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Riccardo Cardellicchio: Fermate La Pira. Romanzoweb a puntate. III
Giorgio La Pira
Giorgio La Pira 
30 Novembre 2008
 

6.

Suono. Spero che ci sia. Sento che qualcuno si muove di là dall’uscio. C’è. E sono contento.

Lucia chiede chi è.

“Sono Giulio”.

“Finalmente”, dice aprendo.

Ci baciamo sulle guance.

“Entra. Hai mangiato?”

Sono sincero e dico di no. Non ho fame. In verità, non me la sono sentita d’andare nella solita trattoria in San Lorenzo e mettermi a un tavolino, tutto solo.

“C’è qualcosa che non quadra?”

Le racconto tutto. Con foga.

“Non credo che Bilenchi, per quello che mi hai sempre raccontato, si faccia mettere sotto da chicchessia. Piuttosto leva il disturbo. Non è così?”

“L’ho sempre pensato. Lo penso. Ma perché, allora, in questa occasione, un’occasione importante, ha scelto il silenzio? Ho sbagliato qualcosa? E cosa?”

“Non credo sia questione di sbagli. Penso, piuttosto, che – trattandosi d’argomento delicato – voglia rifletterci su. Legittimo, mi sembra”.

“Spero sia così. Altrimenti sono problemi. Se si comincia con le censure…”.

“Bilenchi non è uomo da censure”.

Mangio un boccone. Poi parliamo d’altro. E l’accompagno al lavoro.

 

7.

“Ti vuole il direttore”. Rodelli, il redattore capo, è un burbero. Mi guarda sempre storto. Fin dall’inizio, dal primo giorno che ho messo piede al giornale. Con il suo modo di fare, con le sue battute taglienti, ingiustificate, me lo ha reso non bello.

Ero una pasqua prima d’incontrarlo. Ero riuscito, senza raccomandazioni, a fare breccia in  Bilenchi. C’ero riuscito con una serie di articoli sulla provincia, uno spaccato delle piccole realtà sul fronte dell’Arno, toccate duro dalla guerra, in particolare dall’occupazione tedesca.

Avevo raccontato storie, ignorate, di singoli, di famiglie e di comunità.

“Bravo”, m’aveva detto Bilenchi. “Vieni a trovarmi. Ho bisogno di gente come te”.

Rodelli m’aveva sciupato la festa con quel suo modo di fare, con quel suo modo di porsi nei miei confronti.

Bilenchi è alla sua scrivania. Dice: “Siediti”.

Penso che si metta male.

“Sono le parole di La Pira?”

“Ho scritto immediatamente su appunti presi parlandogli a San Procolo”.

“Sai che una cosa del genere, questa intervista, può far rumore, vero?”

“Me ne rendo conto. Ci sono alcune affermazioni che, effettivamente, pubblicate sul nostro giornale, possono avere un certo effetto. Ma ho aggiunto il pezzo sulla Dc”.

“Molti condizionali. Voci. Le parole di La Pira, invece, sono dirette. Parlo, in modo particolare, delle accuse a Fabiani”.

“Capisco”. Vorrei chiedergli: è impubblicabile? Ma lui m’anticipa: “Facciamo una bella pagina oggi. Seguila con il redattore capo. Non far caso se sbuffa. E’ una brava persona. Un buon giornalista. Forse vede troppo a sinistra”.

Non sto nella pelle. Se ne accorge e aggiunge: “Te e io, da domani, avremo un  bel mucchio di nemici. A me non fa né caldo né freddo. Spero che sia così anche per te”.

“Lo è. Sono un giornalista. Mi hai sempre detto che anche in questo giornale si è prima di tutto giornalisti. Gli agit-prop devono stare da un’altra parte”.

Gli piace quel che ho detto, e sorride.

Aggiunge, prima che esca: “Fammi un favore. Domani, a una cert’ora, cerca Fabiani e intervistalo. Metti insieme un po’ di domande non scontate. Non avere soggezione. E’ una brava persona, che si è preso un bell’impegno”.

Non dormo. Non vedo l’ora d’essere a giorno per fiondarmi all’edicola non lontana da casa mia. Penso anche alle domande da rivolgere a Fabiani. Ma vorrà ricevermi?

