È diventato un dilemma scespiriano! L’ha detta o non l’ha detta? E unanime si leva la voce: l’ha detta e ognuno trattiene il respiro, cercando di indovinare il -detto-. Cosa avrà detto? E il dilemma aumenta fino a quando non si legge il -detto- e allora lo scoramento prende ancora più forte. Mentre tutti plaudono Obama, per l’elezione a Presidente degli Stati Uniti, noi finiamo su tutti i giornali e non per plauso pubblico, ma soltanto per l’ennesima espressione inadeguata di chi ci rappresenta.
All’espressione fa subito seguito il correttivo in cui è velato il richiamo alla nostra pochezza mentale per non aver capito la sottigliezza dell’espressione e il dubbio diventa ancora più feroce: che non abbiamo più la capacità di intendere? Ma ci tranquillizza subito il sorriso stampato di chi si esprime con tanta leggerezza (e diciamocela…) e il sorriso malcelato di chi cerca di fare il paraguai.
Ci consenta, Ministro Gelmini dell’Istruzione, un suggerimento che forse precedentemente in altri scritti, è stato espresso in modo troppo larvato per essere compreso, anche se un occhio attento lo capta con immediatezza: la prima lezione da tenere e che risulta essere fondamentale a livello di comunicazione e di educazione è l’uso corretto della parola nel suo valore semantico e polisemico. Il correttivo non basta a cambiare il senso dell’espressione e denigra chi fa un uso improprio della parola e con lui chi egli rappresenta. Un uso improprio ha una ricaduta negativa e immediata sui giovani per i quali si declama un’“educazione seria” e conforme a principi e regole; probabilmente sfugge ai proponenti il significato stesso del termine “serietà”, visti gli esempi di linguaggio e dei comportamenti quotidiani, ai quali i giovani dovrebbero guardare per imparare.
L’Italia è ormai diventato il paese delle incongruenze, delle cosìddette “brutte figure”, ma per fortuna non c’è una nostra identità con chi è artefice di tali espressioni; noi apparteniamo ad un’altra cultura e ci riconosciamo in altri principi, tuttavia in veste di educatori è nostro compito tutelare i giovani che vivono questa realtà che nulla aggiunge alla loro educazione se non in termini di negatività e il compito si presenta pertanto più arduo di giorno in giorno. Possiamo anche sorridere al momento della pochezza di certe espressioni, ma dentro qualcosa ci rode nel profondo e ci chiediamo fino a quando durerà tutto ciò, fino a quando saremo ancora disposti a sopportare certe espressioni di tracotanza, fino a quando potremo tollerare di essere così rappresentati: il problema non è soltanto di ordine politico ma smuove quella dignità che forse malauguratamente si era nei più assopita ma che il tempo, guaritore, risveglierà. Gentile Ministro Gelmini, suonano strane in questo contesto le Sue parole: Si ritorna alla scuola della “serietà” e dell’“educazione”! Crede che sia possibile? Forse lo potrà essere, ma solo grazie a chi nella scuola ha operato e opera per mantenere da sempre tali obiettivi. Certamente la sua giovane età Le impedisce di guardare oltre…La parola, per chi la usa, ha un’importanza fondamentale e qualifica la persona stessa. L’insegnamento fa della parola il punto cardine del processo formativo che affida alla parola il rapporto di comunicazione che deve basarsi su espressioni chiare, responsabili e consapevoli. La riflessione è uno degli strumenti più adatto alla comunicazione, non a caso è uno dei punti di forza di un apprendimento critico e analitico ed è questo che oggi manca in molti che dovrebbero rappresentarci. L’educazione che si impartisce a scuola e che si rapporta al mondo esterno, ha bisogno di modelli comportamentali da seguire, consoni ai ruoli che si ricoprono.
Sono i comportamenti sbagliati i primi ad essere assimilati dai giovani che non hanno ancora alle spalle un terreno sedimentato ed è questa una responsabilità gravissima. Non si può parlare di “serietà” se non si è tali e se si allontanano sempre più da noi i valori del rispetto, che per fortuna però fino ad oggi abbiamo insegnato a scuola e che con orgoglio difendiamo.
Anna Lanzetta