i confini del proprio corpo, rispetto agli altri, rispetto anche al corpo immaginario della madre, con cui continuano, nonostante tutto – come mostrano le fotografie di Nan Goldin – a mantenere un rapporto simbiotico. Tatuaggio e piercing servono, a chi li pratica, ad assicurare che dentro il corpo, sotto la pelle, non c’è il vuoto, ma appunto “qualcosa”.

 

  

                                                                   Marco Belpoliti

  

  

Queste pagine telematiche sono state riprese dal sito dell’Università di Bergamo Elephant & Castle e fanno parte del libro di Marco Belpoliti: Crolli, Einaudi 2005. (NdR)


Foto allegate

Foto di Man Ray
Orlan in performance
Stelarc e le sue protesi
Robert Gober
Mattew Barney - Cortometraggio
Mattew Barney - Cortometraggio
Nan Goldin: Nan after being battered 1982
Serrano: da The Morgue
Tatuaggio
Tatuaggio
 
 
 
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