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Sul trattato Italia-Libia
28 Ottobre 2008
 

Il 30 agosto scorso, il Presidente del Consiglio Berlusconi ha voluto suggellare il lento ma costante riavvicinamento della Libia alla comunità internazionale avviato dal primo Governo Prodi nel 1998 con la firma di un Trattato di “Amicizia, partenariato e cooperazione”. Dopo ripetute nostre sollecitazioni il 16 ottobre il testo è stato inviato al Senato anche se non ancora assegnato alle commissioni competenti.

A una prima lettura salta agli occhi una chiara questione politica; infatti, all'articolo 2 è scritto che i due Paesi «rispettano il diritto di ciascuna delle Parti di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale». Una clausola inaccettabile se consideriamo che, negli ultimi quarant'anni, il regime libico si è caratterizzato per la sistematica di persecuzione di ogni forma di dissenso politico, per la repressione sistematica delle libere opinioni individuali e delle associazioni non riconosciute dal regime, per l'assenza assoluta di organi di stampa indipendenti, per l'incarcerazione o la sparizione degli oppositori politici, per il ricorso a tribunali segreti e la tenuta di processi a porte chiuse, nonché per la pratica della tortura e della pena di morte.

Riteniamo che trattandosi di impegni politici ed economici sottoscritti a nome del nostro Paese occorra un'approfondita conoscenza tanto delle caratteristiche del regime libico quanto del dettaglio del Trattato. A questo regime l'Italia riconoscerà il diritto di «sviluppare liberamente il proprio sistema politico» e, magari quindi, di continuare, per un altro mezzo secolo, sulla strada della repressione di ogni forma di libertà.

L'unica notizia del Trattato che ha destato un minimo di dibattito, e la solita catena di smentite, è il famoso articolo 4.2 col quale le parti si impegnano a «non usare o permettere di usare il proprio territorio per atti ostili». La questione è la compatibilità di questo impegno cogli obblighi italiani previsti in un altro trattato, quello dell'Alleanza Atlantica. Ora, l'articolo recita «Nel rispetto dei principi della legalità internazionale». È ovvio che questo incipit sia stato utilizzato per accontentare ambo le parti, ma siamo sicuri che, in caso di controversie, questa formulazione possa produrre gli effetti desiderati? Cosa s'intende con “legalità internazionale”? Un conto è il “principio di legalità” che ha un significato ben preciso, ma di solito si usa per il diritto penale (internazionale o non) un conto la formulazione generica del trattato. Se si vuol dire che il diritto internazionale va rispettato e gli obblighi liberamente contratti vanno rispettati (pacta sunt servanda), la formula non risolve il problema fondamentale di quale dei due obblighi contratti dall'Italia (verso la Libia e verso la Nato) prevalga. Nel caso in cui la Nato decidesse di attaccare la Libia, secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, l'Italia sarebbe obbligata ad adempiere al patto con la Libia e non a quello con la Nato, perché il trattato Italia-Libia è successivo a quello Nato. I primi di settembre abbiamo letto sulla stampa internazionale che la Nato ha commentato con un “tutto a posto” la notizia della conclusione del trattato, ma ci sembra una posizione più politica che legale. Infatti, l'unica maniera per la quale il “principio di legalità internazionale” potrebbe permettere all'Italia di offrire il proprio territorio alla Nato per operazioni contro la Libia, senza rendersi responsabile della violazione del trattato, è se l'operazione in questione fosse richiesta o autorizzata dal Consiglio di Sicurezza, in quanto la Carta delle Nazioni Unite prevale su ogni trattato. Ora, siccome non sempre la Nato richiede e ottiene il benestare del Consiglio prima di agire (come nel caso del Kosovo nel 1999), ci sembra che si diano per scontati troppi elementi al fine di praticare la tradizione italiana delle alleanze di convenienza.

A ben vedere, poi, nel Trattato le parti si sono impegnate a ben poco. Nella maggior parte degli articoli si elencano varie attività, ma non come e quando si metteranno d'accordo (vedi art. 10, 14, 15, 16, 17 etc.). E se Roma e Tripoli non dovessero mettersi d'accordo? L'articolo che contiene la clausola di risoluzione delle controversie è tanto debolissimo da risultare quasi superfluo. In sostanza si lascia a intendere che se Italia e Libia dovessero avere controversie sull'applicazione del trattato, e ci si può scommettere, esse verranno risolte in modo pacifico. Molto, troppo, vago. Sarebbe stato molto meglio se l'articolo avesse dato il potere di risolvere controversie a richiesta di parte ad un tribunale arbitrale ad hoc, o alla Corte Internazionale di Giustizia.

L'articolo 8 sui «progetti infrastrutturali di base», al paragrafo 2 recita «Le aziende Italiane provvederanno alla realizzazione di questi progetti previo un comune accordo sul valore di ciascuno». Accordo fra chi? Il Presidente del Consiglio Italiano e Gheddafi? Il Parlamento, che alla fine dei conti dovrà ratificare l'esborso, sarà coinvolto? Come? E gli appalti alle aziende italiane verranno messi all'asta? O com'altro si prevede di distribuire i contratti? E se un giudice italiano ci volesse veder chiaro in uno di quegli appalti, che succederebbe? Potrà ottenere rogatorie in Libia, paese con il quale non ci risulta l'Italia abbia accordi di cooperazione giudiziaria? Il problema è che il Trattato, che è tanto rispettoso della sovranità libica, crea anche una zona d'ombra per le autorità giudiziarie italiane. Si creano le condizioni per speculazioni non trasparenti dalle dimensioni colossali dove alla fine chi ci rimette sono, oltre ai contribuenti italiani, quei poveracci in Libia i cui terreni saranno espropriati per fare strade, porti e aeroporti.

