Colpiva, e colpisce ancora, l’ostentata indifferenza che l’Unità di Concita De Gregorio ha riservato al congresso dei radicali italiani di Chianciano; può essere sfuggito, ma neppure ha ritenuto di dover dare l’esito conclusivo del congresso. È un fatto. Pesano e contano le parole, pesano e contano i silenzi; non è un bel segnale, non è un bel “messaggio” questa ostentata indifferenza.
Eppure i radicali ci sono. Ci sono in Parlamento, con le loro peculiarità e le loro proposte, che certamente li differenziano e li caratterizzano dal PD; e con la loro indiscutibile lealtà. Oggi, come ieri, rinnovano la richiesta di dialogo e di confronto. Una richiesta di dialogo e di confronto che vengono da lontano: da quando, negli anni Cinquanta, a chi proponeva l’unità delle forze laiche, si oppose l’unione laica delle forze.
C’è poi stato l’articolo, importante ma isolato, di Luigi Manconi: che ha colto l’essenza della questione, e sollecita, anche lui, risposte. Domande e questioni che Manconi pone innanzitutto al PD; e anche lui, per ora, ha raccolto solo gelida, ostentata indifferenza.
Scende in campo, ora, Federico Orlando. Su Europa scrive cose di peso: «Ci ha rallegrato percepire dal congresso radicale di Chianciano scossoni forti o soft al PD; e siamo d’accordo con Luigi Manconi che scrive sull’Unità: “Penso che debba essere il PD a dare risposte ai radicali, dimostrare che abbia voglia di intrattenere un rapporto maturo, e soprattutto cogliere l’occasione, offerta dai radicali, che averli nel partito è oneroso e a volte molesto, ma sempre produttivo”. Per esempio produttivo di valori (questi sì) non negoziabili che si chiamano tolleranza,libertà di opinione, diritto al dissenso, insomma quel collante liberale di cui si diceva, che preserva il partito non solo dalla diaspora, ma anche dalla “fisionomia neutra e anonima”».
Si possono comprendere le difficoltà in cui si dibattono il PD e il suo gruppo dirigente. Devono fare i conti con una quantità di scelte e di valutazioni sbagliati, di errori anche gravi commessi con grave leggerezza. L’interessante studio realizzato da Italian Election Studies, un gruppo di ricerca avviato nei primi anni Novanta dall’Istituto Cattaneo presieduto da Giacomo Sani, sul risultato e le implicazioni delle elezioni del 13 e del 14 aprile, documenta che il PD ha perso per l’effetto congiunto dell’astensione selettiva (e attiva) di parte dell’elettorato del centro-sinistra; e per la perdita di elettori a vantaggio del blocco rappresentato dal PdL: «Le formazioni di centro-sinistra accusano un saldo negativo tra i flussi di mobilitazione e smobilitazione pari a circa il 4 per cento dell’elettorato… mentre il PD perde a favore dei partiti di centro-destra circa il 10 per cento di coloro che avevano votato nel 2006 per l’Ulivo».
I radicali sono stati accusati di miopia politica per esser rimasti irriducibilmente coerenti con quanto avevano promesso fin dal primo giorno, e che cioè sarebbero stati “gli ultimi giapponesi del governo Prodi”. Si sono raggiunte, nella polemica nei confronti di questa posizione politica, livelli di sconcertante volgarità, anche da parte di osservatori un tempo attenti e capaci di valutazioni interessanti. È utile attingere ancora dalla ricerca di Italian Election Studies, che ha posto al campione di interpellati la domanda se davvero il governo Prodi era così impopolare. La risposta è insieme interessante e sorprendente: si ricava che sì, il governo Prodi era “antipatico”, ma nella stessa misura in cui veniva percepito il precedente governo, guidato da Silvio Berlusconi; non solo: la stessa impopolarità e “antipatia” che gravava sui governi uscenti dal 1996 in poi: «Il cambio di leadership e la rinuncia strategica a rivendicare continuità con l’azione del governo uscente ha significato per il PD giocare esclusivamente sulle aspettative future le proprie ch’ange di vittoria». Il risultato è stato che l’elettorato «non ha percepito significative differenze nell’offerta del PD… e la delusione per la discontinuità propugnata dal PD si è sommata a una valutazione tutto sommato contenuta della capacità di governo della nuova formazione politica, che ha trovato in quote significative di elettori uno sbocco nell’astensione o in un voto per il Popolo delle libertà». Quasi il 14 per cento dei non votanti nel 2008 ha dichiarato di collocarsi comunque nel campo della sinistra; a questo va aggiunto un 7,1 per cento che si colloca nel centro-sinistra. Nel campo della destra si colloca un 6,6 per cento, nel centro-destra un 7,3 per cento.
Conclusione: «Il PD non sembra essere riuscito a distaccarsi dall’eredità del passato. La sostanziale stabilità dei voti percentuali ed assoluti con le passate elezioni ha confermato le debolezze del partito nelle zone d’Italia dove il centro-sinistra non era mai riuscito a penetrare, mentre i maggiori successi sono stati riportati in quei comuni dove già trent’anni il PCI era egemone».
Anche questo “catalogo” di informazioni che emergono dall’Itanes potrebbe (dovrebbe) far parte delle domande, delle questioni che (finalmente) si dovrebbe porre il PD; assieme alle domande e alle questioni che poneva la candidatura (negata) alle primarie di Marco Pannella e ora quella alla guida dei giovani del PD di Giulia Innocenzi; ed è ancora una questione aperta il NO ai radicali e il SÌ all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro in occasione delle ultime elezioni.
Ne vogliamo cominciare a discutere, caro Orlando, su Europa? E chissà che poi anche sull’Unità di Concita De Gregorio se ne cominci a parlare, come chiede Manconi.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 6 novembre 2008)