«Australia senza battesimo
terra di cenci di luna
ricuciti sotto una pelle
cotta di sole.
Terra di vento
Con deserti di polvere
E fiato di colline».
(L.C., da Australia senza battesimo)
Di lui il critico letterario Chris Wallace-Crabbe ha sentenziato: «Non conosco alcun poeta di lingua inglese, che scriva in Australia al momento, capace di combinare in questo modo aspra potenza e tersa eleganza». Poeta emigrato per eccellenza, Lino Concas nasce a Gonnosfanadiga (CA) nel 1930. Il padre, minatore e bracciante agricolo, invalido di guerra, e la madre, bracciante agricola, entrambi analfabeti, seguiranno con orgoglio i progressi scolastici del figlio che, frequentate le scuole elementari del paese, entra in seminario compiendovi gli studi ginnasiali e liceali, prima a Cagliari, poi ad Ancona. Sono gli anni del fascismo; come riporta Piero Genovesi, gli anni duri segnati dai traumi della guerra che il Concas ancora oggi rievoca tornando con la mente ai bombardamenti che colpirono anche il suo paese. È di quei primissimi anni di vita dunque, la formazione artistico-poetica di un Concas che scappava di casa per andare a vivere dai pastori, stare con loro anche dei mesi. A Cagliari e Sassari il poeta studierà lettere e filosofia terminando gli studi che, nel 1957, lo portano al sacerdozio. Agli inizi degli anni ’60 si trasferisce in Australia dove opera a contatto con le collettività italiane immigrate; dove il pastore e l’aborigeno s’incontrano dando vita ad un canto universale di sofferenza, umanità dolente, passione, meditazione sulle origini, redenzione («…Io nella strada d’inferno/ tu nella mia strada/ col dolore della mia ferita/ col sangue del tuo amore». Da “Incontro”). Nel 1965 pubblica il volume di poesie Brandelli d’Anima («…Così mi appare/ più bella la notte/ quando il viso tuo/ nascondi/ nel pianto delle stelle». Da “Solitudine”), che rappresenta il primo passo di un cammino poetico che durerà una vita. Nel 1972, ottenuta speciale dispensa dall’allora Papa Paolo VI; il Concas lascia il sacerdozio per crearsi una famiglia; quell’anno formerà anche un rinnovato impegno nell’insegnamento. Vari i premi e riconoscimenti letterari attribuiti a Lino Concas nel corso degli anni da pubblico e critica; due volte vincitore del Premio Internazionale Taormina il poeta appartiene alla rosa dei massimi esponenti della letteratura degli italiani d’Australia. Risiede ed opera a Melbourne.
«…La mia età grinzosa,
i miei panni sporchi.
Lontananza all’angolo
Stretta alla parete
Dove solo ricordi».
(L.C., Le Due Età)
Lino Concas uomo: perché e come dalla Sardegna all’Australia?
«Ho lavorato in diverse parti dell’Isola, posso dire in tutte le quattro province, nel mio impegno pastorale. Non perchè non fossi contento del mio lavoro, ma desideravo dare qualcosa di meglio ai sardi più lontani. Non dimentichi che proprio il periodo che doveva segnare la rinascita della Sardegna è stato anche il periodo più massiccio dell’emigrazione. Dati statistici indicano fra le 400 e 600 mila unità, nel decennio tra il 1961-1971. Da una tabella statistica ricavo che i sardi emigrati in Australia sarebbero ancora oggi 3056. Davanti a questo esodo di così grandi proporzioni, pensai che non si potesse rimanere indifferenti e decisi di emigrare anch’io come cappellano degli emigrati. Per questo lasciai la Sardegna per l’Australia nel 1963, dove ho lavorato a contatto con la collettività italiana e soprattutto sarda. Posso dire di non essermi pentito. Trovai al mio arrivo un’accoglienza fantastica. Così mi sentii emigrato come loro condividendo le loro scelte e gli stessi sacrifici.
