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Alessandra Borsetti Venier intervista Paolo Crepet
20 Novembre 2008
 

Ho realizzato questa intervista a conclusione del progetto biennale sull’arte contemporanea, “Officina Canuti”, che si è svolto nell’arco di due anni a Pontedera (Pisa). Al professor Crepet ho rivolto domande inerenti soprattutto gli aspetti didattici dell’esperienza che l’artista Canuti ha condotto con varie classi sia delle Scuole Medie che delle Superiori. (abv)

 

  

ABV: INTERVISTA A PAOLO CREPET

 

I fantasmi occupano gli spazi spettrali e gli incubi diventano sogni” questo è stato il tema che ha ispirato il progetto del laboratorio didattico dell’ “Officina Canuti”. Siamo partiti dalla scoperta e dall’analisi di vari elementi di degrado della città che testimoniano la tragicità della vita quotidiana per superarli attraverso l’arte…

Crepet: È un po’ come si fa a scuola l’educazione musicale, che non è suonare soltanto il “piffero” ma è anche ascoltare la musica, le varie e diverse musiche. Però nell’educazione musicale c’è anche l’educazione al silenzio… Ho i miei dubbi riguardo all’idea di una cosa per tutti, nel senso che la creatività, in termini artistici, non è per tutti, non deve essere per tutti… Bisogna dire ai ragazzi che l’arte non è tutto ciò che si studia a scuola. Quindi i ragazzi devono crescere pensando che l’arte sia un obiettivo non per tutti.

 

Non le sembra un discorso elitario?

Tutto è elitario, l’intelligenza, la cultura… Non credo nelle visioni pan sovietiche… Ci sono stati in proposito vari fraintendimenti… Io preferisco il colore ma rispetto anche le persone che preferiscono il bianco e nero.

 

Spesso i ragazzi dicono che a scuola si annoiano…

Intanto penso che la noia sia una casa meravigliosa, guai a estirpare la noia dai bambini perché sennò non sanno cosa vuol dire eccitarsi. Credo sia importante annoiarsi per capire che ti stai annoiando e quindi attivare la creatività. La noia è una parte intrinseca della creatività. Immagino che tutti i “grandi” si siano annoiati terribilmente in quanto persone sensibili…

 

Abbiamo affiancato l’artista Nado Canuti ai ragazzi e ai loro insegnanti. L’artista mette in crisi il rapporto tradizionale dell’insegnare e dell’imparare…

L’impatto di questa esperienza è di per sé lodevole… ma bisogna stare attenti alle aspettative: se ho davanti una quarantina di ragazzi devo considerare che almeno per dieci di questi possa essere una grande rottura... Non possiamo pensare che ci siano delle panacee. Siamo all’insegnamento e non all’educazione, che è un’altra cosa. È uno sbaglio pensare che una cosa possa andare bene per tutti, mi spiego? Si deve tenere di conto anche di una parte di non-risposta.

 

Come possiamo avere più rispetto della soggettività?

Penso all’azione di un mimo dentro la scuola… penso che sarebbe ancora più importante, necessario, che qualcuno insegnasse loro il silenzio, che è la pre-condizione dell’arte. Infatti, un artista ha bisogno prima di tutto di sapersi concentrare per pensare. Oggi a molti bambini non è concesso di pensare, non pensano mai, non hanno tempo per pensare. Sarebbe propedeutico se a scuola ci fosse un’ora di meditazione alla settimana… Si vedono tante scolaresche che vanno in giro per musei e città, se invece le portassero in un deserto, questo sarebbe estremamente interessante. Si dovrebbero portare i ragazzi in un “non luogo” - loro che conoscono solo i luoghi - dove, in qualche modo, sei costretto a fare i conti con te stesso. Questa è una cosa che un ragazzino non fa mai. Invece è sempre circondato da iper-attenzioni. E poi c’è la scuola che pretende, la vita che pretende… l’obbligo formativo, è tutto un obbligo.

 

Un suo pensiero ricorrente è che noi siamo, fondamentalmente, ciò che abbiamo appreso. E ciò che apprendiamo lo dobbiamo in buona parte agli adulti che abbiamo accanto. Crede che possiamo - da adulti, insegnanti, educatori - fare in modo che i ragazzi ci riscoprano e ci accettino liberamente?

Io vengo dall’esperienza sul campo. Parlo con i ragazzi cercando di capire cosa può essere loro utile senza passare dalle demonizzazioni che non servono a nulla. Credo che il vostro tentativo didattico sia un percorso molto interessante e sono contento che abbiate fatto tutto questo. Io credo molto nei piccoli laboratori e credo che per cambiare serva innanzi tutto realizzare una “piccola” esperienza in un “piccolo” luogo. Un’esperienza che possa essere gestibile e godibile da poche persone. Tutti quelli che hanno cambiato qualcosa, Basaglia, Montessori, Don Milani, e hanno lavorato su “piccole” cose non hanno aspettato prima i “grandi” cambiamenti. La fantasia è radicalità, è espressione pura del pensiero, poi viene la politica, nel senso che c’è bisogno di qualcuno che faccia sedimentare le cose, le renda possibili per la maggioranza. Ma all’inizio c’è bisogno del rompighiaccio, del provocatore, quello che spezza le catene. Altrimenti noi cittadini normali non avremmo nulla a cui far riferimento.