 

8.

Il segretario dice che il sindaco è impegnato e può ricevermi soltanto dal tocco alle due, in Palazzo Vecchio. Va bene?

Certo che sì.

Le reazioni di comunisti e socialisti non si sono fatte attendere. Due documenti delle segreterie provinciali stigmatizzano le critiche mosse da La Pira alla Giunta Fagiani. Sostengono – in sostanza – che La Pira non sa di cosa parla. E’ lontano dai problemi della città. Non si può sapere di che ha bisogno Firenze stando in chiesa. Lui, sindaco, sarebbe una sciagura per Firenze. Non ha bisogno, Firenze, di uno che sta con la testa tra le nuvole e, spesso, anche altre.

I democristiani si fanno vivi con una nota della segreteria fiorentina. “Quanto scritto è frutto di illazioni, voci non attendibili, raccolte nel sottobosco della politica, capace d’inventarsi le peggio cose pur di seminare zizzania”

 

9.

“L’hai combinata grossa”, dice Fabiani indicandomi la sedia davanti alla sua scrivania, carica di fascicoli.

“I giornalisti, quando fanno il loro dovere, le combinano sempre di grosse”, rispondo leggermente risentito.

Ma Fabiani non è arrabbiato. Sembra divertito. Dopotutto anche lui ha fatto il giornalista. Ha diretto “Il Nuovo Corriere” prima di Bilenchi.

“Giusto”. Sistema alcuni fogli. “Dimmi”.

Tiro fuori il quaderno dalla copertina nera e dai bordi delle pagine colorate di rosso e la stilografica, regalo dei miei genitori per la prima comunione – strumento inseparabile, e portafortuna, dai banchi di scuola. Resistente più del previsto.

“I giornali non usano spesso l’intervista”.

“Bilenchi ci crede. Anch’io”.

“C’è chi crede più nei pastoni”.

“Alcuni sono veramente illeggibili. Vorrebbero dire chissà cosa e finiscono per sprofondare nel nulla”.

“Avanti. Parti con la prima domanda”.

“Prima accusa, che mi sembra emergere parlando anche con la gente, è che alle belle parole del programma non siano seguiti i fatti.

“Sia la Giunta Pieraccini sia questa giunta hanno ereditato una situazione pesante. Pensavamo che ricostruire fosse più facile”.

“Colpa soltanto di una valutazione ottimistica?”

“No. Il problema è più grosso. Abbiamo scoperto, strada facendo, che ci sono numerose emergenze. Tali che con le nostre sole forze non ce la facciamo, non possiamo farcela”.

“Chi dovrebbe aiutare il Comune?”

“Roma. Ma Roma è sorda. Almeno nei nostri confronti. Non lo è per altre città, per altre regioni”.

“Possibile che si faccia politica anche in questo modo?”

“E’ possibile”.

“Non è un alibi?”.

“Nella maniera più assoluta. Roma non apre le porte a Firenze. I no sono continui. Vogliono fiaccarci. A Firenze, comunisti e socialisti sono al potere. Non va giù ai democristiani che governino Firenze. Dimenticano che Firenze rappresenta la libertà, la democrazia. Firenze è la Resistenza. La Toscana è la Resistenza”.

La Pira ha affermato che lei non va tra la gente e, anche per questo, non conosce i problemi reali della gente”.

“Vado tra la gente. Conosco i suoi problemi. L’ho detto. Abbiamo scoperto che sono più gravi di quel che pensavamo. Problemi che vengono dal fascismo e che la politica reazionaria della Dc li incancrenisce. Ci siamo rimboccati le maniche e cerchiamo di risolverli. Ma sono così tanti che è un bel pretendere risolverli rapidamente, e da soli”.

“Si parla di una candidatura La Pira da contrapporre alla sua. Se fosse vera, non sarebbe una bella gatta da pelare per i socialcomunisti?”

