Locri e la Magna Grecia: «Veniva quel giorno dal Capo Zephyrio un furioso vento di scirocco trascinando nuvole nere; scuro e ribollente era lo Ionio, tanto che, senza la selva di agrumi che spuntavano dagli orti cintati, non avrei riconosciuto la dolce terra di Locri: Persefone aveva chiuso il ciclo della sua riapparizione terrena, ed era tornata sorridente ad assidersi sul suo trono di regina, accanto a Pluto, nel buio regno dei morti…» (Amedeo Maiuri, Tra Locri Antica e Nuova, 1951)
«Per sentieri stretti e polverosi procediamo sotto un sole crudele che arroventa la campagna piena di silenzio. Olivi giganteschi dai tronchi robusti come pilastri custodivano la pace della natura, appena turbata da voci pacate che si levano dalle trincee degli scavi, sparse tra gli alberi secolari non ancora abbattuti…» (Vincenzo Ciardo, Brutium, 1957)
Locri è ricordata come patria di Zaleuco, primo legislatore del mondo occidentale e ha avuto varie fasi storiche, riferite alla colonizzazione greca (VII sec. a.C.).
Interessante è la visita al parco archeologico dove sono visibili le grandi mura che perimetravano per oltre 7 km. l’antica città, l’area del rione artigianale e commerciale detto “Cento Camere”, il Tempio Jonico di Marasà e le torri di difesa e di avvistamento. Sulla collina di “Pirettina” sono visibili i resti del teatro greco-romano. Reperti archeologici di notevole interesse si trovano al Museo Nazionale cittadino (Calabria, Viaggio nella Riviera dei gelsomini).
Locri Epizephyrii (presso il capo “Zephyrio”, oggi capo Bruzzano), fondata da coloni provenienti dalla Locride greca nel VII sec. a. C. fu una delle più fiorenti città della Magna Grecia tanto da essere chiamata da Platone «Fiore dell’Italia per nobiltà, per ricchezza e gloria delle sue genti».
Nel museo di Locri l’Archeologia diventa materia viva e racconta nei pannelli i riti, le credenze, la storia della Magna Grecia, di quel mondo passato ma così presente e vivo nell’arte: la pittura vascolare, i manufatti e le suppellettili ne sono una chiara testimonianza.
Il museo offre, con l’insieme dei reperti archeologici e le didascalie, una lettura dettagliata del periodo storico che rappresenta ed è una guida sicura per i visitatori e gli studenti.
-Il sole brucia la terra nelle ore più calde delle giornate di agosto, ma sui volti degli abitanti si legge la bontà tipica del luogo: aspettate, e la donna mi portò una bottiglia di acqua freschissima. Aveva un’età indefinibile, con abiti contadini, mi porse l’acqua e mi sorrise; solo tre denti arricchivano la sua bocca ma io vi lessi il cuore della Locride e l’abbracciai con amore; in quel sorriso avevo ritrovato lo spirito antico dei valori ancestrali dell’ospitalità, gesti semplici che si ripetono come imeravigliosi fichi d’india che mangiai con golosità; solo il pennello di un pittore potrebbe rappresentare i monti ricoperti dai fichi d’india a perdita d’occhio-.
Incisiva nel territorio è la religione con i suoi riti antichi che si ripetono annualmente, a seconda delle ricorrenze in tutti i paesi con grande affluenza di fedeli; notevoli sono le festività della Pasqua dove ricorrente è il tema dell’ “Affruntata”: tre statue, raffiguranti Maria Addolorata, Gesù e San Giovanni che vengono trasportate a spalla per il paese a simboleggiare l'incontro dopo la resurrezione di Cristo.
San Luca e la Madonna di Polsi: San Luca fu fondata nel 1592 dai profughi della città di Potamia. Nel suo territorio c’è il famoso Santuario della Madonna di Polsi, di origine basiliano-normanno, fondato da Ruggero il Normanno nel 1144.
San Luca ha dato i natali a Corrado Alvaro (1895-1956), il più grande scrittore calabrese contemporaneo. Nella monografia “Calabria”, lo scrittore scrive: “Dirò di una festa che è forse la più animata delle Calabrie. Le feste fanno conoscere la natura degli uomini. Nell’Aspromonte abbiamo un Santuario che si chiama di Polsi, ma comunemente della Madonna della Montagna. È un convento basiliano del millecento, uno dei pochi che rimangono in piedi nelle Calabrie. La Madonna è opera siciliana del secolo XVI, scolpita nel tufo e colorata, con due occhi bianchi e neri, fissi, che guardano da tutte le parti”.