Al Paragrafo 5, la Libia «rende disponibili tutti i terreni necessari per l'esecuzione delle opere senza oneri per l'Italia». C'è quindi da aspettarsi migliaia di chilometri quadrati espropriati e, magari, nel conto ci finiranno anche proprietà che erano state già espropriate a italiani da Gheddafi a suo tempo. Che garanzie dà la Libia che nel mettere a disposizione i terreni i diritti umani (dei libici e degli italiani) vengano rispettati? E l'ambiente? Il trattato impegna le aziende italiane a contribuire «in maniera volontaria alle opere sociali e alla bonifica ambientale nelle zone dove realizzano i progetti» (art. 9.2). Chi controlla che sia gli italiani che i libici non devastino ambiente e si rispettino gli standard internazionali dei diritti umani dei libici? Ci pare del tutto inaccettabile che la costruzione di infrastrutture con danaro pubblico italiano in Libia debba sottostare unicamente alle norme di sicurezza e ambientali della Grande Jamahiriya. Esse non esistono. Occorreva insistere su standard internazionali e di trasparenza.

In soldoni l'accordo prevede che l'Italia doni 5 miliardi di dollari per strade, case, ponti etc; borse di studio, cooperazione in campo scientifico, agrario, peschiero, militare etc., ma è evidente che lo scambio in ogni settore è paritario solo sulla carta e che in realtà sia solo l'Italia a dare con la speranza che, in cambio, Tripoli si impegni a rispettare gli accordi in materia di immigrazione del 13/12/2000 e del 29/12/2007. In altre parole, gli italiani pagheranno profumatamente per fare quello che la Libia avrebbero già dovuto fare a suo tempo. Con buona pace del rispetto del principio di legalità internazionale! Un domani, quando avremo costruito ponti, strade etc. che garanzie ci sono che il ricatto non continui?

All'articolo 19 Tripoli si impegna a realizzare un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche. L'Italia che ha “frontiere colabrodo” offre alla Libia di realizzare un sistema per controllare 4.348 km di frontiere desertiche. Gli Stati Uniti che ne hanno 3.141 km col Messico non ci riescono con miliardi di dollari investiti e gli ultimi ritrovati della tecnologia. Come si può pensare che in pochi mesi il regime di Gheddafi possa far meglio di Washington? È così che il governo italiano pensa di risolvere il problema di quei poveri disgraziati che attraversano il Sahara e vengono sfruttati dai trafficanti libici per raggiungere, quando ce la fanno, Pantelleria e Lampedusa? In realtà, quest'articolo diventerà l'ennesimo alibi per la Libia che continuerà a dire che visto che il sistema non è stato realizzato (e non lo sarà mai!) è colpa delle scarse risorse dedicate dall'Italia alla questione se il flusso non cessa. L'uso cinico, e destabilizzante il nostro Paese, del dramma dei clandestini che partono dalle coste libiche continuerà come in passato con la differenza che ora, e per il futuro, grazie al Trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione», il regime libico ha ottenuto una copertura giuridica alla solita prassi del creare emergenze e del chiedere poi soldi per risolverle.

Dulcis in fundo, con l'Articolo 20, paragrafo 2, Italia e Libia «Si impegnano altresì ad agevolare la realizzazione di un forte e ampio parteneriato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari». Non solo scuse «per le sofferenze arrecate al popolo libico» nel periodo coloniale, non solo pieno «rispetto del sistema politico», non solo 5 miliardi di dollari per i prossimi vent'anni, ci sono anche armi e formazione militare da dare alla Libia, a cui il Rapporto Libertà nel mondo 2008 di Freedom House assegna un voto pari a 7, il peggiore possibile nella scala di valori utilizzata per valutare il grado di libertà esistente in un Paese.

Per combattere, con le armi della nonviolenza, il pericolo per la pace e la sicurezza che nel mondo possono rappresentare i regimi illiberali, che costituiscono oggi la maggioranza dei paesi membri dell'Onu, il Partito Radicale Nonviolento ha proposto fin dal 2002 la costituzione formale, politica, organizzata di una “Organizzazione mondiale della e delle Democrazie” che tenga una linea di condotta fondata sul rispetto dello stato di diritto internazionale e la non collaborazione economica coi dittatori. Il nostro Paese, che della Community of Democracies è socio fondatore e, grazie alla risposta fattiva del Governo Berlusconi alle sollecitazioni di cinque anni fa, oggi fa parte del comitato di pilotaggio di quel gruppo, pare non essere disposto né a riconoscere la vera natura del regime di Gheddafi né a negargli alimento per ben cinque miliardi di dollari nei prossimi vent'anni. Occorre che i cittadini elettori, e i loro rappresentanti in Parlamento, lo sappiano e inizino a organizzare una resistenza a questa pericolosissima tendenza a non rispettare il principio di legalità internazionale perché laddove vi é strage di diritto segue sempre quella di vite.

 

Sergio D’Elia,
segretario di Nessuno Tocchi Caino

Marco Perduca,
co-vicepresidente del senato del Partito Radicale Nonviolento,
Senatore eletto nelle liste del
PD

Cesare P.R. Romano,
docente di Diritto Internazionale, Loyola Law School, California

 

(da Notizie radicali, 28 ottobre 2008)


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