La Pira è un personaggio per il mondo cattolico. Non so quanti lo stimino e lo amino. Non credo, comunque, che sia in  possesso di poteri così straordinari da guarire ipso facto i mali, le sofferenze, di Firenze. Tuttavia, se scenderà in campo, lo affronteremo a viso aperto, lealmente, con una certezza: che abbiamo agito sempre da persone oneste, quali siamo, in nome del progresso, a favore dei lavoratori, di chi ha bisogno”.

 

10.

Non ha la stessa risonanza dell’intervista a La Pira, l’intervento di Fabiani.

Alcune risposte sono apparse scontate e, ad alcuni, ha dato noia il riferimento a Roma. Troppo facile spostare il bersaglio. Anche se Roma ha le sue colpe.

Voglio festeggiare, Voglio farlo con Lucia.

“Andiamo a cena insieme?”

“A cena non posso per l’intera settimana. Sono di turno. Possiamo andare a pranzo”.

Vada per il pranzo”.

Evito San Lorenzo. Scelgo un locale diverso. Non di lusso, ma dignitoso.

Arriva raggiante. E’ vestita con semplicità, ma di gusto. E il trucco è leggero. E’ stata anche dalla parrucchiera. La pettinatura è in linea con il resto. Lucia ha i capelli castani che le arrivano fin sulle spalle, leggermente mossi. Anche gli occhi sono castani, grandi. Ha labbra belle.

La guardo compiaciuto. Contento d’essere lì con lei, d’averla conosciuta, di poterla frequentare.

“Non si parla che delle tue interviste in clinica. Hai dato una bella scossa alla politica fiorentina. Hai fatto capire a gente come me, che ne è digiuna, cosa sta avvenendo e hai dato la possibilità di giudicare”.

“Troppo buona”.

“Dico la verità. Linguaggio semplice e la parola ai protagonisti. Che vuoi di più?”

Ride.

“Sto bene con te. Mi libero di tutto quando sto cn te. Vorrei starci sempre”. Lo dico d’impeto toccandole la mano sinistra.

Lei – di botto – diventa triste, gli occhi umidi.

“Scusami. Ho rovinato tutto”.

“No, no. Hai detto cose belle. Sono io che…”.

S’alza di scatto ed esce.

Il cameriere mi guarda. Allargo le braccia, imbarazzato. Mi scuso ed esco anch’io. Fuori, Lucia non c’è.

M’incammino verso il giornale, la morte nel cuore, la voglia di mettermi a urlare come quando, bambino, perdevo una cosa cara, o non trovavo mia madre, l’unica capace di quietarmi.

E ora? L’interrogativo m’impedisce di lavorare con profitto.

“Che ti succede?”, mi chiede un collega.

Non rispondo. Penso soltanto ad uscire. Cammino fino all’alba. Una strada dopo l’altra, occhi curiosi a scrutarmi da angoli bui.

Mi ritrovo in Piazza Indipendenza, davanti alla clinica, poco dopo l’alba.

Sono sfinito.

Non voglio stare lì.

Non voglio che mi veda.

M’infilo in un bar. E ordino un caffè e latte e una polacchina.

La vedo passare verso le otto, gli occhi cerchiati, pallida.

E ora?

 

11.

Hai bisogno di qualche giorno di riposo?”, mi chiede Bilenchi.

“No”, risponde senza pensarci.

“Mi sembri abbattuto. Stanco. Assente”.

“passa”, dico.

“E’ tanto che sei sulla breccia. Non si offende nessuno se fai qualche giorno di festa. Caso mai vai dai tuoi”.

“No, preferisco di no. Passa”.

Bilenchi non è un direttore qualunque. “Il nostro lavoro, chiamalo professione, mestiere, impone un topo di vita che non tutti capiscono”.

“Non è questo. E’ una storia diversa, per certi versi più complicati. E ho detto qualche parola di troppo. Avrei dovuto tacere, non farmi prendere dal momento”.

“E lei se n’è andata”.

“Sì. E non so come fare. Tengo a lei. Accidenti se ci tengo. Ma dovevamo rimanere in una certa maniera, non andare oltre il segno, un certo segno, fissato dalle circostanze”.

“Non ho capito granché. Comunque, mi dispiace”.

“Ti ringrazio, direttore. Ma vedrai che passa. Fammi lavorare, dami incarichi impegnativi e vedrai che passa”.