“Ognuno fa quello che può per fare onore alla Regina della festa: la gente può portare, essendo scampata da un male, un cero grande quanto la persona di chi ha avuto la grazia, o una coppia di buoi, o pecore, o un carico di formaggio, di vino, di olio, di grano; ci sono tanti modi per disobbligarsi con la Vergine delicata, come la chiamano le donne. Uno, denudato il petto e le gambe, si porta addosso una campana di spine che lo copre dalla testa ai piedi, spine lunghe e dure come crescono nel nostro spinoso paese, e che ad ogni passo pungono chi ci sta in mezzo. Una femminella fa un tratto di strada sulle ginocchia; e così le ragazze fanno la strada ballando, e balleranno giorno e notte per le ore che hanno fatto il voto, fino a che si ritrovano buttate in terra o appoggiate al muro, che muovono ancora i piedi. E i cacciatori, poi, che fanno voto di sparare alcuni chili di polvere, in quei giorni non si parla di porto d’armi, e i Carabinieri lo sanno. Gli armati si dispongono nei boschi intorno al Santuario e sparano notte e giorno […]
Si vedono le mille facce delle Calabrie. Le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova. […] Sul banco coperto di un lino, le donne buttano gli orecchini e i braccialetti; gli uomini tornati da una fortunata migrazione le carte da cento e da più: è una montagna d’oro e di denaro che per la prima volta nessuno guarda con gli occhi cupidi. La Vergine guarda sopra tutti, e i gioielli degli anni passati la coprono come un fulgido ricamo […]
Al terzo giorno di Settembre si fa la processione e si tira fuori il simulacro portatile […] tra lo sparo dei fucili che formano non si sa che silenzio fragoroso, non si sente altro che il battito di migliaia di pugni su migliaia di petti, un rombo di umanità viva tra cui l’uomo più sgannato trema come davanti a un’armonia più alta della mente umana. Le semplici donne che non si sanno spiegare nulla, si stracciano il viso e non riescono neppure a piangere […]”.
La leggenda della Vergine di Polsi racconta che nel IX secolo alcuni monaci, provenienti dalla vicina Sicilia, a causa delle incursioni saracene, si spinsero nel cuore dell’Aspromonte, ai piedi di Montalto, dove fondarono una minuscola colonia e costruirono una piccola chiesa. A causa del disagio per la lontananza dagli altri villaggi, il luogo fu abbandonato.
Nell’XI secolo un pastore, di nome Italiano, mentre cercava un toro smarrito, vide l’animale che dissotterrava una croce di ferro; seguì a questo l’apparizione della Beata Vergine con il Bambinello in braccio che disse: “Voglio eretta una chiesa…per diffondere le mie grazie sopra tutti i devoti che qui verranno a visitarmi”. Per questo fu costruito un santuario dove all’interno, tutt’oggi, sono conservate la statua della Madonna della Montagna di Polsi, una scultura in tufo di notevole bellezza e lucentezza, la Santa Croce e vari cimeli tra i quali la bara del principino di Roccella.
«Questo Santuario», ha scritto l’illustre latinista taurianovese Francesco Sofia Alessio (v. Storia della Calabria) nella prefazione del suo poemetto “Feriae montanae”, «fu fondato al tempo di Ruggiero il Normanno, dopo che un pastore vide un torello genuflesso dinanzi ad una Croce greca, che si conserva ancora, e dopo l’apparizione della Vergine, che volle un tempio nella Valle di Polsi per richiamare intorno a sé i fedeli di Calabria e di Sicilia.
Innumerevoli sono i miracoli operati dalla Vergine della Montagna e le grazie concesse.
Nell’anno 1771, i principi di Caraffa, ottenuta per intercessione di Maria prole maschile, si recarono al Santuario per ringraziare la Vergine, ma giunti presso Bovalino il bambino morì. I Principi, composto il corpicino in una bara, ripresero il viaggio con la ferma fede che la Madonna lo avrebbe restituito in vita. Entrati nel Santuario esposero sull’altare il cadaverino e cominciarono a recitare le litanie, e quando si venne all’invocazione Sancta Maria De Polsis il bambino aperse gli occhi e tornò in vita. La bara si conserva ancora nel Santuario».
Il fedele che si reca per la prima volta a Polsi ci ritorna volentieri, come traspare dal canto di cammino:
Vergini bella, japrìtindi li porti,
ca stanno arrivando li devoti Vostri.
E nui venimu sonando e cantandu,
Maria di la Montagna cu’ Vui m’arriccumandu.
Vergini bella, dàtindi la manu,
ca simu forestieri e venimu di luntanu.
M’arriccumandu la notti e lu jornu,
‘na bona andata e ‘nu bonu ritornu!.
La statua in pietra, domina quel santuario umano che le eleva canti e preghiere ed invoca grazie incessantemente, con fede caparbia: “…eu non mi movu di cca si la grazia Maria non mi fa…” ( io non mi muovo di qua se Maria non mi fa la grazia).
Finalmente la processione. Le mani dei suonatori si animano, le dita volano abilmente sulle canne della zampogna e sui tamburelli, e le note si frangono sulle vetuste costruzioni che circondano il santuario e l’eco le propaga sempre più lontano. (da Maria A Cristo dentro la Fede aspromontana)
La Locride è un viaggio nella storia che lascia nel cuore un segno indelebile di stupore, di ammirazione e di sgomento.
Anna Lanzetta