È chiaro che al di là di alcuni provvedimenti come il maestro unico, il voto in condotta, il ritorno al grembiule, su cui possiamo essere più o meno d'accordo, quella proposta dal ministro Gelmini non è una riforma della scuola o dell'università. Nasce semplicemente dalla necessità di far quadrare i conti, basta pensare che la maggior parte di questi provvedimenti si trovano nel famoso decreto 112, varato in piena estate, che riguarda tutta la pubblica amministrazione.
Partiamo da due considerazioni su cui tutti o quasi tutti possiamo essere d'accordo:
1) Tutti i dati che abbiamo ci dicono del forte ritardo della scuola italiana nei confronti di quella degli altri paesi europei.
2) L'università italiana è ormai diventato un sistema autarchico, soffocato da regole ed incentivi distorti; quindi non è in grado di essere il motore propulsore per lo sviluppo economico, ma soprattutto culturale e creativo della nostra società.
Ora, se si parte da queste premesse significa che bisogna iniziare un discorso di riforma strutturale della scuola e dell'università che non può essere affrontata in un decreto estivo insieme a mille altre cose.
In questo periodo si è molto dibattuto su quello che non funziona, ma troppo poco si dibatte sul tipo di società che vogliamo, una società della quale scuola e università siano i pilastri.
Siamo convinti che molte cose che noi radicali diciamo, che spesso sentiamo dall'università popolare di Radio Radicale, conoscere per deliberare, il diritto all'informazione, il rifiuto della non informazione o di un'informazione data spesso per slogan e semplificata (si pensi alla crisi finanziaria, che è nata anche dalla nostra ignoranza sui temi economici, che oggi non ci possiamo più permettere), dovrebbero essere alla fine di un percorso scolastico bagaglio di ogni studente.
Le tecnologie si fanno sempre più raffinate e spesso più complesse, la globalizzazione rende le nostre scelte più difficili, la stessa scienza ci permette di sapere sempre di più, aprendoci orizzonti meravigliosi (si pensi alle ultime scoperte che ci permetteranno di valutare il grado di salute di un futuro individuo) che ci rendono sempre più consapevoli della nostra vita e dei suoi sviluppi.
Sapere è sempre meglio di non sapere, come scriveva Edoardo Boncinelli sul Corriere della Sera, ma quanto di tutto questo viene insegnato nella scuola, al di là delle singole materie, delle nozioni sempre utili, ma non sufficienti? Quello che vogliamo alla fine di un ciclo di studi è che venga coltivata in ciascuno di noi la passione per la cultura, per la ricerca, lasciandoci quella curiosità che tutti ricordiamo così viva nei primi anni della nostra vita.
Essere consapevoli che la società ci chiede di essere adeguati alle nuove tecnologie, alle nuove scoperte scientifiche, presuppone un lavoro di studio, di formazione che ci deve accompagnare per tutta la vita, e la scuola è il solo il primo passo.
Oggi è sempre più probabile, anche per la velocità di cambiamenti dovuti alla globalizzazione e alla scienza, che si debba nell'arco di una vita cambiare più volte tipo di lavoro: è la tanto vituperata flessibilità, che non significa precarietà, ma la capacità di cogliere questi momenti come un'opportunità di crescita, non come una scelta imposta e drammatica; ma questo è possibile solo se abbiamo un atteggiamento positivo verso la scienza, la cultura, la conoscenza.
In questi mesi per quanto riguarda la scuola si è dibattuto soprattutto sul ritardo dei livelli di apprendimento degli studenti italiani nei confronti di quelli degli altri paesi europei, e del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, ma molto poco sulla dispersione scolastica (sarebbe interessante capire anche quali sono i parametri con cui sono stati stabiliti questi livelli di apprendimento: non che questo cambierebbe di molto la situazione, ma ci è capitato di avere tra le mani i test d'ingresso per la Facoltà di medicina, e in quel caso si valutava essenzialmente la capacità di uno studente di avere memorizzato una quantità notevole di nozioni, anche di poco interesse).
La dispersione scolastica si concentra per lo più tra la fine della scuola media e l'inizio della secondaria superiore. Nel 2007 un ragazzo su cinque tra i 18 e i 24 anni aveva conseguito solo la licenza di terza media e non frequentava alcun corso di formazione; un'incidenza tra le più elevate a livello europeo.