 

12.

“Volpe, dimmi la verità: siete rimasti fregati”.

Lo guardo sorridendo, l’aria a prenderlo in giro.

E’ abbacchiato. Non lo nasconde. Ha manovrato, da solo o per conto di chissà chi, ma è stato battuto. La Dc fiorentina, l’altra sera, ha deciso che professore Giorgio La Pira è l’uomo giusto per fare il capolista. Che vuol dire candidarsi alla massima carica cittadina, contrapponendosi al comunista Fabiani.

Il comunicato è scarno.

Lo piazzo sotto gli occhi della Volpe, che fa finta di leggerlo. Conosce il contenuto. C’era anche chi all’assemblea.

Si parla di voto quasi unanime. In quel quasi non ci sta la Volpe.

 All’ultimo minuto, lui e il Mandragola, capita l’aria, hanno votato a favore.

Il Mandragola s’è lasciato una porticina aperta per un posto in Giunta.

“E’ un suicidio”, farfuglia la Volpe.

 

13.

Penso a Lucia e sto male. Spero sempre che succeda qualcosa. Cosa? Che lei torni? Mi chiedo se non devo attenderla e fare io il passo. Bussare alla sua porta.

No, non è il caso, mi dico. Se voleva mettere una pietra sopra su quel che è successo al ristorante, non per colpa mia, a quest’ora s’era fatta viva, chiedendo scusa, caso mai pregandomi di non ripetere le cose che possono metterla in imbarazzo. Invece sono passati giorni, tanti, e lei è sparita. Il silenzio assoluto. Neanche un accenno attraverso le sue amiche – ne ha due di fidate, che sanno tutto – Anna e Paola.

Parlo con loro, aggrappandomi a un pretesto?

 

14.

“Allora, professore, ha deciso di candidarsi”. Sono andato sul sicuro a San Procolo.

La Pira mi riconosce.

“Figliolo caro, capita nella vita d’essere quasi obbligati a mettersi sulle spalle, anche se non sono robuste, fardelli pesanti. , questo, è un fardello pesante”.

“S che la Dc farà due paginette di programma, perché si vuole affidare, soprattutto, al suo saggio ‘L’attesa della povera gente’. Ha dato incarico di ristamparlo, mi risulta, alla Vallecchi”.

“E’ vero. Tengo molto a quello studio. Ritengo che fotografi una realtà dolorosa per tutti. Per chi crede e per chi non crede”.

“Fabiani sarà il capolista dei comunisti. E’ un bell’avversario, non le pare?”

“Rispetto gli avversari. E Fagiani in modo particolare. Ma spero che i fiorentini capiscano che non hanno bisogno dei socialcomunisti per riprendersi. Anzi”.

“Si sostiene che, con lei, c’è il rischio d’avere un altro Savonarola”.

Ride, La Pira. Scuote la testa. Passa un fascicolo voluminoso da un braccio all’altro. Dice: “Ci fosse un altro Savonarola”.

“Dice sul serio?”

“Ma ha presente contro chi combatté, il Savonarola? Ha presente in che stato era ridotta Firenze? E la Chiesa, quella degli uomini come il Borgia?”

“D’accordo, professore. Lorenzo non era proprio magnifico, ma Savonarola voleva il potere teocratico”.

Il problema primo era il peccato. Firenze viveva nel peccato. La Chiesa viveva nel peccato. Savonarola non fece altro che condannare questo modo di vivere”.

“Disposto anche lei ad alzare la voce contro il peccato?”

“Oggi il peccato si chiama povertà. Si chiama disoccupazione. Si chiama emarginazione. Si chiama sfruttamento. Si chiama salario non garantito. Firenze non è immune da questi peccati. Come si può tacere?”

Intorno – scopro – sono in parecchi. Hanno ascoltato con attenzione e applaudono, alla fine.

“Grazie, professore”.

“Farà un articolo sul colloquio?”

“Spero di sì”.

“Lo spero anch’io”.

Lo faccio. Non trascuro nulla. E Bilenchi lo pubblica.

     

    

Riccardo Cardellicchio

Fine terza puntata

 

 

 


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