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Nicola Falcinella: Laurent Cantet e il suo film “La classe”
21 Novembre 2008
 

Qualche sera fa, in una delle mie periodiche rapide visite, parlando con Claudio Di Scalzo il discorso è caduto sul film in programmazione al Cinema Victoria di Chiavenna in quei giorni: La classe di Laurent Cantet. «Ah, quel film sul professore che non riesce a tenere la disciplina in classe» mi ha chiesto Claudio, che ne aveva letto sui giornali. Sono trasalito. Faccio il giornalista e so benissimo che i giornali, dove le pagine sono decise da persone che non vedono i film (e a volte si vantano di non vederli) né si sforzano di leggere o di ascoltare i giornalisti o i critici che stanno seguendo le cose. Così ne escono delle forzature che spesso sono funzionali ad altri discorsi. Discorsi che giornali di parte politica avversa a chi li propugna (in)consciamente sostengono. Così, in pieno dibattito sulla controriforma oSCURantista, Gelmini parlare di un professore che non sa tenere la classe significa rafforzare chi richiede più ordine e disciplina. Il bellissimo film di Laurent Cantet parla di tutt’altro. Vederci il professore che non tiene a bada i suoi ragazzi significa guardare il dito di chi indica la Luna. Nella classe del film c’è movimento, dibattito, rumore. Ma è sano. La pellicola è un dibattito sul chi siamo e chi pensiamo di essere; chi avevamo intorno e chi avremo intorno; chi saremo. E come andiamo verso il futuro. Ciò al quale siamo del tutto impreparati e che ci fa paura. La classe mette in discussione la nostra società e le nostre persone. Lo fa in modo intelligente e stimolante. Un film che chi va a scuola, nei diversi ruoli di docente o di studente, dovrebbe vedere. E anche chi con la scuola non ha nulla a che fare, che non varca da anni la porta di un’aula, farebbe bene a guardare per riprendere le misure con il mondo. E con sé stessi. Uno dei pochi film di questo 2008 che resterà a lungo. Così ho pensato di condividere anche con i lettori di TellusFolio quanto avevo scritto circa un mese fa per il quotidiano La Provincia di Como. (N.F.)

 

 

 

Una classe di scuola media simpaticamente indisciplinata, con ragazzi di tutte le provenienze è la protagonista di uno dei film più belli ed emozionanti dell’anno. Nessun attore di grido ma un regista di talento, il Laurent Cantet di Risorse umane, A tempo pieno e Verso sud e adolescenti con tanta voglia di crescere e dire la loro. Il risultato è La classe, meritata Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes e tra i più seri rivali di Gomorra di Matteo Garrone nella corsa all’Oscar come miglior film straniero. La scuola, in questo caso la “Françoise Dolto” nel 20° arrondissement di Parigi (né troppo in centro né in periferia), diventa un microcosmo dove osservare le dinamiche che sono in grande della società. Tutto ruota intorno a un professore di francese (l’insegnante e scrittore François Bégaudeau, autore del libro omonimo che è stato un caso editoriale Oltralpe) per un intero anno scolastico. Ci sono ragazzi di famiglia cinese, sudamericana e africana, il professore cerca di capirli, di trovare modi per stimolarli o provocarli.

Laurent Cantet, da dove è partito per fare questo film?

«All’inizio, ancora prima di leggere il libro di François Bégaudeau, c’era una storia di finzione che avevo scritto. Di questa è rimasta nel film la vicenda di Suleyman, il ragazzino originario del Mali che non riesce a inserirsi. Il libro era un racconto dall’interno di quello che accade in una scuola considerata difficile. Un materiale “documentario” che ho innestato sugli elementi di finzione».

E con i ragazzi come ha lavorato?

«Il lavoro con i protagonisti, tutti non professionisti, ha arricchito molto il film. Dentro la scuola media dove abbiamo girato ho tenuto un laboratorio di recitazione e improvvisazione aperto a ragazzi tra i 13 e i 15 anni. Sui 50 partecipanti, i 25 più assidui e interessati sono diventati gli attori del film, arricchendolo con le loro esperienze di vita. Dopo un anno di lavoro insieme siamo riusciti a costruire un rapporto di fiducia. E dall’altro lato hanno confermato le mie ipotesi di sceneggiatura».

Come ha girato all’interno della classe?

«Ho fatto abbattere parte di una parete dell’aula per poterci mettere tre macchine da presa e i fonici. Poi ci stavo io che davo indicazioni agli operatori. Lasciavo i ragazzi parlare e lavorare per diversi minuti, poi intervenivo per dare delle indicazioni, per dare più importanza ad alcuni temi, a far proseguire la storia. Ma ora non so più cosa era scritto e quanto è stata improvvisazione».

In Francia sta avendo molto successo. Che reazioni ha suscitato?

«Ha stimolato molti dibattiti, soprattutto con gli insegnanti. Alcuni sostengono che questa classe non rappresenta la scuola perché si parla molto e si lavora, si insegna molto. Ma fare un film è anche una questione di scelte e di mettere momenti drammaturgici forti dove c’è una tensione. Avevo girato una scena di alcuni minuti di un dettato ma non l’ho messa nel montaggio perché avrebbe depresso gli spettatori e non aggiungeva nulla. Nel mio film ci sono i momenti di dialogo e di scambio che in una scuola dovrebbero esistere. Da parte mia ho evitato di fare un film a tesi, tranne nei momenti in cui i professori hanno questo approccio. Gli insegnanti devono dare risposte ai ragazzi, ma devono anche mantenere un certo distacco per riflettere su quello che fanno. È quel che ho cercato di mostrare nei momenti che precedono la riunione del consiglio disciplinare che dovrà decidere di Suleyman».

È un film molto parlato…

«Sì, i ragazzi parlano fino allo sfinimento per avere l’ultima parola. Ripetono anche 10-15 volte la stessa cosa per raggiungere questo obiettivo. All’insegnante spetta fargli elaborare un modo di ragionare e discutere diverso dalla ripetizione di uno stesso concetto. Per questo mi interessava mostrare la classe come spazio di discussione e confronto. Invece mi sembra che molti insegnanti si nascondano dietro i libri di testo e i programmi perché è più facile che prendersi il rischio dello scambio e delle domande dei ragazzi. E mi sembra che il film lavori molto anche sulla lingua, sulla formulazione dei pensieri attraverso la lingua. Con uno scarto tra la lingua ufficiale della scuola e quella dei ragazzi, proprio il superamento di questi livelli di linguaggio è la chiave affinché ciascuno di loro trovi il proprio posto nel mondo».

 

Nicola Falcinella


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