Questa è una questione che dovrebbe interessare la nostra classe politica, perché è chiaro che in questo modo si crea una nuova forma di analfabetismo. Il fatto che la “selezione sociale” inizi già a quest’età, dovrebbe preoccupare sia politici che economisti.
Quali sono i fattori che spiegano l'abbandono scolastico o l'irregolarità del percorso scolastico?
Elementi di valutazione in questo senso ci servono per capire da dove partire per avere una scuola adeguata a un nuova società.
Il primo fattore fondamentale è lo status socioeconomico dei genitori e il loro livello di istruzione. Avere i genitori laureati, piuttosto che con la sola licenza media, allontana di circa dieci volte la probabilità di essere in ritardo o di abbandonare gli studi.
L’efficacia del sistema scolastico nel ridurre le disuguaglianze di partenza dei giovani e, più in generale, la dispersione scolastica, non sembra tuttavia dipendere dalla quantità delle risorse impiegate, quali il numero di docenti per alunno o la numerosità delle classi. Appaiono invece più significativi la composizione del corpo docente, le modalità con cui opera nella scuola, la qualità delle strutture scolastiche dove si svolge l’attività didattica.
Il rischio di ripetere l’anno è minore dove è più bassa la percentuale di docenti a tempo determinato.
Nello scorso anno scolastico, su 700 mila docenti di ruolo circa 130 mila hanno chiesto il trasferimento ad un altro istituto. Ma ci sono anche i supplenti con contratto annuale, più di 100 mila, che puntano ogni anno all’avvicinamento a casa. Questo risulta negativo soprattutto per gli studenti.
Altro fattore importante è il tempo pieno. Il tempo pieno, oltre a risolvere i problemi pratici delle famiglie, aiuta lo sviluppo formativo del giovane, garantendo un’assistenza educativa per lo studio e favorendo il processo di socializzazione e di allargamento degli orizzonti culturali.
Aumentare la diffusione del tempo pieno riduce la dispersione scolastica di quasi 8 punti percentuali, contribuendo a colmare parte del gap rispetto a quelli che provengono da contesti familiari più favorevoli. Gli effetti del tempo pieno diventerebbe ancora più rilevanti in una scuola sempre più caratterizzata dalla presenza di alunni stranieri.
Inoltre sarebbe importante che ci fossero meccanismi di valutazione degli insegnanti; sia perché non tutti svolgono il lavoro di insegnante nello stesso modo, per capacità, creatività e passione e quindi è importante che queste capacità siano riconosciute, sia perché sarebbe un utile strumento per i genitori nella scelta della scuola. Costruire meccanismi di valutazione per la scuola, a differenza dell'università, non è semplice perché non ci si deve basare solo sul livello di apprendimento raggiunto, ma è importante che si valuti anche la capacità di recuperare gli studenti. E' importante quindi conoscere il contesto sociale in cui l'insegnante opera.
Come dice il prof. Luigi De Marchi: «non è sufficiente parlare di merito, ma si deve chiedere che il merito sia valutato con criteri nuovi, e non con quelli convenzionali che tanto danno hanno già fatto. La selezione e gestione del nostro personale didattico viene fatta con criteri essenzialmente nozionistici. Per valutare l’idoneità del candidato all’insegnamento vengono utilizzate prove orali o scritte finalizzate a conoscerne la preparazione circa i contenuti delle varie materie. Quanto poi alla valutazione ai fini della carriera, essa è stata finora ridotta al minimo dagli automatismi e, anche nei rari casi in cui viene applicata, essa si basa sugli aggiornamenti nozionistici degl’insegnanti o sui risultati che essi hanno ottenuto nella preparazione nozionistica dei loro allievi.