 

Per i ragazzi, essere educati all’arte e all’estetica è quasi un’operazione “inutile” in una società dove spesso domina l’orrore nelle più diverse forme. Eppure, le immagini che realizzano sono davvero soltanto il segno del loro “analfabetismo” visivo?

La “bruttezza della bellezza”. Prenda una qualsiasi sfilata di moda, le indossatrici sono volute così da qualcuno a cui di certo non piacciono le donne che vengono trattate quasi come fenomeni da circo. È la bellezza senza nessuna sensualità. Invece la bellezza è sensualità. Attira i sensi. Quelle bellezze invece sono asensoriali, riflettono la cultura di un mondo freddo, cinico. E i ragazzi esprimono il profondo disagio di stare in un mondo così… Penso alla cultura della scuola del Bauhaus dove l’insegnamento progettuale era basato su laboratori sia per i designers che per gli artigiani, dove l’estetica era fruibilità per star bene: perché ci fossero delle cose utili e non belle di per sé. L’idea che oggi abbiamo della bellezza dovrebbe essere totalmente reinterpretata.

 

Il “piacere” del fare è diventato spesso - nelle esperienze dei nostri laboratori - un fatto privato, soggettivo, autentico, che ha visto i ragazzi intensamente immersi nel dialogo a tu per tu con l’opera d’arte. La consapevolezza che i parametri di interpretazione e di valutazione non siano “oggettivi”, e che la lettura di un’opera d’arte sia invece “soggettiva”, può essere un rischio da un punto di vista educativo?

Io credo che qualsiasi grande artista si sia divertito moltissimo a leggere le critiche alle sue opere, magari scoprendo che aveva fatto delle cose che neanche s’immaginava. Penso che un genio, come lo è stato Mark Rotko, avesse tutt’altre intenzioni da quelle che gli sono state attribuite. Lui era terribilmente triste e angosciato, tuttavia quello che gli è stato ricamato addosso l’ha accettato volentieri, ma era al di là… La cosa bella dell’arte è anche una certa contaminazione di ignoranza... Io penso che un grande artista non possa essere mai un critico, che non debba mai conoscere troppo a fondo la storia dell’arte, sennò rischia di copiare. Il grande artista deve essere un po’ “ignorante”. Io ritengo che il grande artista sia una persona che fa ciò che prima non c’era.

 

Ritiene che le caratteristiche pedagogiche e didattiche di questi Laboratori siano esportabili come “buoni esempi”?

Penso che il pensiero debba rimanere singolo. La pedagogia insegna a tutti, ma cosa insegna a tutti? Oggi s’insegna a tutti ciò che è di tutti. Nel giro di qualche generazione diventeremo tutti scemi. Il libero pensatore è una persona... ummm… è difficile indicarla no? È difficile pensare perché c’è poco esercizio. È un po’ come con i ragazzi, ai quali si deve insegnare a stare da soli e non sempre in gruppo, in compagnia. Stai da solo e impari chi sei! Anche a studiare... studiare è fatica ma devi farlo da solo. Ci deve essere anche la dimensione del dolore che dobbiamo ritrovare. Non ho mai letto la biografia di un grande artista dove non sia presente anche un grande dolore.

 

L’arte vera è coinvolgente a tal punto che può cambiarci… Non sarà per questo che la temiamo?

Innanzitutto temiamo la libertà. L’uomo nasce pessimista e ritiene che la sua libertà sia un pericolo per gli altri. Se si pensa cosa ha fatto l’umanità, tranne qualche eccezione, è tutto un grande lavoro per mettere la gente insieme, per dargli una bandiera, una giubba, una fede… Quanto lavoro c’è stato per far sì che nessuno avesse delle opinioni personali e che tutti aderissero all’opinione comune. Ecco che un bambino viene “insegnato”. Come s’insegna a un bambino a colorare Paperino da Bolzano a Pantelleria? Si prende un quadernone con Paperino colorato da una parte e dall’altra Paperino disegnato e si colora copiando il becco giallo, le ali bianche... se uno invece facesse il becco viola lo manderebbero dallo psicologo. Ecco che fine fa la spontaneità dei bambini… è più facile insegnare a trenta bambini che educare trenta bambini. L’educazione è tirare fuori il talento che c’è dentro ciascuno di noi e questo porta a una sorta di caos. E il caos l’uomo l’ha sempre temuto perché chi controlla il caos? Ci vuole la libertà nell’ordine, dicevano una volta.

  

 

Morgana Edizioni ha pubblicato recentemente due volumi uniti in un unico cofanetto. Il primo volume è Nado Canuti: l’artista e il territorio, 250 pagine. L'Intervista qui riportata è pubblicata nel secondo volume Nado Canuti: l’artista e la scuola, 200 pagine. Prezzo del cofanetto Euro 90

 


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