«Li incontrai nei lavori più faticosi, come nelle isolate terre della coltivazione del tabacco e della canna da zucchero, in tutte le zone in cui sapevo fossero presenti dei sardi. Per un anno poi ho lavorato come semplice operaio in una fabbrica e dal 1972 fino al 2000 mi sono dedicato principalmente all’insegnamento».
Quando, se esiste un quando, è nato il poeta?
«La poesia è stata la prima forma educativa impartitami da mia madre. Me la recitava come fossero dei salmi e delle preghiere e me ne spiegava il contenuto. Così attraverso filastrocche e canzoni affinava la mia sensibilità. Imparavo a vedere le cose e le persone con sentimenti diversi. Così pure dopo la scuola mi rifugiavo tra i pastori, chiedevo anche a loro di cantarmi qualche filastrocca. Mi innamoravo della natura e cominciai ad apprendere quel rapporto di amore tra l’uomo e le cose. La natura mi appariva come l’uomo; avvolta in un sentimento luttuoso. Più volte mi fermavo ad interrogarla e la sua risposta era il vento, il granito, le rocce, i monti con le sue vette aguzze e isolate e i sugheretti spellati, curvi senza perdere per questo la loro forza... Un “osso di seppia”, imparai più tardi.
«L’Australia mi ha suggerito temi nuovi, ma della stessa sostanza».
Rapporti con gli australiani agli inizi, attualmente.
«L’uomo cammina, naviga e sotto questi cieli pone la sua dimora. Alcuni sono felici, altri meno. Molti sono gli emigrati venuti in Australia, specialmente nel dopo guerra, tutti con la speranza di arricchire la propria esistenza. Molti sono venuti e ci sono rimasti, altri per un breve periodo; quel tempo necessario a poter mettere da parte due soldi per pagarsi il biglietto di ritorno. Altri invece scoprono di non potersene più andare; vivono nella nuova terra trascinandosi tra due paesi senza averne uno. Altri ancora si sono bene inseriti, si sono innamorati del nuovo paese, sono riusciti ad inventarsi una nuova vita, hanno fatto propria la lingua, le usanze, la storia di questo paese. Io che ho raccolto col mio lavoro centinaia e centinaia di testimonianze, posso assicurare che le parole più frequenti erano “sacrificio”, “tenacia”, “delusione”. Su queste tre parole si racchiude la vita della maggior parte degli emigrati. C’è stato un momento in cui gli italiani venivano considerati gente pericolosa. E che dire poi degli italiani che si sono trovati in Australia allo scoppio della seconda guerra mondiale, quando la nostra comunità era considerata “un gruppo straniero nemico”! Quando i fermi, le detenzioni, gli internamenti civili avevano diviso e gettato nella miseria numerose famiglie italiane. Anche nel dopoguerra il multiculturalismo era una parola nemica, mentre l’integrazionismo era la sola parola d’ordine. Oggi gli italiani godono di pari diritti e doveri. Sono apprezzati non solo per la buona cucina, ma soprattutto per aver contribuito a migliorare la vita socio-economico di questo paese, direi anche di essere portatori di valori spirituali, uno slancio di rinnovamento interiore non solo per un maggior rapporto culturale, ma principalmente in funzione di un legame di reciproca stima e fiducia».
Cosa più le manca della Sardegna?
«Mi manca la sua gente, il suo paesaggio, la mia fanciullezza. È un popolo che stimo moltissimo per la sua laboriosità, la sua tenacia, il suo coraggio, un popolo chiuso, ma generoso. Quanto più leggo la storia di questo popolo, più mi convinco che sia un popolo che abbia sofferto molto, abbia combattuto per darsi o meglio ritrovare la propria identità. E questo mi rende fiero di appartenergli. Mi manca il suo paesaggio, scenari che evocano atmosfere primitive, i suoi villaggi, i suoi costumi, le sue montagne, la sua vegetazione a tratti selvaggia, le sue rocce, ma anche le sue città, una terra saccheggiata; mai domata. Mi manca la mia infanzia, il mio salire ai monti, il belare e il mungere delle capre, l’agnellino che mi veniva vicino, la figura di mia madre quando intrecciava al telaio i fili per fabbricare l’orbace e raccontava storie antiche, la vendemmia, la mietitura e la faccia sorridente di mio padre. Mi manca l’anima di questa terra con la sua lingua, la sua religiosità, le sue tradizioni».