Purtroppo, queste valutazioni nozionistiche hanno ben poco a che fare con quelle che sono le qualità davvero basilari d’un bravo docente: e cioè la sua capacità di appassionare gli allievi alla cultura e alla ricerca, a sua volta connessa alla capacità di presentare in modo chiaro e appassionato la materia insegnata, di ascoltare le difficoltà e anche le critiche degli allievi, di valorizzarne le idee, le proposte, le curiosità e l’indipendenza intellettuale. Si può essere al tempo stesso pozzi di scienza e pessimi insegnanti, e queste qualità possono e debbono essere esplorate soprattutto con varie prove (lezioni dimostrative, colloqui individuali, gestione di gruppi di ricerca o d’incontro) e valutate soprattutto da gruppi randomizzati di allievi».
Quindi è sicuramente giusto introdurre meccanismi di merito, ma bisogna fare attenzione come questi vengono creati.
Migliori infrastrutture scolastiche sono invece associate a una minore probabilità di abbandonare gli studi. Edifici poco adattati a uso scolastico e scuole con infrastrutture e impianti scadenti possono sia influenzare negativamente l’apprendimento degli studenti, sia segnalare una minore attenzione degli enti locali nei confronti del mondo della scuola, scoraggiando pertanto la prosecuzione degli studi.
Passiamo ora alla questione università. Il tema della riforma universitaria è importante per molti motivi: determina la qualità dello sviluppo economico del nostro paese, attira giovani e non giovani di paesi diversi dall'Italia, determina, come la scuola, soprattuto la qualità dell'informazione e della democrazia di un paese.
Il prof. Fabio Pammolli a Radio Radicale ha dichiarato di essere favorevole ai tagli perché vanno a colpire un sistema autarchico e prima di mettere nuove risorse l'università dovrebbe essere in grado di autoriformarsi.
Pensiamo che eventuali tagli, se devono essere fatti, devono essere accompagnati da una contestuale (e non successiva) riforma globale dell'università perché l'università ha un ruolo fondamentale nello sviluppo di un paese: secondo alcuni studi, un incremento del 3 per cento del numero di persone con un PhD in un paese porta all'aumento del numero di brevetti e all'aumento della produttività dell'1 per cento all'anno. Se si pensa a medio termine, non come fanno spesso i nostri politici all'immediato, questo ha un peso fondamentale.
La riforma universitaria deve essere fatta il prima possibile, perché è un reale investimento per il paese e non pensiamo che i tagli, senza essere accompagnati da una riforma seria, producano niente di buono.
Nei concorsi per i docenti si conoscono già i vincitori, questo è spesso legato al budget dell'università, che ha origine dall'autonomia, come molte altre una riforma incompleta.
Ciò porta a numerose conseguenze negative: esiste un mercato vastissimo di ricercatori stranieri, ma oggi nelle nostre università i docenti stranieri sono solo l'1% , la percentuale più bassa al mondo. Altro fatto: esistono circa 370 raggruppamenti disciplinari in cui si svolgono i concorsi contro il 65-70 gruppi disciplinari ad esempio in Francia, questo permette ai vari baroni di controllare i concorsi.
Inoltre molte università italiane sono governate da episodi di nepotismo come denuncia il libro di Roberto Perotti. A Messina quasi il 40% ha un omonimo in qualche università, a Napoli (Federico II, Seconda Università) si registra il 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Tor Vergata) non si scende sotto il 30%. Sicuramente alcune di queste omonimie possono essere casuali, e può darsi anche che il figlio, figlia, moglie, marito, amante sia una persona meritevole. Ma la dimensione del fenomeno ci dà purtroppo un segnale dei criteri con cui i docenti vengono reclutati.
Infine un fattore fondamentale nel vincere un concorso è l'appartenenza all'ateneo che ha indetto il concorso, questo dà ragione della bassissima percentuale di docenti stranieri o di altre città nelle nostre università e rende spesso le nostre università provinciali e non un luogo di idee, di cultura e di conoscenza.
Allora cosa fare? La risposta non è semplice perché la situazione è complessa. Pensiamo che bisogna lavorare su più fronti:
sicuramente bisogna che il ministero valuti la produzione scientifica delle diverse facoltà e sulla base di queste valutazioni vengano distribuiti i fondi.
Si potrebbe immaginare di eliminare i concorsi: un preside, un direttore, o comunque un docente che segue un filone di ricerca si assume la responsabilità di prendere un docente piuttosto che un altro, usando il metodo della peer review. D’altra parte è quello che succede già oggi, ma la differenza è che viene responsabilizzata la scelta.
