Siamo proprio sicuri che nell’ambito della Chiesa ci sia un pensiero unico per quanto riguarda l’interruzione dell’accanimento terapeutico?
Suor Ildefonsa, genovese, settantaquattro anni, da diciassette in convento, da sempre accanto ai ricoverati del Don Orione. Ieri, nella città ligure dove è stata insignita di un premio come “donna fuori dal coro” ha rivelato di avere chiesto ai superiori di poter fare testamento biologico perché non vuole affatto, in caso di malattia incurabile, ridursi come un vegetale: «Se questo fosse il mio destino», ha affermato, «vorrei che mi lasciassero andare via in pace. Ho letto che anche Papa Giovanni Paolo II avrebbe detto, arrivato il suo momento, lasciatemi andare».
Il suo, a quanto pare, non è un caso sporadico. Nel suo ordine a riflettere sulla fine della vita e a manifestare l’intenzione di scrivere le proprie volontà sembra siano almeno in quattro. Una loro sorella, ha raccontato, poco tempo fa si è sentita male e si è accasciata nel cortile colta da ictus. È arrivata l'ambulanza ed è stata subito intubata sul posto per poi essere ricoverata al “Galliera”. È rimasta così, attaccata alle macchine, per quasi tre mesi «e io ho sofferto tanto vedendola in quello stato», confessa la suora. «Poi una notte», aggiunge, «mi hanno chiamato, aveva un febbrone ed è finita. Io ho pensato: non voglio essere attaccata alle macchine, non voglio che la fine sia così. Perché prolungare la sofferenza per sé e per gli altri?».
Ed ecco la sua emblematica riflessione: «Si dice che gli ultimi giorni di sofferenza possano avvicinare a Dio ed essere una benedizione, ma io non so se portano veramente alla salvezza o alla dannazione. Anche la scienza, la medicina, possono sbagliare. È meglio che la Provvidenza faccia il suo corso. Sono stata fra le prime a fare atto notarile per poter donare gli organi, ora, per il testamento biologico aspetterò».
Mons. Giuseppe Casale, classe 1923, ex arcivescovo di Foggia, si è pronunciato, come si sa, senza mezzi termini: «Io sono per una vita piena. Nel caso di persone costrette allo stato vegetativo permanente, dico solo che ci si accanisce sulla vita. Eluana vive perché alimentata artificialmente. La sua è una vita ridotta al minimo, non è una vita piena, è vita vegetativa».
Ed ha tenuto a sottolineare che «l’alimentazione artificiale, come quella somministrata dai medici ai malati in stato vegetativo permanente, è una forma di accanimento» specificando che, nel caso di Eluana, «alimentazione e idratazione si possono parificare ad un accanimento terapeutico» e che «per una persona che crede la fine della vita non è “la fine” ma solo il passare da una condizione all’altra. Per un cristiano non è la morte totale». «Noi», ha sostenuto, «continuiamo a fare battaglie per la vita, come se la morte terrena fosse la fine della persona, e invece si schiude una esistenza nuova».
Già il card. Carlo Maria Martini, in un suo articolo di oltre un anno fa, accennando alle nuove tecnologie che permettono di prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona, aveva auspicato una più attenta riflessione da parte della Chiesa.
Don Andrea Gallo, al tempo in cui Piergiorgio Welby chiedeva che gli fosse la spina, affermò che si dovesse «privilegiare la teologia dell'amore al posto di quella del potere», che, nel caso in questione, era appunto quella che definì efficacemente «teologia terapeutica» mentre Don Luigi Verzé, presidente del “San Raffaele”, tenne a precisare di ritenere più giusto che «quando si è tentato tutto, ma proprio tutto, i medici si arrendano, 'lascino' che la vita faccia il suo corso, che il malato torni fra le braccia del Padre (…) un atto di amore e di responsabilità. Non un atto medico contro la vita, ma la constatazione che l'uomo ha una sua dignità, soprattutto negli ultimi istanti della sua vita».
Non ci sono, quindi, solo Ratzinger, Ruini e c. così come, per fortuna, a rappresentare le posizioni dei cattolici, non c’è solo l’opusdeista Binetti…
Francesco Pullia
(da Notizie radicali, 18 novembre 2008)