Se potesse paragonare l’Australia ad un fiore, quale sarebbe e che profumo avrebbe? E la Sardegna?
«Dicono che i fiori australiani non abbiano profumo, forse risentono della freddezza anglosassone. Comunque se potessi paragonare l’Australia ad un fiore sceglierei l’orchidea, ricca di sessualità per il suo paesaggio, per le belle fanciulle così esuberanti e per l’amore che ormai ci lega. Per quanto riguarda la Sardegna sceglierei la passiflora. Si, perchè è il simbolo della sofferenza, ma dopo la croce il profumo della resurrezione e perciò della Rinascita sarda».
Da sardo in Australia come sente il rapporto socio/politico ed economico della Regione Sardegna nei confronti dei figli lontani? E dell’Italia?
«Credo che la comunità sarda in Australia abbia più volte dimostrato di sentirsi ancora parte integrante del suo popolo e di voler in qualche modo sentirsi partecipe del processo di sviluppo della sua terra. Faccio presente quanto di recente ha affermato l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga in occasione di “Sa die de sa Sardigna” in Lombardia: – Non credo che si possa inventare – diceva – una nuova Rinascita se prima non si ribadisce la rivendica della propria identità e del proprio specifico, che ho trovato più fuori dalla Sardegna che nell’Isola. C’è più sardismo – sottolineava Cossiga – in Continente, in Europa, e perfino in Canadà e in Australia. E a proposito di Australia precisava: – quando sono andato in visita ed ho incontrato la comunità italiana, 30 mila italiani, quel che mi ha colpito di più di tutto è stato vedere i sardi, vestiti con i loro costumi e con la bandiera sarda, orgogliosi di essere sardi. È vero che gli emigrati hanno una loro “Patria”, ma è anche vero che hanno e vogliono avere la loro “Regione”, un governo nazionale attento e sensibile ai problemi dell’emigrazione, ma anche un governo regionale che agisca con la stessa attenzione e sensibilità, considerando i sardi emigrati come parte costitutiva della collettività regionale. Quindi l’equiparazione dei diritti rimane un principio fondamentale, la partecipazione degli emigrati alla vita politica, sociale ed economica della Sardegna, non solo partendo dall’informazione, ma estendendosi anche ai diritti di voto. Così i sardi in Australia si rammaricano per la mancata istituzione del “Collegio estero” e per il voto per corrispondenza per le elezioni regionali. Si parla poi di “paternariati”, di partecipazione economica, ci si chiede di essere direttamente protagonisti della propria Regione sulla leva della personalità acquisita e anche del risparmio che si vorrebbe che lo si ripiegasse produttivamente nella propria terra di origine. – Ma come si fa – osserva Aldo Ledda, meglio conoscitore dei problemi dell’emigrazione e della Sardegna, nel suo libro I Sardi nel mondo – se davanti al rientro si frappongono mille difficoltà di ordine burocratico da parte degli uffici competenti isolani. Così può accadere che una cooperativa di emigrati proponga il suo piano di attività, e riceva informazioni imprecise e disarmanti, senza garanzia di tempi calcolati o senza sicurezza dei contributi previsti, o addirittura si sentano osteggiati convincendosi così di essere respinti ed emarginati. Ci si chiede poi: quale volto la Regione Sarda deve dare ai Circoli sardi sparsi nel mondo se si vuole recuperare la seconda e terza generazione? Che i Circoli non siano solo centri efficienti di investimenti economici, ma anche culturali se non vogliamo che la nuova generazione abbia solo un legame generico con con la Regione e con l’Italia».
Giovanna Mulas
(da “Bottega letteraria” n. 17 – 'l Gazetin, settembre 2004)
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