Ovviamente scelte sbagliate hanno come conseguenza minori finanziamenti da parte dello Stato e il rischio di perdere terreno nei confronti di altre università. Ma può capitare benissimo, e capita, che ci siano ricercatori capaci che per l'originalità delle proprie ricerche non siano riusciti a pubblicare ancora il proprio lavoro su riviste importanti. Niente impedisce che un docente, una facoltà decida di scommettere su di lui.
A questo proposito può essere interessante ciò che Kary Mullis, premio Nobel per la chimica nel ‘93 per la scoperta della PCR (reazione a catena della polimerasi, proteina che serve a fare la duplicazione DNA ) che ha rivoluzionato il mondo della chimica e della genetica, riporta in un suo libro.
Kary Mullis, uno degli scienziati più eccentrici con cui non condividiamo molte idee, racconta che quando ancora non aveva finito il dottorato propose alla rivista Nature un articolo dal titolo pomposo: L'importanza cosmologica dell'inversione del tempo. Un articolo di scarso valore scientifico, ma venne accettato dalla rivista ed ebbe un certo successo nel mondo della scienza. L'autore cominciò a preoccuparsi che nel mondo della scienza ci fosse qualcosa che non funzionava.
Anni più tardi scoprì la PCR, ma incredibilmente sia Nature che Science respinsero l'articolo, suggerendogli di pubblicarlo su una rivista minore. Dopo un bel po' di tempo l'articolo venne pubblicato in un'altra importante rivista.
Dare la responsabilità della chiamata ai docenti potrebbe diminuire errori di questo tipo,
Poi si dovrebbe abolire il valore legale del titolo di studio, nel senso che dovrebbe acquisire importanza nei concorsi sapere in quale università è stata conseguita la laurea, il tipo di curriculum di studio, che tesi è stata fatta.
Sicuramente in questo modo si creerebbe concorrenza tra le varie università, che sarebbero costrette ad autoriformarsi per poter attrarre studenti.
Quindi finanziamenti in base alla qualità della ricerca, non più in base al numero di studenti o ai finanziamenti ottenuti negli anni passati; trasparenza nei bilanci e indipendenza del consiglio di amministrazione dalle altre cariche accademiche.
Infine occorre sfatare il pregiudizio nei confronti della tasse universitarie perché, come ci dicono i dati, oggi all'università vanno soprattutto i ricchi, che potrebbero pagare la retta di tasca propria, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, compresi i poveri che spesso non arrivano all'università. Quindi aumentare la retta per chi può permetterselo potrebbe aiutare a garantire borse di studio e prestiti d'onore. Senza contare che è vero che le tasse universitarie sono basse, ma poi ci si dimentica quanto realmente costa per uno studente fare l'università in un'altra città a causa del costo degli affitti.
Sicuramente molte altre cose non vanno, alcune di grande portata (per esempio la questione dell’edilizia universitaria), altre di minore impatto, ma che potrebbero contribuire a restituire serietà al lavoro che si svolge nella nostra accademia. Sicuramente bisogna eliminare i crediti formativi universitari attribuiti solo perché uno studente ha seguito un seminario, una scuola estiva, senza poi nessuna verifica.
Nel contempo bisogna trovare criteri per diminuire il numero dei fuori corso nelle nostre università, perché non è pensabile che ci sia tra il primo esame sostenuto e l'ultimo un lasso di tempo irragionevole.
Chiudiamo sottolineando l’esistenza di un pregiudizio che aleggia in tutto il dibattito sulla riforma dell’università, quello del numero di studenti che seguono un corso. Il parametro della quantità di studenti deve essere usato con molta attenzione, perché esistono corsi che o per la difficoltà o perché non sono di moda, o perché non assicurano un facile inserimento nel mondo del lavoro hanno pochi studenti, ma risultano fondamentali per la conoscenza, arricchiscono il patrimonio culturale di una società. Insomma, pensiamo che si debba riformare l'università, ma non è accettabile che l'unico criterio sia quello della spendibilità immediata del titolo sul mercato del lavoro e della sua (presunta) utilità per lo sviluppo economico del paese.
Andrea Francioni e Giulia Simi
(da Notizie radicali, 14 novembre 2008)