Questa è una storia di elefanti che avevano le ali e le hanno perdute. Questa è la storia di costruttori di nuvole precipitati sulla terra. Questa è la nostra storia.
Qui si racconterà il peso della carne, lo strazio delle altitudini negate.
Il primo elefante divino fu ऐरावत Airâvata, il nostro progenitore. Nacque al principio dei tempi, dalla mano destra del demiurgo Brahmâ e, dopo di lui, vennero alla luce altri sette elefanti maschi. Dalla mano sinistra di Brahmâ si levarono, invece, otto elefantesse. E dalle loro otto coppie discesero gli antenati di tutti gli elefanti, i nostri antenati.
Altrove si dice, e anche di questo non c’è motivo di dubitare, che il bianco Airâvata nacque, fra i primi, dal Frullamento dell’Oceano di Latte. Dei e Titani lavorarono all’impresa della creazione per mille anni, finché alla fine giunse il medico degli dei recando in una ciotola bianca l’amṛta, l’immortalità. Anche noi elefanti ne prendemmo parte.
A quel tempo avevamo le ali e potevamo assumere qualsiasi forma. Dentro e fuori dai contorni della materia con spensierata baldanza, le nostre plurime trasfigurazioni assaporavano di libertà illimitata.
Due le virtù straordinarie di cui andavamo fieri: sostenere i quattro punti cardinali e fabbricare le nuvole. A noi si dovevano i benefici monsoni che preservavano dalla siccità e dalla carestia; a noi la frescura delle estati torride. Grazie alla nostra opera celeste crescevano i frutti e le erbe e le creature si moltiplicavano.
Così nell’incantevole età dei primordi avevamo spazi sconfinati, libere volute, ascese interminabili e antiche vocazioni di pioggia.
Un giorno una nostra frotta di elefanti alati si posò sul ramo di un imponente albero, a nord dell’Himâlaya. Sotto ad esso ammaestrava i suoi discepoli il santo asceta Dîrghatapas, “Dalla lunga Ascesi”. Noi però non gli prestammo attenzione; liberi e beati giocavamo a contenderci la maestosità del cielo.
Fu un attimo e udimmo scricchiolare sotto le nostre ali frementi il grosso ramo su cui poggiavamo. Altro non sentimmo. Il ramo si spezzò e precipitò. Noi no.
Solo quando percepimmo dal basso urla soffocate, ci accorgemmo che il ramo era caduto sulle teste dei discepoli di Dîrghatapas. Molti di loro, infatti, giacevano schiantati al suolo.
Noi, incuranti, ci fermammo a mezz’aria e ci spostammo spensierati su un'altra fronda. Ci fidavamo della trasparenza dell’aria e, volteggiando giocosamente, ci mutavamo in sempre nuove forme e creavamo nuvole e nuvole a nostro piacimento, un po’ qua e un po’ là.
Neanche udimmo le imprecazioni del santo asceta, che gridava là sotto: “Vi maledico, voi e tutta la vostra discendenza, razza abietta! Per mille e mille e mille anni, fino alla fine del tempo, su di voi scenda castigo e malaugurio!”. La foresta stessa vibrò di terrore. Noi no, che continuammo i nostri divertiti svolazzi.
Non si sa quale fu l’inizio, ma d’improvviso le nostre ali si prosciugarono e il corpo ci fu greve. Ci sentimmo trascinare verso il basso e l’aria fu ostile nella nostra discesa. La foresta stessa vibrò di terrore. Noi anche.
Il corpo ci imprigionò con le sue carni e fummo fissati irrimediabilmente alla nostra mole, ai cardini tozzi delle nostre quattr’ossa.
“Gli dei ci liberino da questo impaccio per mille e mille e mille anni, fino alla fine del tempo!” tutti supplicammo all’unisono. Nessun dio ci ascoltò.
Così fummo e così rimanemmo. Qui.
Questa è una storia senza peso: di elefanti che volavano e che ora non volano più.
Questa è la storia della nostra origine e della nostra caduta. Dice lo strazio delle altitudini perdute. Il peso compianto della leggerezza.
È la storia dello slancio condensato nella carne, dell’impaccio delle basse finitudini. Al cielo spetta la nostra primogenitura e il percorso a ritroso ci riporta lì, in nostalgia e tormento.
Solo l’ascesa ci somiglia.
Qui in basso la nostra ombra ci spezza le reni. La nostra circonferenza iscrive cerchi imperfetti. E siamo solo ciò che siamo: per muta interrotta, la crisalide non diventa farfalla. Qui siamo e qui rimaniamo. Solleviamo polvere anziché infinito.
Le tracce che lasciamo ci inseguono, sono lo sfregio dell’argilla in cui si disfanno le nostre parvenze, macchie sull’erba. Così teniamo reclinato lo sguardo e ammansita la nostra trasparenza.
Gli dei ce ne scampino! Noi, che siamo stati fulmine e arcobaleno e abbiamo poppato il liquido bianco dell’amṛta, l’immortalità! Per questo conosciamo lo struggimento delle ali. E lievi, vaporosi presagi di pioggia in fondo al cuore.
Io sono un elefante. La nuvola che cammina.
Tiziana Soressi
Bibliografia
NÎLAKAṆṬHA, Mâtaṅgalîlâ (“Il trattato Scherzoso sugli Elefanti”) I, 11-12 pubblicato a cura di T. Ganapati Shastri, Trivandrum, Sanskrit Series 10, 1910 (traduzione tedesca di H.ZIMMER, Spiel um den Elefanten, Monaco-Berlino,1929, rist. Düsseldorf/Köln, 1979, p.99 ss. e di F.EDGERTON, The Elephant-Lore Of The Hindus: The Elephant-sport (Matanga-Lila) Of Nilakantha (Translated From The Original Sanskrit With Introduction, Notes, and Glossary), Delhi-Varanasi-Patna-Madras, 1985, p.44).
Hastyâyurveda (“La sacra Scienza (veda) della Longevità (âyus) degli elefanti (hastin)”) edizione a cura di Shivadattasharman nell’Ânandâúrama Sanskrit Series 26, Poona, 1894.
Altre versioni del mito: Mahâbhârata I, 17 ss.; Viṣṇu Purâṇa I,9; Mahatsya Purâṇa CCXLIX,13-38 etc.
H.ZIMMER Miti e simboli dell’India, Milano, 1993.
Tiziana Soressi con narrazioni di miti, fiabe, bestiari, filosofie fantastiche verra ospitata sull'annuario TELLUS 30, in uscita nel maggio 2008.